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Piccolo vademecum sassofonistico

Il testo che segue riprende e riunisce tre brevi saggi apparsi sui due volumi monografici ("Monografie," appunto) dedicati nel 1994 e nel 1996 al sassofono da "New Age & New Sounds". Per tutta una serie di motivi, si è ritenuto di conservarli nella forma originaria, collocandoli quindi a una quindicina di anni da oggi. Si sono semplicemente eliminate (o comunque smorzate, e ridotte) certe ripetizioni che, trattandosi pur sempre di tre pezzi separati, aleggiavano qua e là. Non mancano peraltro episodici ampliamenti/aggiornamenti, che si trovano posti fra parentesi quadre. Il testo è riproposto per gentile concessione dell'autore.

Dalle "pipe" di Monsieur Adolphe al computer-sax

Benché una radicata credenza collettiva attribuisca al jazz, e quindi agli ultimi settant'anni circa di storia della musica, la fattiva "invenzione" del sassofono, quest'ultimo ha in realtà una vita almeno doppia, visto che ha già festeggiato il suo centocinquantesimo compleanno. L'ideazione del sassofono - non a caso da più parti riportato come saxofono, o più semplicemente sax - si deve com'è noto ad Adolphe Sax, belga di Dinant, nato nel 1814, inventore/costruttore di strumenti musicali per tradizione familiare.

Flautista e clarinettista fin dall'adolescenza, Monsieur Sax debutta poco più che ventenne nell'arte della creazione di nuovi "attrezzi" sonori con un modello di clarinetto a ventiquattro chiavi, fregiato di una menzione d'onore all'Esposizione Industriale del Belgio del 1835. Il suo primo brevetto è di tre anni successivo: un perfezionamento di quel clarinetto basso che, essendo a pipa (cioè ricurvo), si può comodamente considerare il virtuale progenitore del futuro sassofono, che Sax presenta in anteprima a Bruxelles nel 1841. Tanto in anteprima che, non avendolo ancora brevettato, lo sottopone al giudizio della giuria da dietro una tenda, facendone quindi udire unicamente il suono.

La fattura del nuovo strumento ha in effetti un che di rivoluzionario: è infatti ad ancia, ma non più in legno (come appunto il clarinetto, nonché oboe, corno inglese, fagotto, controfagotto), bensì in ottone, come trombe e tromboni. Grazie ad approfonditi e pionieristici studi acustici, negli anni seguenti Adolphe Sax (trasferitosi nel frattempo a Parigi) arriva a brevettare il sassocorno, la sassotromba, il sassotuba, in verità molto meno fortunati del loro fratello maggiore. Tornando al quale va sottolineato come già nel 1844, con l'"Hymne sacré" dovuto a quell'Hector Berlioz che ne aveva decantato da subito i pregi in uno storico articolo apparso sul "Journal des Débats" il 18 giugno 1842, il sassofono può celebrare il suo ingresso nel repertorio classico, mentre anche altri compositori "colti" iniziano a rivolgerglisi con curiosità. Fra essi figurano i nostri Rossini e Spontini, ma soprattutto i francesi Georges Kastner, che sempre nel 1844 inserisce una parte di sax nell'oratorio "Le dernier roi de Juda" e nel '46 pubblica il primo metodo dello strumento, per comporre poi, nel biennio 1850/51, un "Grand Sexour" per sei sassofoni e delle "Variations faciles et brillantes" espressamente dedicate ad Adolphe Sax (del resto già solista dell"Hymne sacré" di Berlioz), e Jean-Baptiste Singelée, autore di tre pionieristici quartetti di sax (formazione ricalcante le geometrie del classico quartetto d'archi largamente ripresa in tempi ben più recenti anche nel jazz), nonché di un'altra ventina di pagine schiettamente sassofonistiche.

Tante attenzioni finiscono inevitabilmente per indispettire la concorrenza, che, schiumante d'invidia, dichiara guerra all'ardimentoso costruttore belga, il quale, di fallimento in fallimento, finirà per spegnersi pressoché in miseria nel 1894, giusto tre e dieci anni prima che - a migliaia di chilometri di distanza, rispettivamente a New Orleans e St. Joseph, Missouri - vedano la luce i due artefici della prima massiccia affermazione dello strumento al di là dell'Atlantico. Pur essendo giunto in America fin dal 1853 grazie a Edouard Lefèbre, guadagnandosi in breve un ruolo di tutto rispetto in seno a bande e fanfare, il sassofono deve infatti agli uomini del jazz il posto che può a buon diritto vantare nella musica del Novecento.

I due pionieri di cui sopra rispondono ai nomi di Sidney Bechet e Coleman Hawkins. Il primo, a partire dai primi anni Venti, affianca il sax soprano al clarinetto, affidandogli una centralità nell'esecuzione che, all'epoca, è appannaggio della sola tromba. Fin dal 1921, del resto, se ne era tornato da un lungo soggiorno in Europa con un sarrussofono, sorta di ibrido fra sassofono e fagotto (in metallo come il primo, ma a doppia ancia come il secondo), scovato in un negozio londinese [ideato da Pierre-Auguste Sarrus e costruito nel 1856 da Pierre-Louis Gautrot, contro il quale Adolphe Sax intentò diverse cause, allo stesso modo del sassofono il sarrussofono prevede modelli che vanno dal sopranino al contrabbasso]. L'esperimento, tuttavia, dura il classico espace d'un matin, e Bechet si riconverte alla diade soprano/clarinetto, finché il primo non soppianta del tutto il secondo.

E' comunque Coleman Hawkins a utilizzare per primo il sassofono (tenore) secondo una sintassi autonoma, non derivativa o emulativa, imponendosi fin dagli anni Venti per quel suono rigoglioso, rapsodico, che, seppure su piani piuttosto diversi, avrà nel secondo dopoguerra in Sonny Rollins, Albert Ayler e Gato Barbieri i suoi principali alfieri. Prima Lester Young, dal suono allusivo, felpato e sgusciante, poi Dexter Gordon, John Coltrane e, fra i bianchi, due impeccabili stilisti quali Stan Getz (il cui soprannome, The Sound, di contro a Sinatra The Voice, la dice lunga) e Warne Marsh tracciano una linea parallela, a schizzare - almeno a grandi linee - la genesi evolutiva del sax tenore nel jazz.

Il soprano, per parte sua, dovrà attendere decenni per rinverdire i fasti bechetiani: Steve Lacy fin dai tardi anni Cinquanta, ancora Coltrane a partire dal '60, e poi Wayne Shorter e Dave Liebman costituiscono in tal senso i modelli imprescindibili. Ben più diffuso del soprano, il sax contralto progredisce invece sostanzialmente per grandi accoppiate, dicotomiche ma neanche troppo: Johnny Hodges e Benny Carter nel jazz classico, Lee Konitz e Paul Desmond per l'area cool, Eric Dolphy e Ornette Coleman per l'avanguardia storica. Uno soltanto, a ben vedere, è l'altosassofonista in grado di segnare pressoché da solo (ma con stuoli di epigoni) un'epoca, quella del bebop. Il suo nome è ovviamente Charlie Parker.

Il più corpulento - e quindi il meno maneggevole e agile - dei sassofoni di uso comune, il baritono, segue un destino almeno quantitativamente analogo a quello del soprano, peraltro rivitalizzando l'eredità dell'ellingtoniano Harry Carney fin dai tardi anni Quaranta, col più olimpico Gerry Mulligan e il più arrembante Serge Chaloff, fino al devastante Pepper Adams (soprannominato non a caso The Knife, il coltello), senza peraltro incontrare mai il boom del soprano (coinciso in primis con l'affermarsi del jazz elettrico, e proseguito poi con l'avanguardia sia di marca radicale che più prossima a contaminazioni con l'area etnico-popolare), pur annoverando costantemente un discreto numero di adepti.

Su sponda classica, un po' dimenticato dopo gli ardori iniziali (fra le rare eccezioni citiamo almeno la celebre "Arlésienne" di Bizet, del 1872), il sassofono inizia faticosamente a risalire la china con l'affacciarsi del Novecento. Del 1904 è per esempio "Rapsodia per sax alto e orchestra" di Debussy, uno dei rari autori maggiori ad essersi avvicinato a uno strumento che assume posizioni via via sempre più eccentriche rispetto all'universo "colto" (dal jazz alle fanfare, si approda semmai al rhythm'n'blues, al rock'n'roll, alla balera, alla musica leggera tout court), che per parte sua tende del resto a relegarlo su fondali ben poco qualificanti (oltre che, appunto, fin troppo rari), penalizzato da un timbro per lo più compresso e monocorde, nonché da un incedere incerto, quasi timoroso. Villa Lobos, Gershwin, Milhaud, Hindemith, lo stesso Ravel del celeberrimo "Bolero," sono comunque i nomi più altisonanti da fare. L'avvento, a partire dagli anni Venti/Trenta, di autentici

virtuosi quali il francese Marcel Mule e il tedesco Sigurd Rascher (pioniere, quest'ultimo, dell'emissione fuori registro, fino alle quattro ottave) favoriranno del resto l'apertura di nuovi spazi, con la composizione di numerose pagine a loro espressamente dedicate [ai due grandi - e scopertamente dicotomici - maestri del sassofono classico, morti entrambi nel 2001 rispettivamente a cento e novantaquattro anni, il sito www.saxforum.it (cui si rimanda per notizie di varia natura, così come al gemello www.ilsaxofono.it) dedica una pagina intitolata niente meno che "Marcel Mule VS Sigurd Rasher" (sic) in cui può essere gustoso spulciare per raccogliere i vari pareri che vi sono ospitati].

Come altri strumenti un po' particolari, tipo la chitarra o l'organo, anche il sax ha stentato a darsi un'immagine "contemporanea," conquistata a partire dagli anni Settanta o giù di lì grazie ad autori decisamente "specializzati" e non di primissimo piano. Anche qui c'è tuttavia un'eccezione, quella di Luciano Berio, che dedica al sax contralto una delle sue celebri sequenze ("Sequenza IXb," 1980), mentre a un autore non a caso anfibio come Giorgio Gaslini si deve il "Concerto per sax baritono e orchestra sinfonica" (1992), destinato a Massimo Mazzoni, che è oggi, con Federico Mondelci, i francesi Jean-Marie Londeix, Guy Lacour e Claude Delangle, l'americano Eugene Rousseau e il giapponese Ryo Noda, tra i massimi sassofonisti di sponda "colta".

L'utilizzo attuale dello strumento, in area sia classica che jazz e di meticciato vario, sottintende non di rado il riscorso all'elettronica, sia che si parli di interazione del suono acustico con agenti elettro-informatici, sia di manipolazione del suono stesso, o di produzione di propri timbri elettronici come fanno i campionatori elettronici. Lungo la prima di queste linee di percorso, il più impiegato è indiscutibilmente il sax soprano, grazie a una fluidità di fraseggio e a una duttilità di timbro (sgusciante, allusivo, acuminato, ipnotico, ecc.) che sembrano fatte apposta per insinuarlo nelle maglie delle sonorità elettriche ed elettroniche. Nel jazz, i vari Wayne Shorter, John Surman, Jan Garbarek, nonché, attraverso Paul McCandless degli Oregon, elementi "eterocentrici" come Paul Winter o Paul Horn (quindi su una sponda più prossima alla new age) sono in tal senso i primi nomi da fare.

La manipolazione del suono, per contro, non ha preferenze di modello (il digital delay, l'harmonizer e il vocoder sono gli "attrezzi" più diffusi), mentre per usare un sax a mo' di campionatore è necessario renderlo midi-compatibile, oppure ricorrere a suoi surrogati. Fra questi - anche perché adottato da uno dei più influenti sassofonisti contemporanei, Michael Brecker - una citazione d'obbligo va all'EWI 1000, progettato e realizzato da Nyle Steiner e brevettato dalla Akai, una delle marche più impegnate nello sviluppo di strumentazioni elettroniche a fiato assieme alla Casio. Una sintesi di tutte queste sofisticatissime attrezzature potrebbe essere il Syntaphone, di produzione svizzera, che consente un utilizzo a 360° del sassofono, di cui riprende foggia e timbri originari, però con infinite possibilità di elucubrazioni aggiuntive (sempre con midi-ausilio). Sarà questa la giusta sintesi, la più equilibrata, fra passato e presente? Impossibile dirlo: mai come oggi, e come in questo campo, passato e presente finiscono per attorcigliarsi inestricabilmente.

Una famiglia numerosa

Il sassofono, com'è noto, è un "tubo" in lega metallica (ottone predominante, ma anche nickel e rame), generalmente ricurvo, la cui colonna d'aria, prodotta dall'emissione del fiato, è regolata dalle vibrazioni di un'ancia (di canna o sintetica) posta nell'imboccatura. L'intera famiglia consta di sette modelli, dal sopranino al contrabbasso, attraverso soprano, contralto (o più semplicemente alto), tenore, baritono e basso. In origine, tale famiglia era doppia: nelle formazioni bandistiche si usava quella che alterna il Mi bemolle (sopranino, alto, baritono e contrabbasso) al Si bemolle (gli altri tre modelli); in ambito orchestrale quella un tono sopra (Fa/Do) [attualmente il californiano Jay C. Easton possiede l'intera famiglia Si bemolle/Mi bemolle, più C-melody, mezzo-soprano in Fa e soprano in Do, quindi dieci modelli in totale], intendendo con Mi bemolle, Si bemolle, Fa e Do le cosiddette note d'effetto, cioè quelle a cui la posizione del Do sul sassofono corrisponde sul pianoforte.

Malgrado le evidenti agevolazioni che la seconda delle due famiglie avrebbe consentito, non richiedendo trasposizione almeno per i tre modelli in Do, è stata la prima a prendere decisamente il sopravvento, essendo di gran lunga preferibile per duttilità timbrica, nonché per il fatto di esser stata adottata dagli uomini del jazz. Soltanto il tenore in Do, alias C-melody sax, ha avuto negli anni Venti in Frankie Trumbauer uno specialista di rilievo, per essere poi ripreso, del tutto episodicamente, di recente, per esempio da Anthony Braxton. Il quale Braxton è uno dei rarissimi cultori dei due componenti estremi della famiglia dei sassofoni: il sopranino, a cui ha dedicato anche un album in completa solitudine (Composition 113, 1983), e il contrabbasso. E benché la diteggiatura, cioè il raggiungimento delle numerose chiavi disposte lungo il corpo dello strumento per determinare l'emissione di questa o quella nota, sia in fondo identica su ciascun sassofono, si comprenderà facilmente quale differenza possa comportare il soffiare in un esile tubo diritto di circa mezzo metro, rispetto a un catafalco tutto curve di una lunghezza complessiva non inferiore ai tre metri (non a caso il contrabbasso è l'unico sassofono a richiedere un supporto a terra), senza contare il diametro di tale tubo e del corpo bocchino/ancia.

A proposito di sassofoni lineari e curvi (o - appunto - a pipa), abitualmente, com'è noto, anche il soprano è diritto, ma ne esiste un modello (come del resto del sopranino) anch'esso a pipa. Bob Wilber e Jan Garbarek ne sono con tutta probabilità i maggiori specialisti. Sorta di vie di mezzo fra soprano diritto e curvo, sono il saxello e il manzello, pressoché omologhi, il cui collo è solo leggermente ripiegato all'interno e la campana rivolta all'infuori (oltre che, specificatamente nel manzello, più svasata). Saxello e manzello sono inscindibilmente legati a due nomi, rispettivamente Elton Dean e Roland Kirk, al quale ultimo si deve anche l'annessione allo strumentario jazz di un altro sassofono di forma inusuale, lo stritch, in pratica un sax alto a canneggio dritto, in tempi più recenti riesumato anche da Kenny Garrett.

Di grande e costante successo nel jazz, ma anche nelle musiche cosiddette di consumo, il comune sax alto ricurvo ha paradossalmente incontrato, almeno in proporzione, ancor più consenso in ambito classico, visto che la stragrande maggioranza delle pagine sassofonistiche ne prevedono l'impiego. Fra le rare eccezioni, varrà la pena di citare la "Fantasia Op. 630" (1948) di Heitor Villa-Lobos, per sax soprano, e la "Ballade" (1940) di Frank Martin, per sax tenore. Sax tenore che, grazie alla sonorità sensuale e tagliente ad un tempo, può vantare un largo utilizzo nel rock'n'roll e soprattutto nel rhythm'n'blues, grazie a solisti quali King Curtis e prima ancora i cosiddetti honkers texani Arnett Cobb e Illinois Jacquet, comunque di ben più stretta osservanza jazzistica. Da una costola tali stili provengono per più di un verso gruppi nati sul finire degli anni Sessanta quali gli americani Chicago e Blood Sweat & Tears, o gli stessi, afro-caraibici, Osibisa, che insieme con corrispettivi inglesi - di marca, però, più squisitamente progressive - come Colosseum, Van der Graaf Generator, King Crimson, gli stessi Soft Machine, hanno il merito di aver avvicinato al sassofono - talora agli strumenti a fiato in generale - un'intera generazione di musicofili, poi in parte riversatisi sulla sponda jazzistica.

Il più grave fra i sassofoni di uso comune è il baritono, che tuttavia solo nel jazz ha trovato modo di esprimere compiutamente ogni sua potenzialità, lontano dalle punteggiature un po' goffe a cui l'hanno in genere relegato la letteratura classica e bandistica. Una decisa forbice divide in effetti la quaterna soprano/alto/tenore/baritono dal modello successivo, il sax basso, che ha avuto in pratica un unico solista di rilievo, nel campo del jazz tradizionale, in Adrian Rollini. Riscoperto, seppur sempre col contagocce, grazie alla fame di novità propria dell'avanguardia, lo strumento è stato successivamente adottato anche in seno all'Art Ensemble of Chicago da Roscoe Mitchell e Joseph Jarman. Va comunque precisato che la stragrande maggioranza dei cultori dei sassofoni di registro estremo o di foggia alternativa sono in realtà degli avidi polistrumentisti, dedicatisi in prevalenza a modelli più usuali, oltre che a clarinetti e flauti vari. Il più vorace di tutti è in tal senso Roland Kirk, quanto meno per aver di fatto introdotto nel jazz la respirazione circolare, che consente di mantenere ininterrotto il flusso sonoro, oltre all'utilizzo simultaneo di più sassofoni (nel suo caso anche tre), pratica adottata da esponenti dell'appena citato progressive a cavallo fra anni Sessanta e Settanta [sensibili, in generale, al fascino kirkiano: vedi Ian Anderson sul flauto] quali Dick Heckstall-Smith dei Colosseum (ma anche con Alexis Korner, Graham Bond, John Mayall, ecc.) e David Jackson dei Van der Graaf.

Un suono, una voce

E' del tutto probabile che ancora oggi, a chi intenda avvicinarsi alla pratica del sassofono, possa accadere di sentirsi impartire direttive ormai ampiamente fagocitate dal tempo. Una di esse potrà riguardare proprio l'approccio primario all'inedito mezzo: la sua immissione nella cavità orale, momento iniziatico per eccellenza nell'abbordare un qualunque strumento a fiato. Potrà capitare, cioè, che, o al fine di scongiurare un primo impatto traumatico (per lo strumento) o perché mosso da convincimenti più globali, un insegnante consigli di imboccare il sassofono avendo provveduto a rinserrare entrambe le labbra sulle arcate dentali, inferiore e superiore. Tale pratica, di fatto, non sopravvive spesso neppure più, non solo sul sassofono, ma sullo stesso clarinetto, rimanendo strettamente connessa all'uso degli strumenti a doppia ancia, quindi con imboccatura non rigida.

Sul sassofono, in realtà, il discorso è ben diverso. L'ancia singola richiede infatti una certa elasticità di appoggio solo sul labbro inferiore, contro cui, appunto, l'ancia batte. Lo spingere anche quello superiore oltre l'arcata dentale, per contro, non consente quella duttilità, quella flessibilità globale, di cui l'approccio al corpo bocchino/ancia necessita, nell'ottica di una reale padronanza del mezzo e di tutte le conseguenti possibilità, timbriche ma anche più globalmente espressive, che esso può dischiudere. Col tempo, poi, anche la barriera posta dal labbro inferiore fra ancia e dentatura si farà, del tutto naturalmente, sempre più labile, il suo ricorso limitato a certi passaggi e certi registri.

Perché tutto questo preambolo? Semplicemente perché, al di là del già sottolineato valore iniziatico del primo approccio con lo strumento, è dalla bocca - quindi dall'immissione del fiato nel nostro "tubo" - ben più che dalle mani che finirà per essere determinata la valenza, intesa anche come capacità di diversificazione fra individualità e individualità, di un sassofonista. Il motivo-base di questa affermazione è molto semplice: ciò che per primo arriva, di qualunque strumentista, è il suono. E' il suono l'elemento-cardine di tutta la problematica che ruota attorno alla pratica musicale: il suono, la singola nota, prima del fraseggio, della concatenazione fra nota e nota.

Spingendoci appena un po' più in là, potremmo affermare che sostanzialmente bifronte è il rapporto fra strumento e strumentista: da una parte il "nodo" che s'intreccia fra corpo bocchino/ancia da un lato, e cavità orale/fiato/testa (intesa anche come sede del pensiero, quindi molla di quasi tutto ciò che musicalmente accade, o dovrebbe accadere) sulla sponda opposta; dall'altra parte quello fra corpo centrale dello strumento, sul mezzo meccanico, e diade braccia/corpo, su quello umano.

Partiamo da quello che abbiamo individuato come l'elemento-cardine, ossia il suono. Per produrre il quale è ovviamente fondamentale l'imboccatura, e la menzionata flessibilità di approccio, da parte dello strumentista, comprensiva di tutto quello che è il vasto reticolato di input che provengono dal cervello, quindi dall'intenzione - meglio: dall'intenzionalità - dello strumentista medesimo, ma anche dalla natura stessa del corpo bocchino/ancia, al quale si può attribuire maggior rilievo dello strumento stesso, per quella che sarà la sonorità finale di ogni singolo sassofono. Proprio per questo i sassofonisti dedicano una cura così certosina alla scelta del bocchino, in primis, e poi delle ance. Anche perché i due elementi sono inscindibilmente legati. Il materiale di un bocchino per sassofono può andare dalla classica ebanite al più recente metallo, passando per la bachelite e, molto più di rado, il vetro. Il bocchino in ebanite è il più duttile, ma quello in metallo gli è spesso preferito per la maggior presenza di suono che consente. Resta il fatto che per i sassofoni più acuti, soprano e sopranino, si opta spesso per l'ebanite, mentre più il registro tende al grave, più frequente è di regola il ricorso al bocchino in metallo.

Al di là del materiale, sia quel che sia, per la sonorità di un bocchino, e di conseguenza di un sax, è fondamentale la sua foggia: anzitutto la cavità interna, che può variare per ampiezza e forma, e poi, importantissima, la sua apertura, cioè la divaricazione fra taglio anteriore del bocchino (in cui si soffia) e ancia. L'ancia è a sua volta un altro elemento-chiave di ciascun sassofono. Tradizionalmente in canna di bambù, viene da qualche tempo costruita anche in fibra plastica, talora con piccole nervature metalliche intestine (ne fa uso, per esempio, Evan Parker, che da essa trae la sua tipica sonorità "mitragliata," acuminata e rugosa). Fissata al bocchino mediante una fascetta metallica (o altro), compendia appunto l'apertura di quest'ultimo con la sua durezza. Bocchino e ancia, in effetti, recano un numero progressivo, per apertura il primo, per durezza la seconda. Più tale numero sarà alto, più l'immissione del fiato nello strumento risulterà faticosa: una maggiore cavità da saturare d'aria nel bocchino, una lamella meno flessibile, e di conseguenza più refrattaria a incurvarsi verso il taglio del bocchino stesso, nell'ancia. Ciò creerà problemi in particolare sul registro grave, consentendo per contro una maggior escursione su quello acuto e sovracuto, proprio nel suo opporre maggiore resistenza alla chiusura della fessura tra bocchino e ancia nel momento in cui lo strumentista, per raggiungere appunto i suoni estremi verso l'alto, si troverà costretto a stringere l'imboccatura. Riuscendo comunque a padroneggiare adeguatamente un'accoppiata ancia dura/bocchino aperto, le possibilità globali ne risulteranno senz'altro ampliate, e così pure il volume sonoro prodotto.

Possiamo portare in tal senso due esempi di sassofonisti particolarmente influenti nei settori, rispettivamente, classico e jazz, vale a dire Sigurd Rascher e Steve Lacy. Il primo ha di fatto introdotto l'uso delle note fuori registro, il secondo ne è il maggiore specialista di area jazzistica per la naturalezza - e pulizia - con cui riesce a raggiungere le quattro ottave di estensione su uno strumento che, canonicamente, ne prevede meno di tre, dal Si bemolle sotto il rigo al secondo Fa sopra lo stesso. Tale pratica sarebbe assolutamente improponibile senza il ricorso a un'accoppiata bocchino/ancia da cui un sassofonista medio non riuscirebbe a cavar fuori la miseria di una nota.

Proprio il nome di Lacy ci introduce nella fitta selva delle sonorità, al plurale. Ciascun sassofonista di vaglia ne possiede infatti una propria, in genere riconoscibile alle orecchie più smaliziate. Restando nell'ambito del sax soprano, per esempio, il suono olimpico, allusivo, tanto cristallino quanto poco scolastico, dello stesso Lacy si contrappone nettamente a quello, già descritto, dell'inglese Evan Parker, così come a quello di altri eminenti specialisti quali Dave Liebman, rigoglioso, palpitante, lacerato, o Wayne Shorter, anch'esso olimpico, come super partes, ma diverso da Lacy in quanto in possesso di una sonorità più gracidante, come attraversata da impercettibili fremiti interni. Tutti i sopranisti appena citati, salvo Parker, coltivano un loro personalissimo afflato lirico, ed eccellono tanto nelle ballad quanto sui tempi mossi, sapendo variare l'approccio allo strumento nel rispetto di una riconoscibilissima cifra stilistica individuale [Un ideale compendio discografico a quanto appena detto potrà partire da due album assolutamente emblematici quali Chirps (FMP, 1985) del duo Lacy/Parker e A Tribute to John Coltrane (Paddle Wheel, 1987), con Shorter e Liebman più ritmica. Sui singoli, sono senz'altro raccomandabili i solitari Solo Monk (Soul Note, 1985) e Outings (Nueva, 1986) di Lacy, e The Loneliness of a Long Distance Runner (CMP, 1985) di Liebman, gli ultimi due con massicce sovraincisioni; di Wayne Shorter, infine, vanno segnalati almeno Atlantis (Verve, 1985), in gruppo, e 1+1 (Warner, 1997) in duo con Herbie Hancock].

Se prendiamo poi i casi di Lacy e Liebman, potremo notare quanto conti in loro un'altra componente, spesso non adeguatamente valutata, del rapporto artista-mezzo espressivo: la posizione dello strumento rispetto al corpo. L'angolo fra sassofono (diritto, lo ricordiamo) e asse busto/gambe varia parecchio fra i due musicisti. In Lacy la diagonale tende a spingersi verso il piano verticale, in Liebman decisamente verso quello orizzontale. L'emissione risulterà di conseguenza più obliqua, circolare, nel primo (con lo strumento che potrà tendere a oscillare anche lateralmente), più diretta, quasi sfrontata, nel secondo. Senza tali posizioni, con la conseguente divergenza anche nelle rispettive diadi braccia/imboccatura, non ci potrebbero essere quelle precise sonorità, le une e le altre ovviamente frutto di un'evidente scelta di campo da parte dei due artisti.

In conclusione, non si può che ribadire come ogni strumentista di particolare spessore (non solo tecnico, s'intende) possieda una sua precisa identità strumentale, a partire appunto dalla sonorità, dal timbro, esattamente come accade per la voce umana. Esistono dei canovacci di base, è chiaro, delle aree di pluriappartenenza, ma il postulato appena enunciato rimane un dato di fatto. Si è accennato, per esempio, alla dicotomia fra il tenorismo caldo e sensuale di un Coleman Hawkins e quello di un Lester Young, ciascuno con discepoli più o meno geniali, e quindi in grado di affermare a loro volta una propria individualità. Sulla linea-Hawkins ha preso le mosse in primis lo stile rapsodico e magniloquente di un Sonny Rollins, certo meno sensibile alla lezione younghiana rispetto a un Coltrane, dalla voce lancinante e brunita. E il discorso potrebbe allargarsi a innumerevoli altri esempi, finendo peraltro per perdersi in tanti rivoli e rivoletti senza aggiungere elementi veramente significativi all'assioma di partenza, e cioè che il suono rimane la prima preoccupazione di ogni sassofonista. Che lo curerà vita natural durante, Proprio come fa un cantante con la propria voce. Perché è da lì - da timbro, attacco, intercalari vari - che ognuno di noi potrà e dovrà iniziare a scoprirne il talento e la personalità.

Foto di Rob Whitlock (Brecker), Alberto Bazzurro (Garbarek, Lacy), Lee Santa (Kirk), Richard Conde (Liebman).

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