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Testimoni del '68: Franco Fayenz

Alla distanza, il mio ricordo del Sessantotto, soprattutto del post-sessantotto musicale che è quello che m'interessa, non è positivo.

Tutt'altro.

L'ambiente della musica accademica ne uscì quasi indenne avendo avuto la fortuna (in questo caso) dell'ignoranza che lo circondava. Diversa - quanto meno in Italia - fu la sorte del jazz, scelto da moltitudini di giovanissimi come musica pervasa da un forte significato politico (di sinistra: non venne in mente a nessuno che potesse essere di destra, e in ciò il puro istinto vide giusto).

L'analisi dei motivi del fenomeno mi porterebbe troppo lontano. Ma stando ai fatti, il jazz non ebbe mai, dalle nostre parti, un simile concorso di pubblico, neppure negli "incoscienti anni trenta" del secolo scorso, o nel dopoguerra per l'entusiasmo che suscitò la musica del Dixieland Revival.

Ma fu facile capire che il jazz era un pretesto per esserci, per stare insieme.

A dieci metri dal palcoscenico nessuno ascoltava più nulla: tutti pensavano ai fatti propri, chiacchierando e muovendosi, anzi "entrando e uscendo dall'evento," come si diceva. Andò a finire che "la distruzione dell'evento" diventò uno scopo, un divertimento non difficile da realizzare. Per cui alcuni dei festival principali (Pescara, Bergamo, la stessa Umbria Jazz) dovettero autosospendersi per rifondarsi su nuove basi. Ricordo bene le orchestre di Charles Mingus e di Shelly Manne che non riuscirono a raggiungere il palcoscenico, impedite volontariamente da migliaia di corpi distesi.

E non è un buon ricordo.

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