Home » Articoli » Interview » Paolo Botti: l'anima arcaica di Albert Ayler

Paolo Botti: l'anima arcaica di Albert Ayler

By

View read count
Il suo disco Angels & Ghosts, pubblicato dall'etichetta Caligola, è stato una delle grandi sorprese del 2010.

L'idea di rileggere il repertorio di Albert Ayler con soli strumenti a corda come viola, dobro, banjo, mandolino è stata infatti, nella sua rischiosa originalità, una scommessa che Paolo Botti ha vinto in modo trionfale e emozionante.

Il musicista romano/milanese, da diversi anni attivo sulla scena creativa con gruppi e progetti di grande sensibilità, ha scelto di dare risalto infatti alla matrice folk e popolare della musica ayleriana, quell'anima blues arcaica e ipnoticamente radicata nella magia di un tempo passato che Botti sa evocare con grande bravura.

Gli abbiamo chiesto di raccontarci qualcosa di più su questo progetto e sulla sua musica in generale.

All About Jazz: Cominciamo questa chiacchierata partendo dal tuo strumento principale (ma ci dirai tu se lo consideri ancora "principale"), la viola. Parlaci brevemente dei tuoi inizi e di quali stimoli/svantaggi hai incontrato nell'utilizzare uno strumento come la viola in ambito impro/jazz?

Paolo Botti: La scelta di diventare 'violista jazz' non è stata molto consapevole; mi ci sono, per così dire, trovato. Da ragazzo ho suonato diversi strumenti a corde e, intorno ai 18 anni, mi sono avvicinato al jazz come bassista. Parallelamente portavo avanti lo studio del violino e da questo il passo alla viola è stato breve. Ad un certo punto, continuare con entrambi gli strumenti è diventato difficile, se non impossibile. Così ho rinunciato al contrabbasso e mi è venuto spontaneo trasferire le mie conoscenze jazzistiche sulla viola. Come vedi, la tendenza al polistrumentismo non è una novità, ma ovviamente la viola rimane il mio strumento, quella che definirei la mia voce.

AAJ: Pensando a violisti e violinisti di ambito creativo, il pensiero va ovviamente ai vari Leroy Jenkins, Charles Burnham, ma anche a Billy Bang e a Mat Maneri, che suona la viola anche lui...

P.B.: Tra i nomi che fai indubbiamente Jenkins è stato per me il riferimento più forte. È stato un poeta dell'improvvisazione e il suo contributo è fortemente sottovalutato. Altra grande passione sono stati i violinisti della swing era, su tutti Ray Nance e Stuff Smith: non mi stancherò mai di ascoltarli! Per concludere non posso non citare Jean Luc Ponty: un musicista che ha creato un suono unico sul violino. Nei primi anni della sua carriera ha lasciato una serie di pietre miliari, poi chissà perchè ha avuto un drammatico crollo creativo che lo ha portato a esiti commerciali molto discutibili. Se si riascolta, ad esempio, Open Strings si rimane ancora oggi colpiti dalle sue invenzioni!

AAJ: Un caso a parte è rappresentato proprio dal violinista di Ayler, Michel Samson, così come dall'Ornette Coleman violinista. Che ne pensi di loro?

P.B.: Le registrazioni di Ayler con Samson sono tra le mie preferite e hanno rappresentato un riferimento per le mie rielaborazioni, ad esempio nel brano "Truth Is Marchin' In." Per quanto riguarda Ornette... che dire... per me è come Re Mida, qualunque cosa tocchi diventa oro!!!

AAJ: Nel tuo linguaggio c'è un suono fortemente contemporaneo, ma anche progressivamente si sono fatti spazio elementi blues e folk legati alla tradizione americana. Ti va di raccontarci come è evoluto il tuo approccio all'improvvisazione in questi anni?

P.B.: Ho sempre amato la musica tradizionale (da ragazzo ero un assiduo frequentatore del Folkstudio di Giancarlo Cesaroni e ho seguito i corsi di Diego Carpitella alla Sapienza di Roma) e le registrazioni di blues rurale in particolare mi hanno sempre dato una emozione particolare: come scoprire qualcosa di archetipico, qualcosa che appartiene ad un passato ancestrale che sento anche mio...

La stessa sensazione che ritrovo ascoltando certi brani di Coltrane di Ornette o di Ayler appunto, da qui l'idea di indagare a fondo i legami, forti, tra l'avanguardia jazzistica e le origini del suono afroamericano.

AAJ: Venendo al lavoro su Ayler, oltre alla viola suoni il dobro, il banjo e il mandolino, strumenti che già da un po' sono nel tuo armamentario. Cosa ti ha portato a questo allargamento di strumentazione?

P.B.: Come ti dicevo ho sempre mantenuto un certo approccio al polistrumentismo; negli ultimi anni proprio la ricerca di cui parlavo prima sui legami con le radici nel blues e nella musica di New Orleans mi ha spinto a propormi anche con questi strumenti. Mi sono appassionato in particolare al banjo, forse perchè è "lo" strumento afroamericano per definizione, derivato dagli strumenti che gli schiavi hanno portato con se dall'Africa ibridatosi poi con i cordofoni europei.

Ha un suono unico, che non assomiglia a nessun altro, difficile da gestire per certi versi, ma appassionante per molti altri! In questi anni tra l'altro si assiste ad un notevole fenomeno di riscoperta delle origini 'nere' di questo strumento, ad esempio nel progetto Recapturing the Banjo che Otis Taylor ha realizzato con Keb Mo, Alvin Youngblood Hart, Craig Harris ed altri.

AAJ: Coverizzare Ayler. In Italia sembra che ci siano felici intuizioni, penso ad esempio - oltre al tuo lavoro - a quello che ha fatto Giorgio Gaslini rileggendo Ayler per solo piano. Laddove Gaslini trova dei legami con echi bachiani, tu riporti i temi ayleriani alla loro radice più essenziale, una cantabilità folk che viene straniata dall'utilizzo dello strumento. Come hai lavorato a questo progetto?

P.B.: In effetti, Ayler in Italia ha un certo seguito! Anche musicisti come Nexus, Pasquale Innarella e ovviamente Edoardo Marraffa hanno dedicato significativi lavori al grande sassofonista di Cleveland.

Con il mio lavoro ho cercato di arrivare allo 'scheletro' dei temi di Ayler per poi ripartire costruendone una versione tutta mia.

In alcuni casi (ad esempio, proprio nei brani che danno il titolo all'album) era difficile immaginare quei temi senza il suono del suo sax tenore. C'era il rischio di banalizzarli o, peggio, normalizzarli. Ho cercato quindi di puntare molto sulla materialità del suono degli strumenti che ho utilizzato e credo che sia stata la chiave di lettura giusta.

AAJ: Come notava Stefano Zenni in un recente articolo, hai prediletto brani dell'ultimo periodo ayleriano. Ci sono stati dei temi che avresti voluto inserire e che, invece, una volta suonati non hanno funzionato?

P.B.: Nella preparazione del CD ho arrangiato e suonato molti brani di Ayler provenienti da tutti i periodi della sua produzione. Ho scelto di registrare quelli che mi sembravano più efficaci nella mia rilettura. Un brano che ho registrato ma non ho incluso è stato "Bells," non ero pienamente soddisfatto della resa in studio di registrazione ma in alcune occasioni lo ho proposto dal vivo.

AAJ: Pur nella forza straordinaria dei suoi temi e anche del gesto performativo, la musica ayleriana è profondamente legata al tempo in cui è stata fatta vivere. Cosa può suggerire questo scarto, accentuato dalla scelta di dargli una collocazione quasi pre-war folk?

P.B.: Viviamo tempi particolari, non solo nella musica: mancano idee forti, grandi utopie, siamo disincantati e sfiduciati. Sembra che tutto sia già stato fatto e che non ci sia più nulla da inventare. Trovare ispirazione in un musicista visionario come Ayler è senz'altro un forte antidoto a tutto questo!

AAJ: La scena impro/jazz italiana è particolarmente sfaccettata. Il fatto che al referendum Top Jazz il tuo disco si sia classificato benissimo, così come le vittorie nelle rispettive categorie di artisti non mainstream come Danilo Gallo o Silvia Bolognesi sono un segnale che il lavoro "sotterraneo" svolto in questi anni qualche frutto lo sta dando. Tu hai sempre avuto una posizione autonoma, che trovo preziosissima, e mi piacerebbe qualche tua schietta considerazione sullo stato delle cose.

P.B.: Prima di tutto, devo ammettere che non ho mai molto apprezzato il Top Jazz. Le 'classifiche' danno un senso di competizione a mio avviso inutile se non dannoso. Troverei più sensato pubblicare delle playlist compilate da autorevoli critici e giornalisti come fanno molte altre riviste.

Detto questo, vedere il mio disco tra i primi e tanti compagni di mille disastrose avventure ben piazzati in diverse categorie non può che farmi piacere!

In Italia abbiamo una scena creativa di altissimo livello e la cosa sorprendente è che, pur nella scarsezza di opportunità, continuano a formarsi giovani leve di improvvisatori di qualità e molto motivati! E' una cosa emozionante.

La mia posizione è stata di autonomia probabilmente per la mia indole poco incline a 'fare gruppo' ma anche per le difficoltà di una realtà come quella milanese, molto individualistica, in cui mancano spazi di aggregazione attorno a musiche di ricerca. I pochi tentativi in questo senso hanno avuto vita breve e questo è sicuramente uno dei miei rimpianti.

AAJ: Quali sono i tuoi prossimi progetti?

P.B.: Sempre troppi per poterli realizzare tutti: conto di tornare in studio col gruppo di Looking Back, magari in versione allargata, vorrei poi portare su CD la mia collaborazione con la poetessa/cantante americana Betty Gilmore, proseguire con l'idea di 'riletture' in solo di grandi musicisti del passato, anche al di fuori della tradizione strettamente jazzistica (ultimamente sono molto attratto dalla figura di John Fahey e potrebbe uscirne un nuovo lavoro). Poi collaborazioni con musicisti vari: prossimamente mi esibirò in trio con Zeno de Rossi e Enrico Terragnoli, da tempo si parla di un possibile duo con Claudio Cojaniz (compagno di scuderia nell'etichetta Caligola Records) e altro ancora ovviamente...

Foto di Theofish (la prima), Claudio Casanova (la seconda, terza, quinta) e Luciano Rossetti (la quarta).

Tags

Comments


PREVIOUS / NEXT




Support All About Jazz

Get the Jazz Near You newsletter All About Jazz has been a pillar of jazz since 1995, championing it as an art form and, more importantly, supporting the musicians who make it. Our enduring commitment has made "AAJ" one of the most culturally important websites of its kind, read by hundreds of thousands of fans, musicians and industry figures every month.

Go Ad Free!

To maintain our platform while developing new means to foster jazz discovery and connectivity, we need your help. You can become a sustaining member for as little as $20 and in return, we'll immediately hide those pesky ads plus provide access to future articles for a full year. This winning combination vastly improves your AAJ experience and allow us to vigorously build on the pioneering work we first started in 1995. So enjoy an ad-free AAJ experience and help us remain a positive beacon for jazz by making a donation today.

More

Popular

Read The Audiophile: Adrian Butts
Read Köln 75
Film Review
Köln 75
Read Joel Frahm Trio At Magy's Farm
Read Bruce Hornsby: Camp Meeting
Read Remembering Jack DeJohnette: Unlimited Imagination
Read Stanley Clarke Band at The Carver

Get more of a good thing!

Our weekly newsletter highlights our top stories, our special offers, and upcoming jazz events near you.