Home » Articoli » Lyrics » Musicista totale: intervista a Emanuele Maniscalco
Musicista totale: intervista a Emanuele Maniscalco
ByAnche se ci ho creduto in passato, oggi trovo insensato seguire un'idea di coerenza nelle azioni e nei pensieri. Quest'affermazione potrà irritare qualcuno, ma per me è un atteggiamento sano, perché non crea attese.
All About Jazz Italia: Il progetto Slow Band è arrivato alla pubblicazione del primo disco omonimo. Un'idea nata diversi anni fa.
Emanuele Maniscalco: Slow Band è nata idealmente circa sei anni fa, nel momento in cui ho iniziato a sentire la necessità di organizzare la musica in modo più personale. Inizialmente ci fu un trio con Francesco Bearzatti ed Enrico Terragnoli: durò alcuni mesi, poi divenne un quartetto con l'ingresso di Paolo Biasi al basso. Suonavamo perlopiù mie composizioni, ispirate a Paul Motian, Wayne Shorter, Kenny Wheeler, Jim Black. In un concerto, al posto di Terragnoli venne Gianluca Petrella, e per certi versi fu interessante. Presto però mi resi conto che stavo lavorando con dei musicisti che avevano un modus operandi troppo diverso dal mio: sentivo mancare un mio reale progresso come leader; mi sembrava di continuare a suonare in un gruppo altrui, ma con la mia musica, il che mi rendeva teso durante i concerti e poco propenso alla leggerezza. Perciò decisi di muovermi in modo diverso, coinvolgendo musicisti con cui avevo un dialogo più profondo. Dopo una breve parentesi con Bearzatti, Biasi e Walter Beltrami (culminata con un concerto che mi ricordo come entusiasmante, in occasione della seconda edizione di Young Jazz in Town a Foligno), il quartetto ha assunto le sembianze che ritroviamo nel disco. All'inizio del 2007 Paolo ed io vivevamo insieme nei dintorni di Perugia, Dan Kinzelman abitava poco distante e Karsten Lipp scendeva da Torino quasi ogni mese per suonare insieme e fare concerti in piccoli club. Mi sentivo finalmente più responsabile rispetto agli inizi e anche la direzione della musica era sempre più convincente.
AAJ: Quando avete deciso di incidere il disco?
E.M.: Il mio successivo rientro a Brescia all'inizio del 2008 ha interrotto la continuità degli incontri. Era diventato a quel punto necessario documentare il lavoro svolto fino a quel momento, ma il subentrare di una profonda crisi personale mi aveva fatto perdere fiducia nelle mie capacità, e la registrazione di Slow Band era prevista proprio all'apice di quel periodo, dopo quasi un anno di inattività del gruppo. Mia moglie dovette fare la voce grossa per convincermi a entrare in studio, e fece bene. Dopo la seduta, un altro stato di "congelamento": nel frattempo alcune questioni personali avevano creato distanza tra me e Dan, mentre Karsten e Paolo mi chiamavano regolarmente per sapere che fine avessimo fatto, io e il quartetto. Grazie agli incoraggiamenti di chi mi stava vicino, ho trovato il coraggio per riascoltare tutto il materiale registrato, scegliendo quello che mi sembrava più adatto a rappresentare il momento. Volevo una musica che non ammettesse regole, in grado di spezzare un circolo vizioso di formalismo autocompiaciuto travestito da libertà, chiamerei così buona parte di quanto oggi amiamo definire jazz. Non credo di esserci riuscito, ma molte cose sono cambiate in me da allora; se ascolto Slow Band a distanza di oltre due anni lo trovo divertente.
AAJ: Ultimamente la line up è cambiata di nuovo.
E.M.: Oggi il gruppo ha due nuovi membri, anzi tre: Maurizio Rinaldi, Francesco Bigoni (che era entrato al posto di Dan) e... Dan, che si è detto disponibile a ricominciare a suonare con me. Suoneremo tutti insieme il 27 marzo prossimo, al cinema Nuovo Eden a Brescia, in occasione della I edizione del fortunato festival invernale "Jazz in Eden". Ufficialmente si tratterà del primo concerto dall'uscita del disco (18 ottobre scorso). Come vedi "slow" c'entra qualcosa anche con le occasioni di lavoro.
AAJ: Al centro della vostra musica c'è una sana concezione di improvvisazione sonora. Quali sono le dinamiche del gruppo sotto questo aspetto?
E.M.: Hai detto bene. C'è qualcosa di sano, e anche di molto semplice. Un'esplorazione dello strumento ai limiti dell'infantile, che contiene all'interno un continuo omaggio alla melodia, signora che non conosce vecchiaia. Ciò che senti nel disco non giunge da indicazioni particolari, anche se in fase di post-produzione mi sono divertito a montare insieme alcune parti che mi sembravano più interessanti di altre. In questo temo di non essere sfuggito alla regola della ricerca di una forma. Come non l'ho fatto nella scelta di registrare in quello studio e con quel suono, cosa che oggi non ripeterei a causa della sua eccessiva e innaturale levigatezza.
AAJ: Sei il leader della formazione. Come ti poni nei confronti degli altri musicisti?
E.M.: Dovresti chiederlo a loro! Da parte mia vedono lunghi silenzi alternati a grande entusiasmo. C'è comunque un buon rapporto e io non amo impormi; credo di essere stato molto fortunato a incontrare le persone giuste.
AAJ: Dan Kinzelman, Karsten Lipp e Paolo Biasi. Hai un aggettivo per ognuno?
E.M.: Non riuscirei a riassumere in un aggettivo le loro caratteristiche. Comunque, i primi che mi vengono in mente sono: Dan/leale, Paolo/preciso, Karsten/impreciso. Sono tutte qualità per me fondamentali.
AAJ: A che tipo di pubblico si rivolge la musica di Slow Band?
E.M.: In generale, non solo con Slow Band, mi piace vedere il pubblico coinvolto, curioso, attivo. Non ho pregiudizi sulla cultura musicale di chi mi ascolta, perché sono certo che quando si è ben disposti da entrambe le parti qualcosa di prezioso accada sempre, a ogni livello di comprensione. Noi musicisti commettiamo un crimine quando pensiamo che il pubblico si aspetti qualcosa di preciso da noi: spesso prendiamo le distanze sottovalutandolo o, al contrario, facendolo sentire importante come un bambino viziato. Nel mio caso è sempre la ricerca di un rapporto reale con chi ascolta a far funzionare la musica.
AAJ: Alcuni brani del CD sono delle tue composizioni. In fase di scrittura, cosa ti condiziona maggiormente?
E.M.: In studio avevamo registrato otto brani miei, ma ne sono sopravvissuti tre, gli altri non mi sembravano particolarmente necessari alla scaletta. Ultimamente compongo sempre meno, perché non sono sicuro di essere il musicista più adatto per suonare musica scritta. A parte alcuni standard, che amo suonare in modo forse poco ortodosso, tendo a stancarmi presto della musica, pretesto per l'improvvisazione e la sfilza di assoli: in generale preferisco la musica scritta e basta (comprese le canzoni pop), oppure l'improvvisazione collettiva. Trovo molto soddisfacente la trascrizione, in questo periodo. Siccome sono un cattivo lettore a prima vista, cerco di trascrivere e suonare tutto quello che mi piace, per il gusto di imparare una lingua che non conoscerò mai abbastanza.
AAJ: Ti è mai venuta l'ispirazione di scrivere per formazioni più ampie?
E.M.: In conservatorio dovrò iniziare presto ad arrangiare per big band, non so che cosa ne verrà fuori. Sono impaziente e dispersivo quando compongo. Sto provando a scrivere per coro di voci bianche: ne ho conosciuto uno validissimo recentemente, sono "I Piccoli Musici" di Casazza, in provincia di Bergamo. Niente di ufficiale nemmeno lì per ora, ma ci sto provando. Dovrebbe essere un piccolo omaggio a Charles Mingus, una versione di "Duke Ellington's Sound of Love" per coro e pianoforte, che potrebbe ben inserirsi nel loro repertorio più moderno.
AAJ: Batterista, ma anche pianista nell'altro progetto "From Time to Time". Come si conciliano i due aspetti del tuo modo di essere musicista?
E.M.: Convivono serenamente. Ho smesso di studiare la batteria da qualche tempo, e adesso anche con il pianoforte ho un ritmo di lavoro molto meno ansioso rispetto a due o tre anni fa, in cui cercavo di imparare nel più breve tempo possibile, sentendomi in difetto specie con la musica classica. Ora studio soltanto quando ne ho voglia, senza pressioni. Poche settimane fa mi trovavo in studio con il quartetto "From Time to Time": abbiamo passato due bellissime giornate a suonare quelle meravigliose musiche di Paul Motian, compositore pressoché ignorato dai jazzisti. Ho sempre pensato che il pianoforte mi avesse aiutato a suonare la batteria. Ora invece posso dire che è stato un batterista a farmi capire molto di più il pianoforte.
AAJ: Nel 2009 hai fondato - insieme a Giacomo Papetti, Fabrizio Saiu e Maurizio Rinaldi - l'ensemble Innerplay, con cui sei impegnato in una regolare attività sperimentale. A che punto siamo?
E.M.: Innerplay si sta imponendo come una realtà di ricerca che è uscita dai confini di un semplice quartetto. Dall'anno scorso circa venti musicisti di età compresa tra i quindici e i trentacinque anni hanno seguito i nostri laboratori intensivi sull'improvvisazione, e questo non può che renderci orgogliosi. Soprattutto è gratificante ascoltare le loro domande, osservarli mentre esplorano le possibilità della musica a prescindere dal loro vocabolario e dal linguaggio di provenienza. Mi rammarica solo che a causa del nostro impegno costante con l'organizzazione, e di alcune divergenze di percorso, il quartetto in sostanza non suoni più dal vivo: probabilmente anche lì si assisterà a qualche cambiamento, nell'immediato futuro.
AAJ: Il tuo percorso di ricerca nell'ambito della musica improvvisata, ha un filo conduttore? Un'idea di base?
E.M.: C'è un'idea di trasformazione continua, senza pregiudizi su ciò che è nuovo o vecchio, che asseconda molto la voglia del momento o di un determinato periodo. Si deve essere curiosi, aperti e critici prima di tutto: solo in un secondo momento si diventa artisti, e non è detto che sia la nostra parte migliore e definitiva. Anche se ci ho creduto in passato, oggi trovo insensato seguire un'idea di coerenza nelle azioni e nei pensieri. Quest'affermazione potrà irritare qualcuno, ma per me è un atteggiamento sano, perché non crea attese. Ciò si collega alla mia temporanea astensione dalla composizione e in generale dalla "progettazione" musicale: non perché non mi piaccia mettere radici, ma perché sento che i problemi di comunicazione non si esauriscono nell'atto musicale, né in qualcosa cui la musica può dichiararsi ispirata. Per assurdo la musica è ciò che mi viene più facilmente, perciò io non ho bisogno di suonare molto, quantitativamente. Mi preoccupo più di come contestualizzare quello che faccio, di come esteriorizzare ed estetizzare un significato che in fin dei conti nasce da una mia esigenza istintiva, non da una qualche utilità per chi mi ascolta.
AAJ: Hai un progetto che tieni nel cassetto e che un giorno vorresti realizzare?
E.M.: Di progetti ne faccio ogni giorno, come puoi immaginare. Il progetto più grande ora è la crescita della mia prima figlia, che sta per nascere. Poi vorrei dedicarmi al piano solo, che ahimè ben poco avrà di pianistico, ma che sento essere il prossimo passo.
Foto di Claudio Casanova (la prima, terza e sesta) e di Barbara Rigon (la quarta e quinta), Giulio Corini (la seconda).
Tags
Comments
PREVIOUS / NEXT
Support All About Jazz
