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Steve Lehman Octet

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Metastasio Jazz

Teatro Metastasio - Prato - 24.01.2011

Attesissimo per l'unica data italiana del suo tour europeo, l'ottetto dell'altosassofonista newyorchese Steve Lehman ha aperto l'edizione 2011 della rassegna pratese Metastasio Jazz, purtroppo tartassata dai tagli alla cultura e perciò ridotta quest'anno a tre sole date.

Lehman, trentatre anni, è uno dei compositori emergenti della scena jazzistica internazionale e il suo ottetto è considerato negli USA una delle formazioni di maggior rilievo viste lo scorso anno. Le ragioni si intuiscono ascoltando il CD Transformation and Flow e si comprendono appieno assistendo a concerti come quello di Prato, che riprendono e sviluppano quanto registrato.

Il gruppo è interessante già dalla formazione, che vede la front line di fiati (oltre il sax contralto del leader, il tenore di Mark Shim, la tromba di Jonathan Finlayson e il trombone di Tim Albright), a cui si affianca il vibrafono di Chris Dingman, sostenuti dai due bassi - il contrabbasso di Drew Gress e la tuba di Dan Peck - e, soprattutto, dalla potente e pirotecnica batteria di Tyshawn Sorey. Le musiche messe in scena, poi, sono complesse e rigorose, basate su strutture che richiedono il rispetto della scrittura e che, pur aprendo numerosi spazi di libertà ai solisti, hanno nelle sinergie del collettivo il loro punto forte.

Siamo palesemente sui territori più interessanti della composizione jazzistica contemporanea, con influenze che vanno da Tim Berne (che solo due giorni prima aveva suonato a Firenze) a Steve Coleman (dai cui gruppi provengono peraltro Finlayson, Albright e Sorey), passando per Roscoe Mitchell e Henry Threadgill. Ma quel che è notevole in questo progetto di Lehman è la sensazione di generale originalità destata dall'ascolto: le influenze sono percepibili, ma il risultato va oltre la mera somma degli addendi, cosa né facile da ottenere, né frequente da ascoltare.

Tra le cose che più colpiscono va menzionato il contrasto tra complessità quasi cerebrale della scrittura - ricca di stacchi, elaborate interazioni dei fiati, sofisticato lavoro dei due bassi - e (apparente) semplicità e spontaneità del lavoro della batteria, autentica colonna sulla quale poggia il lavoro del gruppo. Sorey ha infatti la capacità di svolgere un lavoro in realtà estremamente complesso (deve pur seguire e rispettare anch'egli la complessità delle partiture) facendolo tuttavia sembrare non diverso da quello di un qualsiasi impetuoso drummer ritmico. Proprio questo contrasto impedisce che la musica del gruppo ecceda in intellettualismo cerebrale, donandole una matericità che le conferisce equilibrio e aumenta il coinvolgimento dell'ascoltatore.

Vanno poi menzionati l'importante ruolo del vibrafono di Dingman, che screzia la scena di colori, l'eccellente lavoro di Gress, l'originalità degli assolo di Finlayson, la bella voce del tenore di Shim. Una parola a parte per Lehman, da un lato apparso un po' in ombra come strumentista, forse perché impegnato nel proprio ruolo di leader, dall'altro autore di un intervento solistico "alla ricerca di suoni," tra il meditativo e il virtuosistico, che ha entusiasmato alcuni e lasciato perplessi altri.

Complessivamente, gran concerto e appropriata risposta del pubblico, per un gruppo che merita di essere ascoltato con attenzione ogni volta che sia reso possibile da un'offerta purtroppo sempre più stritolata dalla miopia culturale di questi anni bui.

Foto, di repertorio, di Daniel Sheehan.

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