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The Cellar Door Sessions 1970 - Box 6 CD
Una essenza ritmica che diventa un vero e proprio paradigma per la musica a cavallo fra rock e jazz che deve ancora essere immaginata.
Un altro pezzo del puzzle riemerge finalmente dopo trentacinque anni di attesa. Ed è un pezzo praticamente decisivo, un jolly, una carta matta, una tessera multicolorata che ha la capacità di legare assieme brandelli che non si riusciva a far combinare, estremità frastagliate che parevano impossibili da allineare. E invece la magia di queste quattro serate pre-natalizie, in una improbabile Washington pre-Watergate, rimette tutto a posto, nella lunga cavalcata del trombettista che ha cambiato la storia della musica del ventesimo secolo.
La musica dalle mille sfaccettature di Bitches Brew e le successive varianti dense di suggestioni orientali portavano direttamente alla svolta quasi-rock di Jack Johnson nell’aprile del 1970 e poi, dopo un lungo balzo, ci eravamo ritrovati abbagliati dalle esplosioni multi-colorate, multi-etniche, multi-multi di On the Corner, registrato nel mese di giugno del 1972. Per ricostruire il tessuto connettivo che legava queste due fasi della musica di Miles Davis avevamo avuto a disposizione materiale importante che però era sempre in qualche modo incompleto. Tralasciando la copiosa disponibilità di documentazioni ufficiose risalenti soprattutto al tour europeo dell’autunno 1971, la discografia ufficiale di quella transizione di grandissimo valore inizia con i quattro concerti del Fillmore di New York a giugno del 1970, usciti in forma decisamente editata nell’album Miles at Fillmore e annunciati in forma integrale in uno dei prossimi cofanetti Columbia.
Si proseguiva con la performance di fine agosto 1970 al festival dell’isola di Wight. Un concerto meraviglioso ma piuttosto breve che era uscito all'epoca in forma del tutto incompleta e che solo l’anno scorso è stato pubblicato integralmente sul bellissimo DVD Miles Electric: A Different Kind of Blue. Come degna conclusione avevamo avuto il doppio album live denominato Live/Evil (al di là del titolo suggestivo, in realtà alcune brevi parti erano invece state registrate in studio). Un album basato al 90% su registrazioni prese dall’ultima serata di un ingaggio di 4 giorni in un piccolo club di Washington, DC.
Era la settimana prima di natale del 1970, Jimi Hendrix era morto da 3 mesi, nel frattempo la straordinaria band che si era esibita con Miles al Festival dell'isola di Wight aveva perso per strada Dave Holland e Chick Corea e i critici erano piuttosto perplessi per la svolta funky che il basso di Michael Henderson aveva portato. Un ragazzino di diciannove anni che già da quattro o cinque anni suonava con Stevie Wonder, con Aretha Franklin e con Marvin Gaye (e scusate se è poco). Un ragazzino che probabilmente era stato segnalato a Miles dalla giovanissima moglie Betty Mabry, vera musa milesiana di quell’epoca. Il trombettista era del tutto refrattario alle farneticazioni dei critici bacchettoni ed era invece assolutamente convinto che quella era la strada da seguire e malgrado l’ingaggio scarsamente soddisfacente da un punto di vista economico, intravedeva in queste quattro serate la possibilità di solidificare la band. Al punto da arrivare a pagare i musicisti di tasca propria, pur di consolidare un progetto che sentiva particolarmente importante.
All’ultimo minuto Miles riuscì a convincere la Columbia a mandare lo staff tecnico per registrare integralmente i dieci set previsti: due per sera al mercoledì e al giovedì. Tre per sera nelle due conclusive giornate di venerdì e sabato. E di questi dieci magici set ben sei sono presentati in forma integrale in questo meraviglioso box che finalmente viene pubblicato dopo varie peripezie produttive. Solo per i concerti di sabato 19 dicembre il sestetto diventa un settetto con l’aggiunta di John McLaughlin, chiamato da Miles e da Teo Macero a completare la trama del gruppo con la sua zigzagante e irriverente chitarra elettrica.
Come si diceva, da questa quarta serata era stato tratto il materiale di Live/Evil e quindi si aveva una idea abbastanza precisa di quanto efficace fosse quel gruppo, mentre la band in sestetto, senza chitarra elettrica, non era mai stata prima d’ora documentata in questa formazione. Ed è davvero affascinante ascoltare come la musica si irrobustisce sera dopo sera in un crescendo di interplay che raggiunge vertici inebrianti che ci mozzano il respiro.
I musicisti sono tutti in un particolare stato di grazia e la musica non è mai ripetitiva e incerta. Se ne sta solenne e appassionata per tutto il tempo, aggrappata a pochissimi accordi, a riff ridotti all’osso, ad una essenza ritmica che diventa un vero e proprio paradigma per la musica a cavallo fra rock e jazz che deve ancora essere immaginata. La capacità di Jack DeJohnette di interpretare il pensiero ritmico che Miles aveva in mente è assolutamente magica e lui stessa riuscì a definirla con una frase che scambiò con il trombettista, cercando di chiarire verbalmente quello che il boss cercava di fargli fare: “Insomma tu vuoi che suoni con lo spirito di Buddy Miles unito alla mia tecnica...”.
Inutile aggiungere la risposta di Miles, da oltre un anno innamorato della musica di Hendrix e particolarmente impressionato dal progetto Band of Gypsys che si era materializzato al Filmore di New York per le due serate a cavallo fra il fine anno del 1969 e il primo giorno del 1970, dando certamente una spinta decisiva alle scelte ritmiche del trombettista, a partire dalla musica che Davis registrò per la colonna sonora del film Jack Johnson che non a caso prevedeva in origine Buddy Miles alla batteria (quando Buddy fece sapere all’ultimo minuto di non essere disponibile, venne sostituto dall’allora sconosciuto Billy Cobham).
Tornando a De Johnette non possiamo esimerci dall’affermare che la sua performance, nelle ventotto tracce di questo cofanetto, è straordinaria, potente e sottile allo stesso tempo, esattamente quello che la sua frase sopra citata vuole sottendere. La sua arte percussiva è messa ancor più in rilievo dall’eccellente contributo fornito dal percussionista brasiliano Airto Moreira, vero folletto della colorazione del ritmo e dello spazio, sempre pronto ad arricchire la scansione potente che arriva dalla batteria, sempre pronto a rispondere al leader con la magia di timbri assolutamente innovativi, almeno per l’epoca di queste registrazioni. Una componente organica che fluttua e si irrobustisce, che umanizza e addolcisce, che frastaglia e cuce. Una vera e propria centrale propulsiva di energia vitale e immaginifica al servizio della tessitura complessiva che sa essere sempre varia, malgrado l’apparente pochezza del materiale tematico.
Particolarmente abrasivo risulta essere il contributo del saxofonista Gary Bartz, impegnato a tenere un piede nella tradizione honking dei saxofonisti del rhythm and blues degli anni cinquanta e allo stesso tempo capace di sintetizzare il linguaggio jazzistico di chi lo aveva preceduto alla corte di Miles. Il suo fraseggio assume caratterizzazioni diverse quando passa dal sax alto al sax soprano. Nel primo caso è più portato a forzare la timbrica e a punteggiare ritmicamente il suo racconto, mentre col soprano le sue frasi diventano più ellittiche e assumono una caratteristica intonazione nasale che si esprime in lunghe volute che profumano di speziature orientali.
Il bassista Michael Henderson è assolutamente perfetto ad inventarsi un ruolo e un suono basato sulla sintesi, sulla distillazione di idee ritmiche che sono basate apparentemente sul nulla, su pochissime note ribattute all’infinito e però sempre perfettamente centrate al posto giusto. Una vera spina dorsale che consente a DeJohnette di girare attorno al ritmo come un gatto potrebbe fare con un topo, per poi spiccare il grande balzo. La maturità di questo giovanissimo bassista è davvero impressionante e senza apparente sforzo scrive qui un trattato esaustivo sull’arte del basso funky in territorio jazz, disegnando nuove mappe, nuove rotte, nuovi paesaggi in un colpo solo.
In queste magiche notti Keith Jarrett è straordinario. Difficile trovare un altro aggettivo per definire la sua capacità di salire sull’onda ritmica fornita da Henderson, da DeJohnette e da Moreira, per intrecciare la sua danza fatta di figure magiche che si inglobano furiosamente una nell’altra, come a voler evocare le nubi minacciose di un temporale che poi lasciano spazio a larghi squarci di sereno dove si arriva a tratteggiare una pacatezza bucolica che sembra farsi beffe della tensione precedente. La sua capacità dionisiaca di improvvisare partendo da strutture minimali è già ben delineata ed è esemplare la sua abilità nel piegare con assoluta determinazione e beffarda indifferenza le timbriche elettriche di strumenti che pure non ama particolarmente. Solo un ‘l
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