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Scrivere o improvvisare, magnifico dilemma
Quanto è importante la scrittura in una musica come il jazz, a tutti nota per il ruolo fondamentale che in essa svolge la pratica improvvisativa?
Non vi è dubbio che, fra le musiche colte - le espressioni musicali cioè che tendono intrinsecamente a uno sviluppo di linguaggio anche intellettualmente complesso - il jazz è quella che assegna un ruolo meno decisivo alla scrittura.
E' ben noto che il jazz si sia sviluppato in un luogo (il sud degli Stati Uniti), in una società (il melting-pot di etnie per lo più di origine africano-americana) e in un momento storico (gli inizi del XX secolo) in cui la cultura musicale non poteva che poggiare sostanzialmente sulla pratica orale.
Ma è però altrettanto chiaro che, senza il progressivo allargamento della pratica compositiva scritta, il jazz non sarebbe stato quello che è. Questo non significa che nel jazz non siano potuti continuare ad esistere brani di musica completamente improvvisati (con tutto ciò che comunque si sottintende, ovvero una memoria di conoscenze, scritte e non). Del pari, tuttavia, se certe improvvisazioni - a differenza di altre - sono state fissate su disco e nella memoria come imprescindibili per la storia di questa musica e della musica dell'ultimo secolo, il merito è anche della parte scritta che vi era a monte o a cornice.
Il peso specifico della scrittura, della composizione propriamente detta o dell'arrangiamento (che spesso nel jazz diviene ri-composizione), varia da stile a stile e, parallelamente, da organico a organico, con quasi ovvia preponderanza laddove le formazioni strumentali vanno oltre, diciamo, il quintetto con due fiati per giungere alle medium band e alle big band. Va da sé che la scrittura dovette avere un ruolo maggiore nella Swing Era, dove dominavano le big band, rispetto al periodo Bop, nel quale imperavano i piccoli gruppi. Eppure ciò non toglie che, nella ventura di certe orchestre, si è alfine giunti a concludere che l'eccessiva presenza compositiva andava a scapito di altre peculiarità espressive e dunque, complessivamente, della bellezza della musica.
L'orchestra di Count Basie, seconda per importanza nella storia del jazz, probabilmente, solo a quella di Ellington, conobbe il periodo di massimo splendore alla fine degli anni Trenta e primi Quaranta, quando i suoi musicisti eseguivano ben poco del poco che era scritto sulla carta da musica, e molto, piuttosto, di ciò che era nelle loro teste, frutto di apprendimenti e accordi orali.
Il trombettista Harry Edison raccontò a Leonard Feather che quando, nel '38, entrò nell'orchestra di Basie, pose a un certo punto una domanda che gli sembrava quasi esistenziale: "Ehi, Basie, dov'è la musica?," per sentirsi rispondere: "Ma cosa ti prende? Stai suonando, sì o no?". Ed Harrison: "Sì, ma vorrei sapere cosa sto suonando. Alla fine del pezzo non so che nota debbo suonare". E Basie: "Se stasera suonerai una nota che ti sembra giusta, allora risuonala domani".
Detta così, e solo così, sembrerebbe che Basie fosse un naïf. In realtà certi suoi gioiellini (per esempio, la versione di "Topsy" incisa nel 1960 per la casa Roulette) non possono fare a meno di un arrangiamento che sia eseguito alla perfezione.
Di stile in stile. I capolavori nati nella seconda metà degli anni '50 dalla collaborazione fra il solismo di Miles Davis e gli arrangiamenti di Gil Evans, trovano un peso del tutto irrinunciabile nel fatto compositivo: certe soluzioni sono da ritenersi possibili solo con una precisa lettura di quanto scritto. Anzi, all'ascolto degli storici dischi, in alcuni casi si apprezzerebbe un'attenzione esecutiva ancor maggiore.
D'altra parte, i memorabili live allo Sweet Basil degli anni '80 rispondono a una logica opposta, con gli arrangiamenti di Evans che tornano ad essere come i vecchi head arrangements di Basie: riff a chiamata, idee che in progress si convertono in musica, spunti inattesi che diventano felice realtà o magari anche, talvolta, si sostanziano in soluzioni trascurabili ma che, a quel punto, fanno inevitabilmente parte del gioco.
Ma torniamo agli anni '50, quando Charles Mingus, il maestro dell'arrangiamento non scritto, insuperabile organizzatore di suoni che, come Ellington suo maestro ideale, sapeva trarre - potremmo dire maieuticamente - il meglio dai suoi musicisti con il solo esempio diretto, per giungere ad alcuni dei suoi più conclamati capolavori (pensiamo ad "Ah um" o a "The Black Saint and The Sinner Lady") doveva affidarsi in grandissima parte alla sua, per altro inimitabile, scrittura.
Del tutto a parte è il caso di Thelonious Monk, un misterioso per natura. Le sue composizioni sono così articolate eppure semplici, precise nelle scelte sia particolari che di campo, che reinterpretarle è tutt'oggi un problema. Molto più che in altri compositori, in Monk si avverte che certe soluzioni non possono essere che quelle e che se si decide di cambiarne una sola nota, significa che di fatto si rischia di imprimere una svolta al brano. Tutto ciò sembrerebbe fare a pugni con certe risposte che Monk dava a gente come Coltrane, sentenze simili a quella rivolta da Basie a Harrison: "Che nota devi suonare? Una qualsiasi... Un do diesis o naturale? Sì, uno dei due".
Ma allora, quanta importanza ha la scrittura nel jazz? Ne ha molta e probabilmente ne avrà ancor di più, pur sempre, certamente, nel flusso dei corsi e dei ricorsi.
Il Bop era nato, fra gli altri motivi, anche per l'insopprimibile anelito alla libertà negata dagli arrangiamenti inscatolati del periodo swing; così, qualche anno dopo, nel modale e nel free i musicisti avrebbero cercato la libertà perdutasi nuovamente fra gli ingorghi di strutture armoniche molto complesse (e Coltrane è un caso a suo modo perfetto per spiegare il dibattito interiore di un musicista che muove, soprattutto nella seconda parte della sua vita, alla ricerca di un qualcosa che non ritrova più nelle trame compositive).
Certamente il jazz, a differenza della musica che affonda le sue radici in Europa, dovrà continuare a cercare la sua identità in questo mutevole rapporto, ma così pieno di linfa, fra composizione scritta e composizione estemporanea. Non darà mai grandi frutti un'improvvisazione che è tale a prescindere da un'idea tematica più o meno strutturata. Non può avere grande senso musicale un'improvvisazione che potesse essere trapiantata pari pari da un brano all'altro (nella convinzione, però, che analogo ragionamento può esser fatto per tante musiche scritte, in ambito non solo jazzistico).
George Russell, a tutti noto come teorico, orchestratore e compositore, ha forse finito per lasciare il suo massimo apporto alla storia del jazz con le incisioni in sestetto del '60-61, in cui maggior spazio è lasciato ai solisti e meno alla scrittura, a riprova che questa musica ha nel suo stesso dna l'eterno rimettersi in discussione.
Ellington - qui appositamente last ma ovviamente not least - fu un maestro unico non solo nello scrivere, ma pure nel cercare sempre nuovi equilibri fra espressività del compositore (nel suo caso, sua stessa e di Billy Strayhorn) e creatività del performer (i suoi personalissimi solisti, sfilati in circa cinquant'anni di avventure musicali, dai primi classici degli anni '20 alle suites degli inizi dei '70 - e pensiamo alla "New Orleans" e alla "Afro-Eurasian" - passando per gli anni belli di Jimmy Blanton e Ben Webster).
Con Ellington abbiamo avuto i migliori esempi di jazz totalmente scritto, ma pure gli infiniti assoli di Paul Gonsalves, le vaghezze dei raffinati timbri impressionistici ma anche i colori sanguigni del jungle style, i riferimenti all'arte colta ma anche lo sguardo mai stanco ai mille panorami del mondo.
Jazz è, d'altra parte, una parola grande, quasi eccessivamente, tanto che si inventano quotidianamente etichette e sottomultipli per trovarvi capanna. Ma, aldilà della vacuità della parole, è la musica che resta. Non basta improvvisare perché sia jazz; non basta scrivere perché sia musica eurocolta. Chi ama il jazz sa capire a naso, e ad occhi chiusi, dove stanno i confini e se al di fuori di essi vi sono terre amiche.
Chi, pur essendone estraneo, ne é istintivamente attirato, si lasci guidare dalla storia e se ne fidi: Ellington, Basie, Mingus, Monk, Jelly Roll Morton, Gil Evans e George Russell fanno parte della storia del jazz.
Della storia delle cose belle che fanno parte di noi.
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