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The Folk Side of the Mood

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Tra le tendenze più rilevanti degli ultimi anni, certamente il rinnovato interesse per il folk, il blues, la tradizione - quella americana dei primissimi decenni del Novecento in particolare, ma anche quella dell'est europeo - ha certamente un ruolo essenziale, non solo per la rinvigorita riflessione [e conseguente riscoperta] su alcuni autori e musiche bellissime e che erano state obliate, ma anche perché, dopo la sbornia digitale, molti artisti hanno trovato strade nuove/vecchie per dare senso alla propria inquietudine creativa.

Tra interessanti ristampe e lavori nuovi, la materia è sempre viva e pulsante e cerchiamo qui di darvi una panoramica delle cose più significative uscite di recente.

Alasdair Roberts

The Amber Gatherers

Drag City - distr. Wide

Iniziamo dalla lettera A come Alasdair Roberts, musicista scozzese che giunge con The Amber Gatherers al suo terzo album. Undici canzoni, caratterizzate da una scrittura pulita e fortemente tradizionale, oltre che da una sonorità acustica guidata dagli arpeggi delle chitarre.

Le tinte sono delicate, ma Roberts non indulge eccessivamente in autocompiacimenti, preferendo un mood diretto e in un certo senso particolarmente pop che fa fluttuare le canzoni in una sorta di limbo che le rende piacevoli, ma anche vagamente inconsistenti. La voce è sottile e accompagna le melodie con dolcezza, sorretta dal bel lavoro dei musicisti, tra cui troviamo al basso Gerard Love dei Teenage Funclub. Cose come "I Had A Kiss Of The King's Hand" rimandano alle ballate più tradizionali e non ci metteranno molto a farsi canticchiare dolcemente. Senza tempo.

P.G. Six

Slightly Sorry

Drag City - distr. Wide

Su queste coordinate si muove anche P.G. Six, al secolo Pat Gubler, che torna dopo tre anni dall'ultima fatica con l'ottimo folk-rock di Slightly Sorry, disco dal suono corposo e avvolgente, caratterizzato da un'ottima compagine vocale femminile [in particolare Helen Rish] e dall'utilizzo di pianoforte elettrico e chitarre che stabiliscono subito una base rock.

Le canzoni funzionano e non solo per l'equilibrio degli elementi, ma soprattutto per una forza tra testo e musica che lascia il segno. Qualcuno magari noterà una inquietante somiglianza tra gli accordi di "Strange Messages" e quelli di "The Greatest" di Cat Power, ma il succedersi dei pezzi è un rotolio emotivo cui non è facile sottrarsi, che culmina nelle due cover, quella di "Not I The Seed" e della tradizionale "Lily Of The West", per chiudersi nel caldo blues-gospel di "Sweet Music". Che delizia!

Ghost

In Stormy Nights

Drag City - distr. Wide

Ci spostiamo decisamente a Oriente con In Stormy Nights, della cult-band giapponese Ghost. Guidati dal chitarrista Masaki Batoh, i Ghost sono dal 1984 un collettivo che si muove secondo traiettorie personalissime attraverso il rock, il folk, la psichedelia, l'improvvisazione. Questo nuovo lavoro si apre con l'ipnotica danza acustica di "Motherly Bluster", fiore che si apre in un prato d'archi che declina verso l'oblio.

Ma è certamente la lunghissima - quasi mezz'ora - "Hemicyclic Anthelion" a caratterizzare la prima parte del disco, con la sua epica costruzione sonora, elettrica e lancinante, dilatata e cosmica, come si faceva [ma Batoh e compagni lo fanno assai bene] trentacinque anni fa. Ci sono cose che appaiono un po' pesanti, come "Gareki No Toshi", la cover di "Caledonia" dei Cromagnon e una chiusura del cerchio acustico con la folkeggiante "Grisaille". Grande impatto emotivo!

Adjàgas

Adjàgas

Ever Records - distr. Audioglobe

Un folk senza frontiere, dicevamo, e una intrigante conferma ci viene dagli Adjàgas e dal disco che porta il loro stesso nome, Adjàgas, parola che in lappone indica lo stato del dormiveglia. Le norevegesi Sara Gaup e Lawra Somby, nucleo centrale di questo gruppo, hano deciso di tramandare e rinnovare infatti il suono della musica tradizionale Sami [nomadi lapponi] in una versione pop-folk dotata di seducente immediatezza.

Musicalmente il gruppo si rifà al concetto tradizionale di "yoik", forma che descrive le cose con suoni e non con le parole. Troviamo infatti nelle loro canzoni molti momenti vocalizzati, gutturali, che danzano insieme a intrecci acustici che sembrano rimandare a un passato comune con tante altre tradizioni folk. L'esito è sognante e un po' misterioso - in primis per la lingua - ed è un ascolto consigliato a chi voglia abbandonarsi all'incanto dei colori lividi che scivolano lungo le notti interminabili vicino al Circolo Polare Artico.

Ralfe Band

Swords

Talitres Records - distr. Wide

Se si prendono per buone le parole di Oly Ralfe, il leader della Ralfe Band, l'ispirazione per la sua musica viene "da Dylan e da Tom Waits, da Beck al folk balcanico, da Satie a Captain Beefheart". Credergli? Probabilmente sì, ma si farebbe forse torto alla fantasia di questa band se si cercassero a tutti i costi nobili ascendenze per un disco come Swords che vibra di una sua forza autonoma.

Creatura sonora inafferrabile, genericamente sbocciata da un germoglio folk che si è colorato di pollini e polveri piovute da chissà dove. Danza che crepita attorno ad un fuoco al tramonto [che meraviglia le movenze in tre quarti di "Women of Japan"], viaggio narrato e narrazione che si muove attraverso personaggi sempre vividi, chitarre e mandolini che vibrano al sole, inebriante malinconia, sbruffonata zingara in controluce, sorpresa continua. Un disco che è una meraviglia da serbare per i momenti migliori e le persone che si amano. Bellissimo.

Martyn Bates

Your Jeweled Footsteps

SubRosa - distr. Audioglobe

Artista che da sempre ha lavorato - a modo suo - con un intima concezione "folk", sebbene prepotentemente inserita nella temperie post-punk, Martyn Bates degli Eyeless In Gaza ha anche portato avanti una interessante carriera solistica e di collaborazioni, ora antologicizzata in Your Jeweled Footsteps, disco che copre un periodo che va dal 1979 al 2005.

La voce malinconica, l'uso di atmosfere sognanti e romantiche in cui confluiscono la tradizione anglo-irlandese e la poesia tormentata: venti brani, alcuni dei quali tratti dal disco forse più rappresentativo, Letters Written del 1982, ma anche le collaborazioni con Anne Clarke, Mick Harris o Max Eastley, per riscoprire un musicista caratterizzato da un'energia obliqua e inquieta.

John Fahey

Sea Changes and Coelachants

Table of the Elements - distr. Wide

Chiudiamo con un paio di ristampe/antologie da non perdere. La prima, doppia, è firmata dal grandissimo John Fahey: Sea Changes and Coelachants ripropone alcuni lavori degli anni Novanta come Womblife o la suite "Hard Time Empty Bottle Blues", una musica splendida e fuori dal tempo, essenziale punto di riferimento per chiunque voglia entrare nel mondo della chitarra e della tradizione americana. Classico.

Aa.Vv.

American Primitive Vol. II

Revenant

La seconda, anche questa doppia, ghiottissima e consigliata a scatola chiusa, è la raccolta American Primitive Vol. II [Revenant], ben cinquanta brani che spaziano dal 1897 al 1939 e pubblicati dalla Revenant dello stesso Fahey. Alle radici del folk, del blues, della musica americana tutta, i brani di John Hammond, Mattie May Thomas, Nugrape Twins e tanti altri, sono un viaggio nella memoria che non si dimentica.

In chiusura, rimandiamo alla recensione dell'ultimo CD dei danesi Homesick Hank, Leave it Behind [clicca qui per leggerla], che rientrano di diritto in questo filone stilistico, che - evidentemente - ha trovato in Scandinavia terreno fertile.

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