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Parma Jazz Frontiere 2015
Casa della Musica
27-29.11.2015
La penultima tranche di una rassegna più che mai "spezzatino" partita il 25 ottobre con gli Oregon e che ha visto poi alternarsi sui vari palchi un doppio omaggio a Giorgio Gaslini, una solo performance di Roberto Bonati, direttore artistico del festival (giunto, sarà il caso di sottolinearlo, alla ventesima edizione) e poi ancora Mark Turner, Susanne Abbuehl con Matthieu Michel, Django Bates, Gianluigi Trovesi e tanti altri ancora, orientava i propri riflettori su giovani e giovanissimi, e proprio per questo, in fondo, noi ci siamo colà diretti.
Il primo concerto del trittico di cui riferiamo aveva in realtà per protagonista il trio di Alberto Tacchini, di casa a Parma (vi insegna, anche), quello dalle inusuali geometrie con Massimo Falascone ai sassofoni (contralto e sopranino) e Cristiano Calcagnile alla batteria che ha pubblicato mesi fa Space of Waiting, il cui materiale è stato dal vivo integrato da pagine di autori che il pianista milanese ha definito ineludibili (o qualcosa del genere, ma il concetto era quello) come Ornette Coleman (l'immancabile "Lonely Woman"), Charles Mingus ("Duke Ellington's Sound of Love") e Thelonious Monk ("Epistrophy"), oltre a un breve piano solo in memoria di John Taylor (il suo "Windfall") offerto come primo bis.
Il concerto nella sua globalità è stato ottimo, concentrato, rigoroso, asciutto, privo di ogni barlume di prolissità, perfettamente coeso pur nella varietà del materiale proposto, facendo di fatto registrare un ulteriore salto in avanti rispetto al pur già apprezzabile album di riferimento.
La sera di sabato portava sul palco parmigiano un progetto quanto mai ambizioso che ora sarebbe del tutto auspicabile replicare nelle (altre) sedi opportune. Col titolo Voci del Nord, Luci del SudLuci del Nord, Voci del Sud, è approdato infatti nell'ideale teatro (anche per acustica e accoglienza globale) della Casa della Musica il frutto di una sinergia fortemente voluta dal conservatorio cittadino (di cui Bonati dirige il compartimento jazz) con i confratelli di Göteborg, Copenhagen, Stavanger e Oslo fino ad allestire un ensemble di dodici elementi, otto dei quali hanno messo a punto per l'occasione una partitura originale da far eseguire al singolare organico (due ottoni, tre sassofoni, due tastiere, chitarra, basso, marimba, batteria e voce) appunto nel corso della serata parmigiana.
Detto che l'iniziativa meriterebbe comunque un plauso incondizionato, senza se e senza ma, ci è doppiamente gradito poter riferire di un'esibizione di notevole spessore in sé e per sé in almeno cinque delle otto pagine presentate, là dove più nitida è emersa un'idea compositiva chiara, solidamente messa a fuoco (non canonica, si badi: non era questo il punto, semmai il contrario), come appunto accaduto nelle partiture della cantante lappone Heidi Ilves e della chitarrista estone Merje Kägu (entrambe da Göteborg), del tastierista lettone Rudolfs Macats (da Copenhagen), del batterista berlinese Knut Nesheim (da Oslo) e del contrabbassista locale Andrea Grossi (in realtà brianzolo), la cui suite ha offerto forse i frutti più succosi di una serata comunque da incorniciare.
La domenica pomeriggio, infine, col titolo Third Stream si è tenuto il saggio finale del workshop in quattro incontri condotto da Mario Arcari, altra presenza tutt'altro che occasionale a Parma Frontiere, con gli studenti del terzo e quarto anno del liceo musicale Attilio Bertolucci (ovviamente di Parma). All'opera era un altro ensemble curiosamente sempre di dodici elementi dalle geometrie strumentali ancor più desuete: tromba, due flauti, fagotto, due tastiere, vibrafono, basso, batteria e tre chitarre (tutte elettriche). Qui a esser proposte sono state una pagina di Roberto Bonati, "Spiritus in terra," offerta in apertura e poi come bis (nel primo caso corroborata da un robustoverrebbe da definirlo sanbornianoassolo di Arcari al soprano) e tre più brevi, elegantissime pagine di Franz Koglmann.
Ora si attende il concertone finale del 10 dicembre al Teatro Regio che, proponendo fianco a fianco habitués del festival e, ancora, nuove presenze, celebrerà il succitato ventennale di una rassegna chefuor di ogni retorica di circostanzaha sempre difeso, anche in anni di vita precaria (causa i fatidici tagli dei contributi, a quanto si sa non certo alle spalle), una sua precisa collocazione e una progettualità (anche qui fuori dall'uso del tutto indiscriminato che si fa della parola) palpabile. L'auspicio è che il futuro possa essere più tenero con questo tipo di rassegne che non si stancano di tenersi fuori dal carrozzone dei cartelloni preinscatolati e tutti pericolosamente sovrapponibili, dove la direzione artistica si limita spesso a ratificare uno status quo ormai lievemente maleodorante.
Foto di Giuseppe Arcamone.
27-29.11.2015
La penultima tranche di una rassegna più che mai "spezzatino" partita il 25 ottobre con gli Oregon e che ha visto poi alternarsi sui vari palchi un doppio omaggio a Giorgio Gaslini, una solo performance di Roberto Bonati, direttore artistico del festival (giunto, sarà il caso di sottolinearlo, alla ventesima edizione) e poi ancora Mark Turner, Susanne Abbuehl con Matthieu Michel, Django Bates, Gianluigi Trovesi e tanti altri ancora, orientava i propri riflettori su giovani e giovanissimi, e proprio per questo, in fondo, noi ci siamo colà diretti.
Il primo concerto del trittico di cui riferiamo aveva in realtà per protagonista il trio di Alberto Tacchini, di casa a Parma (vi insegna, anche), quello dalle inusuali geometrie con Massimo Falascone ai sassofoni (contralto e sopranino) e Cristiano Calcagnile alla batteria che ha pubblicato mesi fa Space of Waiting, il cui materiale è stato dal vivo integrato da pagine di autori che il pianista milanese ha definito ineludibili (o qualcosa del genere, ma il concetto era quello) come Ornette Coleman (l'immancabile "Lonely Woman"), Charles Mingus ("Duke Ellington's Sound of Love") e Thelonious Monk ("Epistrophy"), oltre a un breve piano solo in memoria di John Taylor (il suo "Windfall") offerto come primo bis.
Il concerto nella sua globalità è stato ottimo, concentrato, rigoroso, asciutto, privo di ogni barlume di prolissità, perfettamente coeso pur nella varietà del materiale proposto, facendo di fatto registrare un ulteriore salto in avanti rispetto al pur già apprezzabile album di riferimento.
La sera di sabato portava sul palco parmigiano un progetto quanto mai ambizioso che ora sarebbe del tutto auspicabile replicare nelle (altre) sedi opportune. Col titolo Voci del Nord, Luci del SudLuci del Nord, Voci del Sud, è approdato infatti nell'ideale teatro (anche per acustica e accoglienza globale) della Casa della Musica il frutto di una sinergia fortemente voluta dal conservatorio cittadino (di cui Bonati dirige il compartimento jazz) con i confratelli di Göteborg, Copenhagen, Stavanger e Oslo fino ad allestire un ensemble di dodici elementi, otto dei quali hanno messo a punto per l'occasione una partitura originale da far eseguire al singolare organico (due ottoni, tre sassofoni, due tastiere, chitarra, basso, marimba, batteria e voce) appunto nel corso della serata parmigiana.
Detto che l'iniziativa meriterebbe comunque un plauso incondizionato, senza se e senza ma, ci è doppiamente gradito poter riferire di un'esibizione di notevole spessore in sé e per sé in almeno cinque delle otto pagine presentate, là dove più nitida è emersa un'idea compositiva chiara, solidamente messa a fuoco (non canonica, si badi: non era questo il punto, semmai il contrario), come appunto accaduto nelle partiture della cantante lappone Heidi Ilves e della chitarrista estone Merje Kägu (entrambe da Göteborg), del tastierista lettone Rudolfs Macats (da Copenhagen), del batterista berlinese Knut Nesheim (da Oslo) e del contrabbassista locale Andrea Grossi (in realtà brianzolo), la cui suite ha offerto forse i frutti più succosi di una serata comunque da incorniciare.
La domenica pomeriggio, infine, col titolo Third Stream si è tenuto il saggio finale del workshop in quattro incontri condotto da Mario Arcari, altra presenza tutt'altro che occasionale a Parma Frontiere, con gli studenti del terzo e quarto anno del liceo musicale Attilio Bertolucci (ovviamente di Parma). All'opera era un altro ensemble curiosamente sempre di dodici elementi dalle geometrie strumentali ancor più desuete: tromba, due flauti, fagotto, due tastiere, vibrafono, basso, batteria e tre chitarre (tutte elettriche). Qui a esser proposte sono state una pagina di Roberto Bonati, "Spiritus in terra," offerta in apertura e poi come bis (nel primo caso corroborata da un robustoverrebbe da definirlo sanbornianoassolo di Arcari al soprano) e tre più brevi, elegantissime pagine di Franz Koglmann.
Ora si attende il concertone finale del 10 dicembre al Teatro Regio che, proponendo fianco a fianco habitués del festival e, ancora, nuove presenze, celebrerà il succitato ventennale di una rassegna chefuor di ogni retorica di circostanzaha sempre difeso, anche in anni di vita precaria (causa i fatidici tagli dei contributi, a quanto si sa non certo alle spalle), una sua precisa collocazione e una progettualità (anche qui fuori dall'uso del tutto indiscriminato che si fa della parola) palpabile. L'auspicio è che il futuro possa essere più tenero con questo tipo di rassegne che non si stancano di tenersi fuori dal carrozzone dei cartelloni preinscatolati e tutti pericolosamente sovrapponibili, dove la direzione artistica si limita spesso a ratificare uno status quo ormai lievemente maleodorante.
Foto di Giuseppe Arcamone.
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