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Testimoni del '68: Vittorio Franchini
ByCosì fra una scontro fra polizia e katanga non mi era facile trovare qualche spazio per seguire la musica. Nell'Aula Magna della Statale, per esempio, dove Liguori al piano e Mazzon alla tromba erano sempre protagonisti e accanto a loro crescevano altri giovani che facevano del free, dell'avanguardia, a volte musiche davvero poco decifrabili ma cariche di entusiasmo: Daniele Cavallanti, per esempio, Tiziano Tononi, e dal Veneto arrivava a volte Renato Geremia col suo violino pungente e altri ancora. Quei concerti erano preceduti da un dibattito sui temi del momento, la musica gratis, il voto collettivo, tutte istanze che stabilivano il clima di quelle riunioni spesso tempestose, molti oratori, molte idee ed io in mezzo, a volte applaudito, a volte fischiato: ero pur sempre un cronista del Corriere della Sera, giornale certo non allineato con la protesta giovanile.
Così dovevo bilanciarmi fra il mio aderire a certe iniziative, nella musica in modo particolare, e il mio essere un borghese qualunque. Anche Gaslini era della partita: avevo recensito bene il suo Fiume furore e lui mi aveva chiesto, con ironia, se scrivevo per l'Unità o per il Corriere. In realtà ero uno dei capiredattori e avrei dovuto rimanere seduto sulla mia poltrona. Ma con tutto quello che accadeva non me la sentivo di rimanere a vedere e così eccomi nella mischia. Un collega mi aveva ribattezzato l'Amiri Baraka italiano perché cercavo sempre di decifrare e fare emergere le istanze sociali che sentivo presenti nelle nuove musiche e nel 1972, al mio primo incontro con il santone del free jazz, Ornette Coleman mi aveva detto: "Interessante il tuo articolo, ma io, davvero, non ho mai messo nella mia musica tutte quelle idee sociali di cui tu parli." Insomma cercavo di capire, di trovare nella sostanza della nuova musica quelle vibrazioni, quei sentimenti, quelle esplosioni, anche, che mi venivano dalla strada.
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