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Simone Graziano
BySuonare è un atto di onestà profondo e complesso perché ti obbliga a conoscere i tuoi limiti, senza bluff, senza trucchi, senza imitare nessun altro.
All About Jazz Italia: Raccontaci come è andato il primo incontro con il pianoforte e con il jazz.
Simone Graziano: Nel salotto della mia casa d'infanzia c'era un pianoforte verticale. Mia madre, a volte, lo suonava la sera. Suonava gli Studi di Chopin e i Notturni. Mi incuriosiva, un mobile animato che parlava. La sua lingua all'epoca mi era del tutto ignota, ovviamente, ma riusciva ad avere un forte potere rasserenante su di me. Non ho il ricordo preciso della prima volta che mi sedetti al piano, ma ricordo con esattezza che all'inizio ancor prima di saper leggere la musica improvvisavo liberamente. Quando poi ho iniziato a prendere le lezioni di pianoforte classico spesso improvvisavo sui pezzi che dovevo imparare. Era un modo per renderli meno distanti da me sebbene all'epoca fosse solo un escamotage per fare colpo sull'insegnante. Il jazz è entrato nella mia vita l'estate dei miei tredici anni, quando un amico di famiglia mi regalò un disco con una copertina bianca e la foto di un tizio che suonava [il "Koln Concert" di Keith Jarrett - N.d.R.], dicendomi: "Questa roba è tutta improvvisata!". Passai penso un'intera estate ascoltando solo quel disco e più lo sentivo, più si rafforzava in me l'idea che l'improvvisazione non era un reato come volevano farmi credere al conservatorio, ma qualcosa di concreto e reale che si poteva fare sebbene non capissi assolutamente come fosse possibile. Penso che sia stato proprio questo mistero ad attrarmi al jazz.
AAJ: Qual è stato il tuo percorso di formazione?
S.G.: Direi molto canonico. Mi sono diplomato in pianoforte facendo i dieci lunghi anni di conservatorio e due anni di laurea specialistica in composizione e arrangiamento jazz e un anno di composizione sperimentale. Sebbene sia stato alla famigerata Berklee School di Boston e abbia studiato con dei grandissimi insegnanti - Kenny Wheleer, John Taylor, Aaron Goldberg, Mauro Grossi - mi ritengo comunque un autodidatta, nel senso che le cose che ho capito davvero non me l'hanno insegnate a scuola, ma le ho imparate ascoltando e trascrivendo dai dischi. Infatti ai miei allievi dico sempre che l'unica cosa che posso insegnargli è ad ascoltare.
AAJ: Quando hai capito di essere diventato musicista a tutti gli effetti?
S.G.: Quando riascoltando un brano che avevo registrato ho trovato una corrispondenza tra Simone essere umano e Simone musicista. Penso che si diventi realmente musicisti quando si suona ciò che si è. Suonare è un atto di onestà profondo e complesso perché ti obbliga a conoscere i tuoi limiti, senza bluff, senza trucchi, senza imitare nessun altro.
AAJ: Quali sono i progetti musicali che stai portando avanti?
S.G.: Oltre al trio con Ares Tavolazzi e Stefano Tamborrino dove suoniamo principalmente composizioni mie, partecipo a varie formazioni molto diverse tra loro: il sestetto di Giacomo Riggi, vibrafonista, assieme con quartetto d'archi e pianoforte, formazione che ha da poco vinto il prestigioso Waltex Jazz Competition, concorso internazionale che ci ha dato modo di registrare il disco Isevarm per l'etichetta Radar distribuita da Egea; il quartetto di Claudio Giovagnoli, sassofonista e compositore di grande valore, insieme a Gabriele Evangelista astro nascente del contrabbasso e Bernardo Guerra, giovane e straordinario talento; altro gruppo di ricerca che ha già all'attivo un disco di prossima uscita è il quartetto con Luca Signorini al sax, Franco Fabbrini al contrabbasso e Francesco Petreni alla batteria; a Dicembre uscirà un disco per l'etichetta Caligola dell'ensemble Cromatos Project di Duccio Bertini (arrangiatore) e Franco Nesti (cantante) con special guest Claudio Fasoli, Walter Paoli alla batteria, Rossano Emili al sax Bbaritono, Claudio Giovagnoli sax tenore, Luca Marianini tromba, Gabriele Evangelista al contrabbasso.
AAJ: Lightwalls è il tuo disco d'esordio suonato con Ares Tavolazzi e Stefano Tamborrino. Quali sono le caratteristiche principali di questo trio e in che modo riuscite a tradurre in musica il concetto di "luminosità" suggerito dal titolo?
S.G.: Mi piace pensare che in un trio, formazione tra le più intime per il legame che si crea tra i musicisti, ognuno debba essere libero di suonare come vuole. Quando facciamo le prove io porto il brano che dovremo suonare, ma non dò alcuna indicazione su come voglio sia eseguito. Desidero che i musicisti che suonano con me si sentano liberi di interpretare la mia musica per come loro stessi la sentono. Questo fa sì che il suono del trio diventi particolare e irrepetibile perché è la fusione di tre personalità diverse. Se io imponessi una visione delle cose limiterei la personalità di un musicista a solo discapito della musica. La luminosità è il concetto su cui si fonda questo lavoro ed è strettamente legata alla composizione, nel senso che a seconda di come organizzo il materiale musicale, melodia, accordi, dinamiche, posso creare sia la sensazione del buio, dell'oscurità ("Darkness," brano d'apertura del disco) che della luce. In questo senso con la composizione si determina il tipo di luce che si vuole. Ad esempio "Noir de Lumière," terzo brano del disco, è ispirato a un quadro di Max Ernst raffigurante un sole rosso su una superficie totalmente nera. A noi musicisti spetta di muoverci dentro questo confine di luce, di modellare la nostra personalità con la luce descritta dalla musica. Così come l'attore quando recita spinge la sua personalità verso quella del personaggio che deve interpretare, il musicista deve adattare se stesso al colore della composizione.
AAJ: Come nasce l'idea di rileggere "The Man Who Sold the World" legandola con i tratti salienti di "A Night in Tunisia"?
S.G.: Il legame tra i due brani è nato durante un'improvvisazione: avevo già scritto sia l'arrangiamento di "The Man Who Sold the World" che quello di "A Night in Tunisia". Ma le suonavamo come due brani separati. Durante un concerto le abbiamo eseguite di seguito, l'una accanto all'altra, ed erano assolutamente consequenziali. Poi ci siamo accorti che la coda di "The Man Who Sold the World" è costruita sulla stessa clave ritmica del pedale di "A Night in Tunisia". In questo caso l'improvvisazione crea la composizione.
AAJ: Nella tua scrittura emergono i riferimenti agli autori classici. Possiamo considerarti un compositore romantico?
S.G.: Il Romanticismo è un'epoca storica ben definita tra la fine del Settecento e la metà dell'Ottocento. Dunque non posso essere romantico. Oggi si definisce erroneamente romantico tutto ciò che ha una melodia chiara e "cantabile" per distinguerlo dalla musica contemporanea, atonale o seriale che sia, dove la melodia è difficilmente "orecchiabile". La trovo una semplificazione priva di senso, una delle solite etichette per cercare di catalogare tutto ciò che non si sa bene come inquadrare. Se poi per romanticismo si intende l'estetica dell'artista che crea perché soffre allora penso addirittura che il romanticismo non sia mai esistito: Beethoven quasi morente scrive l'"Inno alla Gioia," Chopin a Maiorca in terribili condizioni di salute compone alcuni dei suoi preludi per pianoforte più eroici. Al contrario Mozart per definizione autore classico, scrive una delle pagine più strazianti (e quindi romantiche?) della musica classica: il "Requiem". Quindi l'unica cosa che posso affermare è che cerco di comporre ciò che mi rappresenta, ma poi non so dire in quale categoria ciò rientri.
AAJ: Quali sono gli aspetti sui quali vuoi concentrarti per progredire ulteriormente e i punti di forza del tuo modo di fare musica?
S.G.: Per me l'unico senso che c'è nel fare il musicista è comporre. Progredire in questo senso vuol dire ascoltare musica di ogni tipo, leggere qualsiasi spartito da Chopin a Messiaen, in poche parole essere curioso di tutto ciò che produce un suono, senza avere alcun preconcetto. La difficoltà sta nell'avere la maturità e l'intelligenza per fondere in maniera omogenea tutto il materiale di cui si può disporre. Per questo temo mi ci vorranno una decina di vite!
AAJ: Se accendo il tuo iPod, cosa trovo in play?
S.G.: Massive Attack, David Binney, Craig Taborn, Schubert, Brahms, Vijay Iyer, Jeff Buckley, sonata pianoforte violoncello di Debussy, ecc... La varietà genera forza, è una legge della genetica. La staticità produce paura e genera preconcetti. Oggi più che mai non si può non essere aperti a qualsiasi tipo di musica, penso che il bello si trovi in ogni genere: basta saperlo trovare.
AAJ: Nella tua vita, oltre che per la musica, quali altri interessi o passioni coltivi?
S.G.: Mi piacciono la letteratura, il cinema e la pittura. Sono fissato con David Lynch e Francis Bacon. Pratico Tai Chi Taoista, adoro giocare a ping pong.
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