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MetJazz 2024

MetJazz 2024

Courtesy Marco Benvenuti

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MetJazz 2024
Prato
Teatro Metastasio, Teatro Fabbricone, Scuola di Musica Verdi
26.2—25.3.2024

Ventinovesima edizione del festival MetJazz, che anche quest'anno, sotto la direzione artistica di Stefano Zenni, per un mese ha disseminato di eventi la città di Prato, con gli spettacoli principali —tutti in doppio concerto—collocati come sempre il lunedì e gli appuntamenti off in giorni diversi.

L'apertura, il 26 febbraio, era nella sede principale, il Teatro Metastasio, e il doppio concerto vedeva di scena due formazioni alquanto diverse: prima il Koro Almost Brass Quintet, che riproponeva in una forma originalissima la musica di Thelonious Monk, poi il sestetto di Nico Gori, alle prese con brani del clarinettista arrangiati per l'occasione in modo particolarmente colorato.

Nato da un'idea di Cristiano Arcelli —la presenza del cui sax contralto è la causa del suo essere "quasi" tutto di ottoni —e completato da Fulvio Sigurta alla tromba, Giovanni Hoffer al corno, Massimo Morganti al trombone e Glauco Benedetti al tuba, il quintetto Koro ha per caratteristica precipua riproporre originalmente la musica di Thelonious Monk attraverso un contesto timbrico decisamente atipico, di soli fiati e perciò privo dello strumento per cui essa nasceva —il pianoforte.

Grazie però ad arrangiamenti originali, curati dallo stesso Arcelli, la formazione riesce a ricondurre all'interno dell'intreccio delle linee liriche dei fiati anche le scabrosità e gli aspetti percussivi della musica monkiana, ampliando e impreziosendo quella strada già seguita da molti fiati solisti, a partire da Steve Lacy, avvalendosi non solo della molteplicità di linee, ma anche della presenza del tuba di Benedetti, che funge da propulsore ritmico. Interessante il colore complessivo sostanzialmente scuro del suono, virtuosamente contrastante sia con la musica, sia con gli arrangiamenti, sempre briosi, oltre che articolati e sofisticati. Sarà che la musica di Monk è sempre bella e non finisce mai di stupire, sarà la bravura dei cinque, ma il concerto —che ha toccato brani come "I Mean You," "Epistrophy," "Reflections," fino a "Crepuscule with Nelly" —è parso una vera meraviglia.

Il concerto successivo ha proposto al pubblico tutt'altri timbri —un solo fiato, due strumenti armonici, ben due percussioni —e solo brani originali; tuttavia ha condiviso con il precedente una grande briosità, declinata in forme totalmente dissimili. Gori vi ha presentato una sua formazione che lavora assieme da qualche anno e con la quale ha riarrangiato brani nati spesso per altri contesti, come "Napoli's Blues," originariamente per il quartetto Novecento, "2-5," proveniente dalla sua collaborazione con Fred Hersch, o "Light Shadow," registrata a suo tempo assieme a Tom Harrell.

Qui tutto prendeva però un'identità particolare e coerente, grazie da un lato alla forza della voce centrale—quella dello stesso Gori, impegnato esclusivamente al clarinetto —e all'accuratezza degli arrangiamenti, resi molto particolari proprio dalla presenza di due percussioni, quelle coloratissime di Simone Padovani e la batteria di Andrea Beninati. E proprio la presenza di Padovani è risultata di fatto decisiva, perché gli era affidata la poliedricità ritmica, che vedeva qua brani classicamente swing, là ispirazioni latinoamericane, altrove eco perfino della tradizione nostrana. Contesti sui quali si ergeva la voce di Gori, come suo solito agilissimo e ricco di espressività, per dar vita a un concerto vivacissimo e dai colori senz'altro molto personali. Singolare come nel brano più lirico e cameristico Beninati abbia lasciato la batteria e si sia esibito al violoncello, mutando decisamente gli equilibri timbrici della musica.

Come di consuetudine, uno dei concerti del cartellone è stato proposto la domenica mattina presso la Scuola di Musica Verdi di Prato: in questo caso —era il 3 marzo---si è trattato del duo di Biagio Marino e Zeno De Rossi, che hanno presentato dal vivo il materiale del loro CD Break Seal Gently, uscito un paio di anni orsono. Trattandosi di un materiale "aperto," ricco di improvvisazione e sperimentazioni, ma anche cresciuto nel tempo passato dalla registrazione, il concerto è andato ben aldilà quanto presente sul pur eccellente CD, oltre a permettere di cogliere anche visivamente tanto le interazioni tra i due, quanto le azioni performative —molte delle quali, specie quelle operate da Marino su pedali e potenziometri o sull'accordatura delle chitarre, altrimenti assai difficili da intuire.

Musica in equilibrio tra jazz, elettronica e noise, ma ricchissima timbricamente e (quasi) mai spinta a livelli sonori esasperati, anzi spesso estremamente delicata, fatta per apprezzare le sfumature tanto dei suoni elettrici, quanto delle spazzole sulle pelli della batteria. Magari solo un po' strana —ma forse per questo ancor più piacevole e sorprendente —da ascoltare alle 11 di una domenica mattina.

La seconda serata, il 4 marzo, si è svolta al Teatro Fabbricone e vedeva di scenda un doppio concerto di piano solo, anche in questo caso l'un l'altro in virtuoso contrasto. Ha aperto la prima assoluta del di Alessandro Lanzoni dedicato a Bud Powell, del quale quest'anno cade il centenario della nascita. Una scelta atipica per il pianista fiorentino, che non è solito rifarsi ad antichi maestri, ma caduta su un artista da lui sempre ammirato —e, va detto, perlopiù colpevolmente trascurato —oltre che realizzata in modo attento, personale e tutto sommato anche sorprendente. Lanzoni ha infatti sì riproposto composizioni di Powell, ora individualmente —"Parisian," "Un poco Loco," "Allucinations" —ora montate in forma di suite—come quella includente tra gli altri "Tempus Fugit" —, ma lo ha fatto suonando a proprio modo, variando molto i tempi e le dinamiche —in Powell di solito sempre piuttosto accesi---e inserendo tra le pieghe della musica originale aperture modernissime, che vi si integravano perfettamente. Ne è scaturita un'ora di musica totalmente coinvolgente, per un lato molto "classica," per l'altro invece contemporanea, suonata con concentrata dedizione —e perciò benissimo —dal pianista. Una sfida non facile —basta poco, negli omaggi, per cadere nella banalizzazione —e che invece Lanzoni ha affrontato da artista maturo e di gran classe —qual è e quale si conferma a ogni concerto.

A seguire è stata la volta di una delle pianiste più importanti della scena mondiale, la svizzera da anni residente negli U.S.A. Sylvie Courvoisier. La quale ha proposto solo ed esclusivamente proprie composizioni, ricchissime di improvvisazione e di "invenzioni" non convenzionali: lavoro sulle corde, preparazione del piano con nastro adesivo, oggetti depositati (e talvolta addirittura gettati) dentro la cassa, persino qualcosa di simile a un motorino che produceva un rumore di bordone, percussioni improvvise, clusters tayloriani. Interventi estemporanei, oltretutto spesso di una certa difficoltà tecnica, e tuttavia da un lato perfettamente controllati, dall'altro sempre finalizzati a un discorso musicale coerente ed espressivo, capace di coinvolgere anche nei momenti più astratti o "tecnici." Interessantissimo il confronto con la performance che l'aveva preceduta, analoga eppure così diversa, cosa che ha favorito la piena valorizzazione di entrambe. Pur nell'alta qualità complessiva di tutto il programma, probabilmente la serata clou della rassegna.

Ancora al Fabbricone la terza serata, l'11 marzo, con il concerto in solitudine di Marc Ribot seguito dal Next 4tet di Claudio Fasoli. In realtà, Ribot aveva fatto precedere il concerto dalla presentazione, presso la Biblioteca Lazzerini, del suo libro Nelle mie corde, da poco uscito in traduzione italiana per BigSur, e da una visita presso la GKN, fabbrica del territorio tra Prato e Firenze occupata da oltre due anni per una lotta contro la chiusura e il trasferimento della produzione all'estero, ove l'artista ha portato la propria solidarietà ai lavoratori suonando per loro.

Il concerto serale è stato assai sorprendente fin dal suo inizio: Ribot ha usato solo una chitarra acustica, con amplificazione minimale e non artefatta, iniziando nientemeno che con un'inattesa "Smoke Gets in Your Eys" di Jerome Kern, per quasi dieci minuti meditata, mescolata, variata, qua e là persino volutamente storpiata senza però mai denigrarla. Corde suonate in ogni modo, pizzicandole, strusciandole, percuotendole, sempre comunque senza effetti speciali, provocazioni o fuoriuscite da un preciso percorso musicale e comunicativo. Pur nella sua varietà di scenari e forme espressive, il concerto non ha mutato stile neppure nel suo prosieguo, che assieme a composizioni del chitarrista e a un'improvvisazione ha toccato brani tra gli altri di Armstrong e di Frantz Casseus, il compositore haitiano che fu insegnante e amico di Ribot e del quale questi parla a lungo nel suo libro. In conclusione il chitarrista, dopo aver ricordato la sua visita alla GKN, le ha dedicato un proprio brano. Concerto di intima quiete, di ricerca interiore e sullo strumento, che ha svelato un aspetto di Ribot meno frequentemente esibito.

Di tutt'altro genere il concerto del quartetto di Fasoli, con Tito Mangialajo Rantzer al contrabbasso, Simone Massaron alla chitarra elettrica e Stefano Grasso alla batteria. La formazione ha ripreso parte dei contenuti del suo più recente CD, Ambush, aggiungendovi brani dalla medesima cifra: atmosfere elettroacustiche —rette dalle invenzioni di Massaron, autore di numerosi assoli —dal gusto trascendente e un po' "spaziale," molto aperte, dinamicamente ascendenti ma ben ancorate al terreno dal suono materico del contrabbasso di Mangialajo —anch'egli autore di vari eccellenti assoli —e della batteria di Grasso. L'esperto sassofonista vi ha svolto un lavoro se si vuole minimale, fatto soprattutto di note lunghe che andavano a pennellare espressivamente le atmosfere, in ciò avvalendosi dell'elettronica, con la quale è intervenuto misuratamente sul suono dei suoi strumenti. L'esito complessivo, tuttavia, è stato più che buono: un suono che abbracciava e trasportava verso quell'altrove cui la musica alludeva, dischiudendo tra le pieghe numerosi dettagli curati e affascinanti. Niente di nuovissimo e non molti gli acuti, ma una sintesi personale e ricca di sostanza, che infatti il pubblico è parso gradire molto.

Dopo una pausa di una settimana, che ha però lasciato lo spazio per una delle splendide conferenze di Stefano Zenni, stavolta dedicata ai pianisti "percussivi" dalle origini ai giorni nostri, la rassegna si è conclusa al Teatro Metastasio il 25 marzo, ancora una volta con due concerti assai diversi tra loro.

Ha aperto Planetariat di Danilo Blaiotta, progetto ispirato agli Arcanes del poeta americano Jack Hirschman e che ne faceva uso sia nei testi interpretati dalla vocalist e performer Valentina Ramunno, sia nel nome stesso —Planetariat è infatti un neologismo creato da Hirschman. Blaiotta vi suonava solo tastiere elettroniche, affiancato dalla chitarra di Stefano Carbonelli e supportato alla batteria da Cesare Mangiocavallo, mentre al sax contralto e al clarinetto basso di Achille Succi era affidata la prima vice strumentale, che si intrecciava con quella della Ramunno. Anche in questo caso gli impasti erano equilibratamente elettroacustici, con le tastiere del leader a produrre scenari screziati assieme a chitarra e batteria, le ance di Succi a mantenere la rotta acustico-narrativa e gli esplosivi interventi di Ramunno a fornire un acido dinamismo, complici le intenzioni dei testi, tutti rivolti alla rivendicazione della cultura, della libertà e dei diritto —l'acronimo formato dalle prime lettere dei brani in scaletta, sia nel disco che dal vivo, è non a caso "Human Rights." Il tutto a formare una musica molto tesa e dinamica, che richiamava le declamazioni dei talking afroamericani o dei dei rapper, tormentata da ritmi, dissonanze e rumori metropolitani, appassionata e appassionante. Per il panorama nostrano, atipica, personale e molto interessante, assai acclamata dal pubblico presente.

Completamente diversa la formazione successiva, il Big Jazz Ensemble di Gerardo Pepe, cui sono spettati l'onore e l'onere di chiudere il festival. Il giovane arrangiatore e direttore d'orchestra (classe 1990) ha adattato una serie di composizioni di pianisti a una big band di dodici elementi —da cui il titolo del progetto, Orchestrando Piano —perlopiù composta da giovani ma preparatissimi musicisti. La logica era classica e semplice: gran suono d'insieme, articolato quanto serve per valorizzare la pluralità di voci; turnazione di assoli, per dare a ciascuna uno spazio d'espressione e per colorare di piccole gemme il composto complessivo. E se quest'ultimo è sembrato ben realizzato da Pepe —parso peraltro anche molto sicuro e spigliato sul palco, ma del resto che ci si sorprenda per la statura professionale di un trentaquattrenne è solo retaggio della nostra società generazionalmente bloccata —i singoli solisti non sono stati da meno. Tra di loro, pur tutti molto bravi, sono spiccati il trombonista Massimo Morganti, già visto nella prima serata con il Koro Quintet, l'altosassofonista Federico Califano, il flautista Andrea Salvato e soprattutto il clarinettista Daniele D'Alessandro, assai personale nel timbro al clarinetto soprano e nel fraseggio, quasi da sax tenore, al clarinetto basso. Tra "Nigerian Marketplace" di Oscar Peterson e "C Jam Blues" di Ellington c'è stato tempo per Monk, McCoy Tyner, Horace Silver, Herbie Hancock e anche per un omaggio dello stesso Pepe a Charles Mingus, per un finale "classico" ma elegante e piacevolissimo di una rassegna che ci aspetta l'anno prossimo per festeggiare il trentennale.

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