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L'inchiesta dell’estate: le prime risposte dei direttori artistici!

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Come anticipato in occasione della prima puntata dell'inchiesta, abbiamo posto ora venti domande a dieci direttori artistici, alcuni dei quali tirati in ballo [per così dire] direttamente dai musicisti intervistati, altri selezionati da noi in base a esperienza, collocazione geografica e temporale nell'anno.

[Non sarà inutile ribadire, come per la puntata precedente, che i nomi degli interpellati potevano essere anche altri e che non si ha qui la pretesa di dare alcuna "risposta definitiva," completa o statisticamente inoppugnabile ai tanti interrogativi sollevati, quanto piuttosto quella di fornire una piattaforma di confronto costruita su autorevoli opinioni e riflessioni]

Come era prevedibile la prima puntata dell'inchiesta è stata molto seguita da tutti voi ed è stato con estrema attenzione che i direttori artistici intervistati ci hanno dato il loro contributo.

Per motivi di spazio e di leggibilità - alcune risposte sono più lunghe rispetto alla prima puntata - e di tempistiche di risposta [alcuni direttori sono in queste settimane alle prese col proprio festival] abbiamo pensato di non farvi aspettare troppo e abbiamo diviso le risposte dei direttori in due puntate.

Qui troverete quelle di Riccardo Brazzale [Vicenza Jazz], Sandra Costantini [Crossroads, Ravenna Jazz], Paolo Fresu [Time In Jazz Berchidda], Italo Leali [Tuscia in Jazz], Giuseppe Mormile [Veneto Jazz], che ringraziamo moltissimo per la loro disponiblità.

Buona lettura e a prestissimo per le altre risposte dei direttori e la continuazione dell'inchiesta!

Da quanti concerti è costituito il suo Festival e quanti giorni dura? Che budget complessivo ha il festival? Percentualmente quanti di questi soldi sono pubblici e quanti privati? È stata mai rilevata o certificata la ricaduta economica del suo Festival sul territorio?

Brazzale: Vicenza Jazz dura 9 giorni da venerdì a sabato successivo. Ogni giorno c'è un concerto in teatro (a parte il primo sabato dedicato alla piazza) alle ore 21, con uno o due gruppi, quindi intorno alle 22.30 vi è il concerto nel club ufficiale. Nei due weekend i concerti si intensificano con situazioni più piccole, sia all'aperto (e musica più easy) che all'interno di palazzi antichi o chiese (quest'anno anche al cimitero, a mezzanotte), sedi di mostre o in abbinata a reading poetici. Su queste basi si sviluppa un intenso programma in piccoli locali pubblici, programmato in autonomia dai gestori o coordinato dalla Confcommercio. Il festival produce spese complessivamente per circa 300.000 euro, cui si fa fronte con una media di 65.000 di incassi, altrettanti di sponsor privati, circa 40.000 di contributi regionali e statali e il resto lo mettono il Comune e l'Aim, ovvero l'azienda ex-municipalizzata. La ricaduta sul territorio è notevole, soprattutto per locali, bar e ristoranti, che vivono una decina di giorni euforici.

Costantini: Come Jazz Network ne organizziamo tre all'anno: 1) il più cospicuo, Crossroads, si svolge nell'arco di tre mesi, tra fine febbraio e fine maggio. Il numero dei concerti varia di anno in anno, ma mediamente sono 30-35. È un'iniziativa molto articolata: coinvolge in media 16-18 città e soprattutto piccoli paesi della regione Emilia Romagna, in sedi disparate (teatri di capienza piccola e media, dai 100 ai 450 posti, club, chiesette sconsacrate, sale da concerto). Non ha sponsor privati e si regge sul metodo del matching funds: andiamo a investire gran parte del contributo regionale (la Regione Emilia Romagna è la nostra principale fonte di finanziamento) e del contributo ministeriale laddove troviamo contributi locali da parte di comuni, fondazioni, o associazioni come la nostra, disposti a investire assieme a noi; unendo le forze, riusciamo a realizzare programmazioni che altrimenti non sarebbero affrontabili. Il bilancio generale ammonta, compresi gli incassi, a circa 300.000 euro.

2) Ravenna Jazz è il festival storico (nel 2013 ha festeggiato il proprio quarantennale), che in media dura 3 giorni e ha un bilancio di 115.000 euro: qui i contributi pubblici incidono per il 53%, gli incassi per il 25% e gli sponsor privati per il 22%.

3) Lugo Musica Estate, piccola rassegna estiva di 3 giorni, in un chiostro da 100 posti, con un micro- bilancio: compresi gli incassi, sui 12/13.000 euro. Nessuno sponsor; unico sostenitore la fondazione del Teatro Rossini.

Non è mai stata rilevata o certificata la ricaduta economica sul territorio: difficilissimo se non impossibile sarebbe farlo per Crossroads (il festival è itinerante, nella maggior parte delle località si tiene un solo concerto, in alcune situazioni un paio, in una sola cinque-sei), inutile per la mini-rassegna di Lugo, per Ravenna Jazz non sarebbero numeri significativi, considerando che il festival dura solo 3 giorni in un teatro da 800 posti.

Fresu: Time in Jazz si svolge da 25 anni a Berchidda: quest'anno in dieci giorni coinvolgerà circa 150 artisti tra musicisti e artisti visivi. Solo alla mensa interna vengono serviti circa 2500 pasti caldi e questo dà un'idea della complessità della manifestazione. Ha un budget di circa 600.000 euro (comprese le manifestazioni fatte durante l'arco dell'anno e quelle collaterali) di cui il 60% proviene da finanziamenti pubblici e il 40% da privati, per un totale di circa 30.000 presenze nell'arco dei dieci giorni di durata del Festival che coinvolge oltre 15 centri del Nord Sardegna. L'investimento con i denari dei cittadini è dunque di circa 360.000 euro e questo rende quattro volte di più (circa 1.500.000 euro) senza considerare il ritorno pubblicitario e di immagine di cui si giova tutto il territorio e l'intera Sardegna, nonchè il valore formativo di un'esperienza che coinvolge centinaia di giovani volontari e altre figure professionali che sono nate e/o maturate in seno al festival e che oggi hanno intrapreso una professione nel settore della cultura e del turismo culturale.

Leali: Il festival ha una durata di 12 mesi e prevede oltre 100 concerti all'anno e due seminari didattici. La parte pubblica del bilancio è intorno al 40% nel 2012 e intorno al 20% per il 2013. Il festival fa registrare oltre 12mila pernotti all'anno sul territorio e un indotto di circa 2 milioni di euro a fronte di circa 50/70 mila euro di finanziamento pubblico.

Mormile: Complessivamente in un'estate ne organizziamo tra i 50 e i 60 con un budget intorno ai 150.000 euro complessivi annuali (comprendendo le collaborazioni con i festival di Verona, di Padova etc.) prevalentemente pubblici, mentre i privati finanziano attualmente solo qualche iniziativa. La ricaduta non è certificata, ma ne abbiamo rilevata di importante in particolare su Venezia, con diversi biglietti venduti all'estero e camere occupate per il pubblico.

Quali sono, sinteticamente, i criteri con cui vengono costruiti i cartelloni del suo Festival?

Brazzale: Vicenza Jazz si tiene storicamente a maggio, un periodo "di mezzo," tra la fine dei tour di primavera e l'inizio di quelli estivi. Questo ci ha spesso piacevolmente obbligati a inventarci progetti che fossero al di fuori delle logiche dei tour, creare incontri o, come dice il nome del festival, "new conversations". Da qualche anno, tuttavia, l'aumento esponenziale delle spese sia di cachet che dei viaggi soprattutto intercontinentali, ci ha condizionato non poco. Vi è comunque un tema principale e uno o più temi secondari che incidono in modo a volte significativo, a volte meno. Detto questo, e fatta salva la ricerca della qualità nella varietà (criterio necessario per attirare pubblico pagante per nove sere di fila, in una città e un periodo non di turismo), l'unicità del Teatro Olimpico (il teatro coperto più antico al mondo) ci ha sovente spinto a cercare soluzioni non scontate. Oggi, con il nuovo Teatro Comunale, sono inevitabilmente sopravvenute soluzioni anche convenzionali.

Costantini: Il criterio base, irrinunciabile, è l'alta qualità artistica; si cerca poi di offrire un variegato panorama della scena attuale, con un occhio alla storia e alla tradizione e l'altro all'attualità, alle novità provenienti da ogni dove, Italia compresa. Tutto il resto si deve forzatamente incastrare con mille circostanze di varia tipologia: la disponibilità economica (sempre scarsa), la disponibilità degli artisti, la disponibilità dei luoghi di spettacolo (non abbiamo uno spazio "nostro" in cui programmare), la "ricettività" del tal luogo per la tal proposta, le esigenze dei partner locali e via dicendo. Non è mai semplice mettere assieme i pezzi del puzzle e raggiungere il quadro finale, ma alla fine ce l'abbiamo sempre fatta e con soddisfazione. Laddove si può, si cercano anche trame e fili conduttori, magari molteplici, da seguire e approfondire.

Fresu: Ogni anno c'è un tema che diventa il filo conduttore del festival. I progetti artistici e i singoli musicisti sono dunque legati al tema ma lo sono anche le relazioni dei plurilinguaggi legati alle arti contemporanee con particolare attenzione a quelle visive e performative e al cinema. Questo ci obbliga a chiamare gruppi e progetti che non sono in tour. Molti degli artisti presenti vengono a Berchidda direttamente dall'altra parte del mondo e da lì ripartono verso casa loro. Del resto l'unicità e l'originalità della proposta era l'unico modo per portare gente a Berchidda giustificando così la scelta di un luogo lontano da tutto e con poca vocazione turistica. Naturalmente c'è anche attenzione verso i giovani e le realtà isolane. Ospitiamo non solo giovani gruppi e nuove proposte discografiche, ma anche i borsisti del Seminari di Nuoro che sono legati al festival. Quest'anno la presenza degli italiani è del 35% circa, e alcuni giovani artisti che arrivano grazie al concorso TimeOut. Molti di questi progetti inoltre sono commissioni e produzioni originali uniche.

Leali: Sono vari: si cerca di portare al festival progetti di musicisti o di crearne di nuovi con grandi star affiancate dai giovani usciti dalle nostre masterclass o dal premio. Di solito cerchiamo di tenere il giusto equilibrio tra il tradizionale e quello che propone la nuova scena internazionale.

Mormile: Parliamo del Venezia Jazz Festival: se volessi fare davvero il direttore artistico come si deve, dovrei avere il budget del North Sea Jazz Festival e potrei fare grandi eventi e a ricaduta altre cose di altri livelli. In realtà quel tipo di economie non ci sono e cerchiamo di rimanere in piedi facendo da un lato cose come Jarrett e Corea e dall'altra parte sostenendo progetti di vetrina per giovani musicisti e scambi con altre nazioni, come con l'EMAYT (Europe Music Award for Young Talent) che ci consente di avere giovani e progetti orchestrali israeliani, balcanici, tedeschi, scambi con Ankara e così via. Credo che il futuro sia questo.

Quanti dischi, promo, links, proposte, video riceve mediamente al mese da musicisti italiani? Ha modo di ascoltarli e valutarli tutti? Molti dei musicisti intervistati lamentano (in generale) uno scarso feedback, anche eventualmente negativo, alle loro proposte. Come mai secondo lei?

Brazzale: Ne ricevo quasi quotidianamente ed è praticamente impossibile ascoltare tutto con attenzione. Ovviamente per il semplice motivo che di certo sono lungi dal vivere facendo di mestiere solo il direttore artistico. Così non è, pur ritenendomi fortunato nel poter vivere comunque di lavori che, complessivamente, sono tutti attinenti la musica (nell'organizzazione, la produzione, la didattica, la composizione, la scrittura, il concertismo). Però sicuramente ascolto molto, anche se questo mi porta via del tempo per ascoltare musica solo per mio gusto (e non solo jazz). Cerco davvero di rispondere sempre a tutti ma non è semplice far capire le ragioni di chi organizza, il quale deve rapportarsi primariamente con il pubblico e con chi finanzia. Ed è tutt'altro che facile dare risposte negative (conservo per mio divertimento, molte controrisposte poco edificanti). Ogni artista (non solo musicista) pensa, giustamente, che il suo prodotto sia di alta qualità, non immaginando che, un minuto dopo la sua proposta, se ne riceve un'altra di contraria ma dalle stesse, diciamo, pretese.

Costantini: Direi centinaia. E non si può ignorare che a mandare materiale sono anche musicisti stranieri, da tutte le parti del mondo. Siamo letteralmente inondati da materiale, da proposte, da lettere, da email: sarebbe umanamente impossibile stare al passo. Cerco di ascoltare il più possibile e prima o poi lo faccio, ma può passare anche molto tempo dal momento del ricevimento. Riguardo al feedback: mi rendo conto, è scarso se non nullo e me ne dispiace, ma d'altronde non si può fare altrimenti; rispondere a tutte le proposte sarebbe un lavoro full time in sé, per quanto tempo richiederebbe; purtroppo questo tempo non si ha a disposizione, né si ha a propria disposizione personale che si possa occupare solo di questo; i tempi sono duri, si lavora sempre di più per ottenere sempre di meno.

Fresu: Tutto il materiale che arriva direttamente a casa mia o all'indirizzo della mia etichetta discografica viene da me ascoltato e valutato. Rispondo poi personalmente a tutti i musicisti. Siano questi giovani o affermati, e la risposta non è solo di circostanza ma, a seconda dei casi, è approfondita quando questo viene richiesto dagli stessi artisti. Il materiale che arriva invece in sede a Berchidda, per ovvi motivi, viene da me solo in parte ascoltato visto che non sono fisicamente presente in Sardegna, ma trova comunque una risposta cortese e puntuale anche se non di mio pugno. Trovo profondamente sbagliato non rispondere e per questo io lo faccio sistematicamente. Per i giovani, anche una sola risposta è significativa e può infondere quella fiducia che manca e di cui c'è bisogno visto che nessuno si preoccupa della loro crescita.

Leali: Circa 40 proposte mensili da italiani e altrettante da musicisti esteri. Per ovvi motivi di tempo è umanamente impossibile ascoltare tutto e rispondere a tutto quello che ci arriva.

Mormile: Una montagna, oltre ai link arrivano ancora i pacchetti e due volte alla settimana per 3, 4 ore mentre lavoro mi metto a ascoltare quelli che riesco. Alla fine ne ascolto 10/15 al mese, più facile è che, stando al computer vada a cercare o sentire su YouTube. La questione del feedback l'abbiamo risolta con una risposta cortese di ricezione da parte della segreteria, ma date quante proposte riceviamo, non ci sarebbe materialmente il tempo di dare feedback personalizzati a tutti.

Quanti dischi (o video, links da scaricare, etc), anche non inviati dai musicisti ascolta in media in un mese?

Brazzale: Ascolto musica sempre, persino troppo, se posso dire (nel senso che, da musicista, dovrei dedicarmi di più alla scrittura della mia musica). Da insegnante di storia del jazz ho imparato ad ascoltare molto jazz classico, oltre che moderno e contemporaneo. Ma non si può non conoscere Bach, Beethoven, Chopin, Ravel, Debussy, Bartòk, Stravinskj (e la "Sagra della Primavera" è cosa vecchia di cento anni), conoscerli sul serio, intendo, al pari dei grandi del jazz e della popular music dell'ultimo secolo. Come non si può non leggere, non andar per mostre, a teatro, al cinema. Oggi con internet, pur rischiando di perdersi in dedali e labirinti, si può cercare e trovare davvero di tutto. E personalmente sono sempre alla ricerca di qualcosa che possa sorprendermi (come quando, tempo, fa, un'amica mi ha prestato il live al Birdland di Konitz, Mehldau, Haden e Motian). Ma ci si imbatte, francamente, anche in fesserie e finte novità: dopo una vita di musica, non è difficile individuare subito i maldestri. Così rimetto "C Minor Complex" di Tristano e mi rinfranco.

Costantini: Non saprei quantificare, ma decine e decine.

Fresu: Non ne ho idea. Dipende dai periodi, ma sono forse una ventina al mese. Essendo poi sempre in viaggio questi si accumulano e, nei pochi giorni che passo a casa, molte ore della giornata sono sistematicamente dedicate all'ascolto e alle risposte via e-mail. Sento e vedo anche video e altro grazie a internet, e scarico materiali dai link quando questi mi vengono spediti. In genere poi archivio tutto sapendo di poterlo tirare fuori al momento opportuno.

Leali: Circa 15/20 al mese.

Mormile: Numericamente non saprei, gli stimoli sono sempre tanti, vado a uno showcase, un suggerimento, una suggestione, un nome annotato o uno trovato su YouTube, beh di certo sono di più rispetto a quello che ricevo.

È stato invitato o è andato a altri Festival in Italia durante quest'anno? E in Europa o in altri Continenti? Quali pensa che siano, al di là dei gusti personali e sinteticamente, le caratteristiche che fanno di un Festival una manifestazione che genera un impatto culturale e economico rilevante?

Brazzale: Per vari motivi, anche come musicista, ho girato per rassegne e festival, anche se non quanto vorrei. Credo che un festival sia tale (e non si tratti solo di una rassegna di concerti) quando ha una sua identità, data da un insieme di fattori che vanno dalla tipologia stilistica e dal tipo di scelte della musica prevalente, ai teatri e alle diverse venues, al clima e al contesto generale. Si può avere impatto economico solo se si esce dai teatri e la musica incontra il territorio: questo è un discorso molto complesso che certo non riguarda solo i concertini all'aperto e nei locali ma, piuttosto, il rapporto con i più diversi operatori, dei più diversi settori. Un festival non lo si cala dall'alto ma lo si costruisce, mattone dopo mattone, con un coinvolgimento globale, facendo parlare di sé anche da parte di chi non sa nemmeno cosa sia il jazz. E questo può capitare solo se il promoter è aiutato da finanziatori (pubblici o privati) che sanno guardare almeno a medio termine.

Costantini: Come sempre ho ricevuto un sacco di inviti, sia in Italia che all'estero, purtroppo non ho potuto quasi mai accettarli. L'impegno sulle nostre attività non mi lascia gran tempo libero e mi impedisce il più delle volte di seguire altre cose. Quest'anno sono stata a un paio di concerti di "Una striscia di terra feconda" a Roma, di "Percuotere la Mente" a Rimini, di "Luglio suona bene" all'Auditorium romano.

Riguardo alle caratteristiche: per cominciare un bilancio degno che permetta di tradurre in realtà e poi anche promuovere adeguatamente idee e intenzioni programmatiche, le quali devono assolutamente esistere, avere un senso ed essere pure interessanti; il sostegno, la collaborazione e la coesione dell'intera città e del territorio in cui si svolge il festival, senza i quali il conseguente isolamento inibirebbe ogni possibilità di impatto.

Fresu: Essendo musicista nei festival ci passo perché ci suono e perché mi invitano. Posso dire che a Berchidda non abbiamo mai ospitato direttori artistici di altri festival, a meno che questi non siano venuti di loro spontanea iniziativa, né noi siamo andati ospiti in altri festival o rassegne. Da questo si capisce che non amiamo il principio dello scambio e della dispersione di energie economiche. Né questo né tanto meno quello degli artisti. Anche i giornalisti, salvo rari casi, i giornalisti non accompagnati, preferendo che i soldi vengono investiti sugli artisti e sulle strutture tecniche per rendere al meglio la musica e lo spettacolo. Del resto non ce lo potremmo comunque permettere, visto che il rapporto tra finanziamenti e spese è davvero al limite. Le caratteristiche che fanno di un festival una manifestazione che genera un impatto culturale e economico rilevante sono per me la continuità nel tempo, la progettualità, il coinvolgimento della società, l'apertura a 360 gradi, il rapporto con il territorio circostante, l'interrogazione sui contenuti artistici, il rispetto per la musica e per gli artisti, il respiro internazionale quando è possibile, il collegamento con altri linguaggi, l'utilizzazione degli spazi...

Leali: Vengo spesso invitato ad altri festival sia in Italia che all'estero, ma ne frequento pochi in quanto impegnato con il mio. Un festival deve proporre, oltre ai concerti altrimenti si parla di rassegna, formazione, jam sessions, produzione e promozione. Tutto questo crea un indotto sul territorio in cui si opera visto che i 350 allievi all'anno che frequentano i nostri corsi per più giorni sono poi "obbligati" a pernottare sul territorio. Inoltre c'è un indotto per i fornitori service audio e luci, tecnici, tipografie, grafici, etc.

Mormile: Nell'ultimo anno sono stato in Israele, ho dato un'occhiata a circa tre festival e sono andato alla fiera di Brema. Le caratteristiche sono quelle che cerco, cioè non una carrellata di concerti su un unico genere (le rassegne è diverso), ma rivolgendosi a un target vasto, coinvolgendo fasce orarie varie, con attenzione al pubblico profano, attivazione di workshop, possibilità di fruizione gratuita di molte cose e il coinvolgimento di altre forme artistiche, come le arti visive, la video arte, elettronica, la letteratura.

A quanti concerti ha assistito spontaneamente negli ultimi 12 mesi, eccettuati quelli del suo festival? È rimasto colpito in qualcuno di questi concerti da un musicista (italiano o straniero) che trova particolarmente interessante e che si è ripromesso di invitare al suo Festival?

Brazzale: Non lo so, ma se conto sia i festival che i club e i contesti didattici (esclusi i saggi degli studenti), direi qualche decina. Sì, mi è capitato di sentire musicisti misconosciuti ma interessanti e me li sono annotati, pensando di invitarli o comunque di consigliarli a colleghi promoter. Poco tempo fa, per esempio, sono stato a un piccolo festival in Austria e sono rimasto molto impressionato da tre gruppi di giovani, tutti ugualmente attratti, pur nella loro diversità, da idee e forme poliritmiche anche molto complesse. In Italia non avevo davvero mai sentito questo, tanto più da musicisti così giovani, in un clima quale il nostro, da tempo votato all'easy listening e alla mediazione televisiva.

Costantini: Come dicevo, ben pochi: oltre a quelli nei festival citati, altri quattro o cinque. Non ricordo colpi di fulmine quest'anno, anche perché conoscevo già i musicisti e magari già li apprezzavo.

Fresu: Vedo pochissimi concerti perché suono molto in giro per il mondo. Questo però mi permette nello stesso tempo di ascoltare e scoprire cose nuove quando i musicisti suonano prima o dopo di me e anche leggendo i programmi dei festival. Diciamo che di rado la mia scelta per il festival avviene per avere sentito qualcuno, ma piuttosto per i materiali che ricevo a casa e che ascolto. Mi fido anche dei pareri degli altri e tengo in considerazione i suggerimenti delle persone di cui mi fido o dei colleghi musicisti. È anche successo che alcuni musicisti mi abbiano detto "come mai non mi hai mai chiamato al tuo festival? Devo esserci!". Ho sempre risposto che nessuno ci obbliga e che non si chiamano gli artisti solo perché sono bravi o virtuosi, ma perché devono rispondere a un pensiero artistico.

Leali: Circa una ventina e sono stato colpito da Robert Glasper che quest'anno sarà in programma al festival.

Mormile: L'intenzione è di vederne tanti, ma alla fine ne ho visti solo 5 o 6. Mi ha colpito la trombonista israeliana Reut Regev.

Guarda le classifiche dei referendum annuali tipo Top Jazz? Il fatto che un artista ottenga un buon risultato in un referendum la incuriosisce maggiormente nei suoi riguardi o non influisce minimamente?

Brazzale: Certo, le guardo con interesse e curiosità. E cerco poi di ascoltare quei musicisti che prima magari conoscevo poco e che ora, in qualche modo, mi vengono consigliati. Poi, il risultato a volte è davvero interessante, ma a volte può anche risultare a mio parere molto deludente. Questo però mi porta a parlarne e a confrontarmi, con diversi colleghi, sia organizzatori che musicisti, e a valutarne i pareri. Insomma, di positivo posso dire che il risultato di un referendum mi pone comunque di fronte a una questione, e nel senso certamente non negativo del termine. Come dire: mi pongo il problema. Poi questo non vuol dire che il risultato debba sempre influire sulla locandina del festival. Molti anni fa, l'amico Franco D'Andrea mi confessò che, l'anno successivo la vittoria anche come gruppo, i suoi Eleven non tennero nemmeno un concerto. Da ciò si evince che le ragioni dei critici votanti sono lontanissime da quelli dei promoter e quindi da quelle del pubblico, peraltro a loro volta lontane dalle ragioni dai musicisti.

Costantini: Sì, le guardo, ma senza ritenerle scritture sacre; i motivi per cui un artista mi possa incuriosire sono altri.

Fresu: Trovo che le classifiche dei referendum siano assolutamente inutili, non giustificate né giustificabili. In musica (forse nell'arte in genere) non si arriva primi o secondi e non c'è necessariamente il migliore. Parliamo di quale musica? E di quale stile? Ornette suona meglio di Joshua Redman o Mehldau meglio di Corea? C'è a chi piace l'uno e a chi piace l'altro. Capisco anche che queste cose possano servire soprattutto ai giovani, ma è un'arma a doppio taglio e il successo o la bravura non si misurano da queste cose. Inoltre ci sono musicisti che fortunatamente pensano a suonare e non a mandare i CD ai giornalisti che votano. Io non ho mai mandato un disco a un giornalista in vita mia e suono tutte le sere nonostante non sia il primo nei referendum. In pole position sì, ma non necessariamente il più bravo. Non invito nel mio festival quelli che vincono i referendum, ma quelli che mi piacciono e che mi interessano per la costruzione del programma artistico che, come già detto, concepisco come una sorta di partitura musicale.

Leali: Non influisce minimamente, in quanto di solito sono pilotati da grandi agenzie di promoter e nella maggior parte dei casi non corrispondono alla realtà dei fatti e ai gusti del pubblico.

Mormile: Sì, ma in maniera molto leggera e l'esito non mi influenza minimamente nelle scelte.

Segue regolarmente riviste, siti specializzati, trasmissioni radio sul jazz? Quali in particolare (un paio di esempi possibilmente)?

Brazzale: Leggo regolarmente Musica Jazz e Down Beat, ma anche Jazzit e Il Giornale della Musica, spesso i periodici francesi più noti, seguo AllAboutJazz e diversi siti e blog non solo italiani; mi aiuta non poco Facebook, ascolto sempre Radio Tre Rai e spesso molte radio private. Ma la giornata è pur sempre di 24 ore.

Costantini: Seguo, ma non regolarmente. Nulla regolarmente. Quindi non ce ne sono in particolare.

Fresu: Compro regolarmente le riviste specializzate sia italiane che francesi, anche se nella maggiore parte dei casi non le leggo totalmente. Trovo però giusto e importante prenderle per costruire una sorta di archivio del jazz e per essere comunque informato su quello che avviene nel mondo e nel nostro Paese. Sento poca radio. Ma (con la debita e "santa" eccezione di Radio3 di Pino Saulo & Co.) esiste il jazz in radio?

Leali: Leggo bene o male tutte le riviste di settore, ma ormai con poco interesse in quanto piene di pubblicità e principalmente con servizi dedicati ad artisti che acquistano pubblicità sulle riviste stesse. Molto più interessante internet e i siti di settore meno influenzati da giochi economici.

Mormile: Non regolarmente, ma seguo spesso AllAboutJazz o in treno a volte leggo Jazzit e Musica Jazz.

Cosa pensa dei collettivi indipendenti e di altre iniziative dal basso che sono sorte ultimamente in Italia? Li conosce? Qual è la sua opinione su di essi, sia artisticamente che dal punto di vista organizzativo.

Brazzale: Genericamente ne ho un'opinione positiva e credo di conoscerli abbastanza bene. Ritengo che, soprattutto in un momento di crisi non solo economica come l'attuale, il ritrovarsi secondo criteri di autogestione non possa che liberare forze creative. Nel contempo, il gruppo di tipo in qualche cooperativistico, riporta il musicista a contatto con la realtà pratica dell'organizzazione e della promozione e, comunque, ne cementa una visione unitaria che si pone spesso in maniera più forte, rispetto all'iniziativa singola. D'altra parte, ovviamente, considero con altrettanto attenzione chi persegue strade diciamo ordinarie.

Costantini: Ho sempre pensato bene dei collettivi, delle persone che fanno gruppo, che si uniscono per perseguire gli stessi scopi e ideali. Noi stessi siamo nati come collettivo europeo, nel 1987. Sì, ne conosco, stimo il loro lavoro e ritengo che il confronto e lo scambio siano sempre fruttuosi, aiutino la crescita, anche individuale. E poi, oltre che all'arte, l'unione fa bene anche all'aspetto organizzativo. Credo che strutture di questo tipo dovrebbero pesare di più, anche politicamente.

Fresu: Penso che i collettivi siano un'alta espressione del pensiero artistico. L'importante è non farli diventare luoghi chiusi in cui darsi le "martellate sulle palle" o credere altrimenti che siano l'unico luogo valido per produrre musica con i musicisti migliori. Da sempre la musica la si fa assieme. Costruire con gli altri significa arrivare lontano grazie a un'architettura che può essere complessa e coraggiosa. Mi piace di più pensare a "famiglie" artistiche che ai "collettivi," ma alla fine ciò è solo una questione lessicale e il senso si misura nei risultati e nella capacità di dialogare dentro e fuori i gruppi. Intendo ad esempio come "famiglia" la mia etichetta Tuk Music dove si lavora non tanto alla produzione di un CD ma alla crescita dell'artista nella sua totalità. Dunque non domina un pensiero o una filosofia artistica ma piuttosto un'idea di sviluppo o di scambio dell'arte che è sinonimo di crescita. Personale e collettiva. Ben vengano dunque i collettivi!

Leali: Ne conosco alcuni, ma questo non significa per forza qualità musicale. Alcuni sono progetti che hanno effettivamente una certa valenza, altri sono decisamente di scarso spessore.

Mormile: Per mancanza di tempo ho approfondito poco questa tematica, anche perché non li ho incontrati molto sul web.

Quale crede sia (sinteticamente) la principale causa dell'assenza "cronica" di molti artisti pur molto attivi e con un valido riscontro critico (alcuni sono quelli intervistati, ma potrebbero essere molti altri) dai cartelloni di gran parte dei festival?

Brazzale: La prima causa, non vi è dubbio, è riferibile al rapporto costi/benefici. Un qualsiasi artista, non solo di jazz, italiano o meno, di supposta avanguardia o di tradizione, dovrebbe attirare una quantità di pubblico atta a giustificare l'impegno economico che globalmente è spesso importante, dovuto alla somma fra cachet (lordo azienda), spese tecnico-organizzative, logistiche e promozionali. Se non vi è pubblico, vi dovrebbe essere almeno una risposta dei media, vera e autentica (che spesso comunque non c'è, anche a prescindere). Infine, quanto mai dovrebbe esserci la risposta qualitativa dal punto di vista artistico, sia creativo che tecnico (esecutivo- strumentistico e compositivo). Questo ragionamento può esser fatto ora come poteva esserlo ai tempi del bebop storico, del free e della musica improvvisata europea, della etno-world e dei nuovi standard italiani: la ricerca del nuovo è sempre rimarchevole ma, in sé, non è indice di qualità.

Costantini: Credo che la ragione stia nel fatto che la maggior parte dei festival preferisca non affrontare il "rischio": il rischio del "non noto" contro la sicurezza del "noto"; il rischio del "deserto in sala" contro un "pienone certo"; il conseguente rischio del "mancato incasso" contro la garanzia di un "buon introito" e via dicendo. Ora, la situazione è ben più complessa di quanto non appaia: da un lato di sicuro manca nella legislazione e nella prassi culturale (assieme a molto altro) la considerazione del "rischio culturale," laddove invece imperano criteri assai discutibili quali "la logica del botteghino," il valore assoluto del "numero delle presenze," concetti che ucciderebbero qualunque intento culturale e che con la cultura non dovrebbero avere così tanto a che spartire. D'altro canto, vero è che i festival che potrebbero, per la ricchezza dei propri bilanci, offrire un importante servizio culturale al proprio pubblico e opportunità di esibizione agli artisti meno conosciuti, non lo fanno, preferendo invece la logica del "tutto esaurito" che i grandissimi nomi (strapagati) parrebbero assicurare. Ma il discorso meriterebbe ulteriori approfondimenti.

Fresu: Credo che in questo Paese manchi il coraggio delle scelte. Di certo la situazione economica è molto complessa e non è facile né portare pubblico né mantenere in vita festival e rassegne. Il successo di una manifestazione e la garanzia rispetto al proprio futuro è decretata dall'affluenza del pubblico e questo non ama le cose che non conosce. Per questo gli organizzatori chiamano sempre gli stessi e, tra questi, anche il sottoscritto. Tuttavia penso che il problema sia atavico e possa essere slegato dalla crisi contemporanea. Quante volte in passato i direttori artistici erano in balia dei piccoli politici locali che chiedevano questo o quell'artista? Che chiedevano magari di mettere in cartellone l'amico o l'amica? Insomma, che utilizzavano il denaro dei cittadini per i propri interessi e per il proprio tornaconto? Oppure che non si comprende perché mai si deve finanziare una manifestazione a fondo perduto e solamente perché la cultura va fatta ed è necessaria. Se il nostro Paese continuerà ad avere ministri che pongono il problema della commestibilità della cultura non si potrà pretendere di avere una cultura buona laddove l'investimento è semplicemente necessario e indipendente dal riscontro pubblico che comunque è meglio che ci sia. Credo anche però che non si possa programmare il nuovo se non si abitua il pubblico ad ascoltarlo e magari a chiederlo. In questo senso non tutti hanno fatto un buon lavoro perché non si possono costruire festival e rassegne all'ultimo minuto offrendo poi situazioni e spettacoli scadenti o fini a se stessi. Mettere in piedi un festival è cosa complessa e non si può fare dall'oggi al domani. Fare le cose bene significa non solo seminare bene e nella stagione giusta, ma anche creare quell'humus che poi fa attecchire il pubblico che in quel festival si riconosce per tante ragioni. Quando questo avviene il pubblico si fida e allora il direttore artistico ha finalmente la libertà di proporre ciò che vuole e fuori da qualsiasi schema e da qualsiasi pressione esterna. Mi rendo conto che i problemi atavici della musica non sono poi così diversi da quelli della politica. Forse la musica dovrebbe essere meno dipendente dai processi politici... se solo ci fossero più partner privati...

Leali: Sicuramente quello economico. Venendo sempre più a mancare il finanziamento pubblico da parte degli enti si è obbligati a scegliere artisti che fanno botteghino ovviamente cercando di scegliere tra questi quelli musicalmente più validi.

Mormile: Credo non ci siano le condizioni per confidare in un pubblico curioso, come in Francia. Indipendentemente dalla volontà del direttore, credo che alcuni non riescano a entrare negli equilibri economici dei festival. Se fossero promossi dalle istituzioni come succede all'estero (ad es. in Norvegia), con compilation dedicate, sostegni statali, etc., le cose sarebbero ben diverse le cose e saremmo tutti facilitati.

Quali aspetti della promozione di molti giovani musicisti crede possano essere migliorati?

Brazzale: Premesso che la promozione è importante se il prodotto da promuovere è di sostanza, il musicista (anche non giovane) deve cercar di dare una visione di sé come di chi per primo crede nella sua musica come in un prodotto duraturo. Deve dare l'idea di un progetto solido, coeso e compatto, con uno scopo musicale preciso, e che soprattutto egli possiede le forze tecniche per esprimerlo al meglio. Spesso basta una nota per far capire che dietro c'è o non c'è la giusta energia. Tutto ciò dovrebbe tramutarsi in organizzazione, cercando innanzitutto i promoter, i festival, i club che lui sente più vicini, senza dimostrarsi incline a cambiare indirizzo per cercar di compiacere. E non dovrebbe svilire la sua immagine, accettando ingaggi poco edificanti. Ma organizzazione vuol dire, sostanzialmente, che ogni giorno il musicista dovrebbe occuparsi della gestione della sua vita professionale, non delegandola ad altri. La delega all'agente serve realmente solo se è anch'egli parte del progetto.

Costantini: Vorrei dire di tutti i musicisti, non solo giovani, che dovrebbero avere sempre a disposizione materiale innanzi tutto correttamente scritto, sempre aggiornato - non solo biografico ma pure fotografico; non serve che sia su carta patinata o di chissà che pregio: bastano la chiarezza, l'essenzialità, e la forma impeccabile. E invece devo purtroppo rilevare che spesso le schede sono mal scritte, per niente aggiornate, le foto a bassissima risoluzione, magari vecchie di dieci o vent'anni. Per ovviare a tutto ciò basterebbe ben poco: non occorre certo avere un ufficio stampa personale; sarebbe sufficiente dedicare qualche momento in più alla presentazione di se stessi e dei propri progetti.

Fresu: Il "fai da te" purtroppo non dà grandi risultati... I musicisti dovrebbero essere messi nelle mani di validi agenti in grado di fare lievitare il lavoro, ma è un gatto che si morde la coda. Se non c'è lavoro per i giovani musicisti non c'è lavoro per chi deve piazzarli. Bisognerebbe costruire non solo una generazione di giovani manager, ma soprattutto mettere mano a tutto il sistema. Finché continueremo a essere (e a essere visti) come cani sciolti, ognuno farà quello che potrà e si arrabatterà rischiando a volte di mettere il piede addosso ai colleghi. Andrebbe completamente riscritta la realtà dell'arte in Italia e delle musiche di nicchia, e bisognerebbe recuperare una coscienza collettiva nonché inquadrare la figura dell'artista. In Francia e in altri paesi europei questo lo si fa da tanti anni ma per noi è utopia pura. Molti anni fa provammo a farlo con l'AMJ, ma questa si sgretolò dopo qualche tempo. Non sarà che anche noi artisti stiamo sbagliando in qualcosa e siamo troppo individualisti e poco propensi alla cooperazione?

Leali: Qui c'e tanto lavoro da fare. Come prima cosa bisogna dare possibilità ai giovani di esibirsi e possibilmente a fianco di star internazionali, ma a volte capita - a noi a successo in questi giorni - che un gruppo che vince un'incisione di un disco e la sua distribuzione per un valore di 3000 euro poi non lo fa perché deve spendere 20 euro di benzina. Noi investiamo e crediamo nei giovani da anni e a molti abbiamo prodotto il CD, ma spesso sono gli stessi giovani a non investire su loro stessi e per 20 euro sono capaci si rinunciare ad un'importante produzione o alla loro presenza su un cartellone di un festival internazionale. Quando ci capitano questi casi preferiamo non investire su questi giovani, ma su altri che anche se meno bravi credono ed investono in loro stessi.

Mormile: Credo che sia la cura della propria scheda, sia come stampa che come management, vanno trovati modi nuovi per incuriosire i direttori, avendo una lista dei festival e facendo un lavoro di sistematico martellamento, cosa che secondo me non fanno tutti. Mi capita molte volte di incrociare musicisti che mi chiedono "perché non mi chiami?" e io dico "ma tu mi hai contattato?" E molti non lo fanno, non sono capaci.

Crede che in Italia i musicisti siano poco tutelati o "protetti" in termini di occasioni di lavoro? Quale nazione europea secondo lei attua la politica più interessante in quest'ottica? Se potesse godere di una situazione fiscale più vantaggiosa o tramite altri incentivi, sarebbe più invogliato a sostenere musicisti italiani non di immediato richiamo per il pubblico?

Brazzale: Io credo che in Italia ci sia una sempre maggiore confusione, anche di ruoli, dettata da un numero sempre crescente non solo di musicisti (talvolta - ma non sempre - ottimi), ma pure di chi organizza, o scrive, produce, agisce, in maniera non professionale. Il tutto in un mercato in crisi, dove chiunque pensa sia giusto fare annualmente un disco e che questo debba essere ben recensito e quindi distribuito e acquistabile. All'estero, i compensi medi, per i musicisti al di fuori dello star-system, sia nei festival che nei locali, sono anche minori che in Italia. A volte si ha l'impressione che all'estero le cose funzionino meglio (e così sembra essere in generale, per esempio, in Scandinavia) ma si dimentica che in certe altre nazioni non c'è assolutamente la densità di musicisti, di locali e di proposte come in molte città e regioni italiane. E, bene o male, non vi è dubbio che la crisi ha portato i gestori dei locali ad avvantaggiarsi del lavoro a basso costo di molti musicisti amatoriali, poco più che studenti o dopolavoristi. Ciò non toglie che la situazione fiscale italiana è pesantissima e invitare un americano resta oggi economicamente molto più conveniente.

Costantini: In Italia il lavoro artistico in generale è poco tutelato o protetto; il lavoro dei musicisti ancor di più: diciamo che sono completamente abbandonati a se stessi. Però d'altro canto, tasse e balzelli si accaniscono sui loro già miseri compensi: che per ingaggiare un musicista italiano, il datore di lavoro debba spendere quasi il doppio di quel che finisce effettivamente nelle tasche dell'ingaggiato, è davvero scandaloso. E poi per che cosa? Il 33% di Enpals versato ora nelle casse dell'Inps è come se venisse gettato a mare. Non tornerà in alcun modo ai soggetti sul cui compenso grava. In generale, un trattamento fiscale più equo gioverebbe a tutti, musicisti e organizzatori.

Un bel modello è l'Olanda, dove gli enti pubblici promuovono i loro artisti, agevolandone i tour all'estero, dove esistono attivissime associazioni di musicisti, la mitica Bimhuis di Amsterdam, show-case del jazz olandese ai quali vengono invitati tutti i promoter del mondo. Ma anche la Scandinavia, la Svizzera, la Francia, nonostante qualche deriva "protezionistica" discutibile.

Fresu: I musicisti italiani non sono tutelati né protetti. Ognuno fa come gli viene e sono fortunati quelli che lavorano e quelli che riescono a trovare degli ingaggi. Come già detto, in Francia è diverso. Il musicista rientra in un complesso ma oliato meccanismo che è quello cosiddetto degli "Intermittenti dello Spettacolo". Se un musicista, ad es., lavora nell'arco di undici mesi per 42 prestazioni (507 ore lavorative distribuite in tranche diverse a seconda dei concerti e delle prove), l'anno successivo percepisce un sussidio di disoccupazione che è pari alle giornate non lavorate e ai cachet maturati l'anno precedente. Questo permette di avere non solo un grande aiuto economico ma di poter gestire anche la propria vita professionale, oltre che essere riconosciuti dalla società. Esiste inoltre un "congedo" annuale pagato perché lo Stato riconosce all'artista periodi di vacanza, riflessione o studio. Senza contare i contributi che arrivano dall'industria discografica attraverso società come Adami e Spedidam. Che si fa in Italia? Qualche artista ha mai ricevuto nulla, a parte la Siae? Perché fuori sì e da noi niente? In Francia si abbatte così anche il lavoro nero. Perché l'artista ha tutto l'interesse a raggiungere le 507 ore lavorative e se suona in un club non prende i soldi in nero, ma chiede di essere dichiarato. Tuttavia penso anche che questa situazione di tutela possa anche generare dei mostri poiché nel momento in cui l'artista si siede, rischia di appiattire il proprio pensiero artistico. Una via intermedia forse sarebbe la soluzione auspicabile!

Leali: Assolutamente non sono tutelati o protetti e il lavoro dei musicisti non è riconosciuto in Italia come tale. La formazione per essi non rientra nelle possibilità che molti enti danno ad altre professioni. Sicuramente la Francia è una di quelle in Europa che tutela di più i musicisti. Certo con possibilità fiscali agevolate sarei sicuramente più propenso ad investire su musicisti italiani non di immediato richiamo. Fermo restando che questo già lo facciamo e in maniera molto marcata rispetto a tanti festival.

Mormile: Sì, sono poco tutelati. La Norvegia. Assoluamente sì.

Ritiene ragionevole che, accanto ai nomi più di richiamo, un Festival possa dedicare spazi collaterali ai progetti e ai concerti di musicisti (non solo italiani) meno conosciuti e meno "facili," con l'obbiettivo di far crescere e maturare il pubblico e gli stessi musicisti?

Brazzale: Più che ragionevole, lo ritengo doveroso. Diversamente, per esempio, non avrei mai invitato Ernst Reijseger ma, per molti versi, nemmeno Henry Threadgill (che infatti, non per un caso, non lo si nota quasi mai nei cartelloni italiani e, fosse solo per lui, non avremmo mai riempito l'Olimpico neanche per metà). A Vicenza, sono scelte che, più o meno, abbiamo sempre fatto, ma ovviamente in certe proporzioni: lo avessimo fatto di più, probabilmente il festival non sarebbe arrivato alla diciottesima edizione.

Costantini: Assolutamente sì. È quello che noi, specie con Crossroads, abbiamo sempre cercato di fare, tra l'altro nella programmazione tout-court, non in spazi o eventi collaterali. Ma è un'operazione assai difficoltosa, specie per chi ha sempre problemi di budget e non può ignorare il botteghino; e purtroppo è sempre più un'impresa coinvolgere e incuriosire il pubblico, che pare refrattario a ogni stimolazione. Dovrebbe essere un dovere statutario per i festival più ricchi, che non hanno problemi di risorse: e invece, nei fatti, risultano essere quelli che rischiano meno, puntando sul sicuro, sulla via battutissima delle grandi star, supercostose e spesso uguali a se stesse.

Fresu: Credo di avere già risposto precedentemente. Certo che sì. Purché non ci sia l'obbligo di farlo per forza e purché la scelta degli artisti giovani sia funzionale al progetto artistico. Credo nelle "quote rosa," ma non in quelle legate al passaporto, pur sapendo che alcuni paesi lo fanno e che (cosa giusta) si debba legiferare sulla tutela del lavoro come si fa in Inghilterra e negli Stati Uniti dove, se ti trovano senza il visto di lavoro, ti rimandano a casa con un calcio e sei interdetto dal frequentare gli USA per tre anni anche se lì hai la tua famiglia...

Leali: Sì ed è una cosa che già facciamo da 10 anni...

Mormile: Assolutamente sì, in parte lo facciamo già.

Quale tipologia di luogo, al di là della naturale constatazione che un grande afflusso è sempre auspicato, le sembra il più adatto, per dimensioni e caratteristiche, per fruire delle proposte jazz meno ovvie?

Brazzale: Tendenzialmente servirebbero piccoli auditorium, dalla buona acustica, specie se inseriti in contesti culturali più vari, contigui a mostre, cinema o biblioteche. Questi sì, sono luoghi che ho notato di più all'estero, sia in Francia che in Germania o in Norvegia. Servono luoghi identificabili, capaci quasi da soli di richiamare un certo tipo di pubblico, curioso, potenzialmente estraneo alle etichette e piuttosto attratto dalle novità e commistioni culturali.

Costantini: Intanto un luogo avvezzo a programmare usualmente: la continuità di programmazione è fondamentale, da un lato per creare un pubblico di aficionados, che finirebbe per seguire tutto quello che il luogo, che ha avuto tempo e modo di farsi conoscere, proponesse. Noi purtroppo ne siamo privi, e sentiamo molto questa mancanza: peregriniamo ospiti di teatri o sale non nostri, ci passiamo come meteore una o due volte all'anno, e seminare in queste condizioni è direi impresa ardua. E laddove riusciamo a portare proposte meno ovvie, ne paghiamo - consapevolmente - le conseguenze. Quindi, credo alla fine che il posto ideale sia il club: non solo per via della continuità di programmazione che si diceva, ma anche per la giusta dimensione, di solito non eccessivamente ampia.

Fresu: Non credo che il problema sia il luogo, quanto piuttosto quell'altro luogo virtuale che si crea quando si stabilisce un feeling tra artista, festival e pubblico. Personalmente amo molto gli spazi naturali. Non solo perché da noi a Time in Jazz c'è un pensiero "green," ma perché l'indagine nei luoghi altri obbliga artisti e pubblico a fare uno sforzo che prelude a una comunicazione diretta. Toscanini diceva che "all'aperto si gioca a bocce", ma oggi i sistemi di amplificazione minimi e non impattanti permettono anche in quei casi una buona fruizione della musica. Il rapporto tra musica e ambiente è intrigante, ed essere disposti verso uno spazio bello significa accettare meglio il nuovo e porre la musica in un luogo importante che è l'epicentro della vita.

Leali: Uno spazio da circa 100 posti, che poi può essere un club come molte location storiche e culturali.

Mormile: Luoghi estivi come chiostri, ville, giardini, mentre all'interno credo i piccoli teatri. Anche i locali, i jazz club hanno sempre una grande importanza, anche sono pochi in Italia quelli con una vera vocazione e dove si ascolta davvero bene la musica senza essere disturbati dalle attività di bar.

Quali sono secondo lei i tre festival o rassegne in Italia (escluso il suo) che hanno una visione strategico/culturale più interessante e innovativa?

Brazzale: Questa è una domanda insidiosa. Però posso dire che il Veneto, dove vivo e opero, ha sempre mostrato esperienze interessanti, dallo storico Centro d'Arte dell'Università di Padova a certe Biennali veneziane, senza dimenticare alcune indimenticabili edizioni del jazz fatto al Teatro Romano da Nicola Tessitore, pure passando per i tempi d'oro del Caligola a Mestre o di Lilian Terry a Bassano. Ma chiedo scusa: temo che, al di là di questo, dovrei troppo andare indietro nel tempo.

Costantini: I primi che mi vengono alla mente sono Pomigliano Jazz e Clusone Jazz: il primo, sempre attivo con produzioni originali legate anche alla propria etichetta discografica Itinera; il secondo, che non ha mai smesso di essere "coraggioso" nelle sue proposte, nemmeno ora che ha subìto come molti di noi forti tagli di bilancio. Analoghe considerazioni valgono per Berchidda.

Fresu: Potrei dire quali "non" hanno questa visione ma preferisco non farlo perché sono molti. La mia visione della realtà è quella del musicista ancorché prima che del direttore artistico quale non mi ritengo, nonostante tutto. Il mio punto di vista è dunque dettato anche da un altro ruolo e rischierei di essere fuori strada. Penso che le manifestazioni che non hanno una visione strategica, qualsiasi questa sia, siano troppe e che in questo caso l'improvvisazione non giovi a nessuno. Programmare significa avere una strategia precisa in grado di fare lievitare le cose. Solo in questo modo è possibile coltivare il pubblico e attraverso di esso proporre l'inascoltato. Altrimenti si fanno sempre le stesse cose e si rimane vittime di se stessi bruciando così anche i denari pubblici. Penso però che ci siano anche tante manifestazioni virtuose che andrebbero premiate. E penso che ci siano ottimi e capaci direttori artistici e altrettanti musicisti che si impegnano nell'organizzazione e nella direzione e che questi potrebbero lavorare meglio se messi nella migliore condizione.

Leali: Peperoncino Jazz Festival è l'unico che mi viene in mente che possa rispondere a questi requisiti.

Mormile: Atina Jazz, Cormons, ma anche il Festival di Bologna del compianto Massimo Mutti.

Quali ritiene siano i doveri di un curatore/direttore artistico nei confronti del pubblico, degli artisti locali e non, dell'intera scena culturale, derivanti dal fatto di ricevere fondi pubblici?

Brazzale: Questa è una domanda importante. È persino ovvio che gli interessi personali debbano star fuori da certe logiche e dunque non c'è dubbio che il primo dovere è quello dell'onestà intellettuale. Nel dirigere un festival, so di poter e dover imprimere una mia personale visione ma so altrettanto che il primo referente è il pubblico che, di norma, è meno stupido di quanto si possa immaginare. E ne ho conferma, lungo tutto l'anno, quando la gente più disparata, e a me sconosciuta, mi ferma, non solo per complimentarsi ma anche per darmi consigli o dirmi quali sono stati i concerti migliori, le situazioni più belle o quelle deludenti. Certo, poi non bisogna abbassare la guardia della qualità, perché i criteri non possono essere quelli della vendita di un prodotto commerciale, per il quale è più importante la confezione o l'incisività della réclame. Ma provare a essere intellettualmente onesti significa per me non farsi ingannare dalle apparenze e attirare dalle lucciole: per me, prima della forma, vien sempre la sostanza, cioè la musica.

Costantini: Serietà intellettuale; passione per il proprio lavoro e competenza in materia; capacità di discernimento del valore artistico; gestione oculata dei bilanci, con la diligenza del pater familias; rispetto per la storia della musica, per i musicisti tutti, e per l'intelligenza del pubblico.

Fresu: Un festival che ha una storia è come un monumento pubblico. Nonostante sia voluto e organizzato magari da un'associazione culturale è di tutti, va fatto crescere e tutelato. So che molti non la pensano così ma è proprio questo il problema del nostro Paese. In Sardegna c'era un vecchio signore che girava con un'altrettanto vecchia Bianchina a vendere librettini stampati da lui con le trascrizioni integrali della gare di poesia "in limba". Oggi chi ha preso il suo posto dopo la sua morte è un senegalese nero come la pece. Perché lui dice che quando in Africa muore un anziano è come se bruciasse una biblioteca. In questo caso la biblioteca è una rassegna, un festival che non deve bruciare mai. Il ruolo e il dovere del direttore artistico deve essere quello di lavorare bene, di rispettare gli artisti e di fare tutto per offrire uno spettacolo di grande qualità sotto ogni punto di vista creando eventi che abbiano anche un buon riscontro pubblico e che permettano di reinvestire i denari pubblici quando ci sono.

Leali: Realizzare il più possibile concerti gratuiti e di tenere i costi dei concerti e dei seminari il più basso possibile.

Mormile: Fare progetti come quello dei giovani, riuscire con le risorse a cercare di autofinanziare i concerti a pagamento per usare i soldi pubblici per fare attività gratuita.

Ritiene che i musicisti che non trovano (per questioni stilistiche, di carenza di management o altro) spazio nei Festival debbano creare un circuito "alternativo" a quello dei festival e delle rassegne, con un pubblico e delle modalità differenti da quelle in uso? Se sì, come? ?

Brazzale: Credo davvero di sì. Non ci si può proporre in modo, per così dire, alternativo e tuttavia chiedere di esser immesso nei percorsi tradizionali. Non si va in chiesa per bestemmiare e, se si vuole spogliarsi con tranquillità, si va nel campo nudisti. E Pollock lo si trova alla Guggenheim, non nelle gallerie delle icone russe. Che fare? Sarebbe stato un po' più facile un tempo, prima dell'edonismo reaganiano. Oggi, bisognerebbe chiedere agli enti pubblici di dare spazi da gestire, magari con il concorso di qualche finanziatore illuminato, amante di linguaggi non consueti. Ma, se dietro c'è un progetto vero, credo che si possa essere credibili.

Costantini: È molto difficile rispondere a questa domanda. Non credo comunque che ghettizzarsi in circuiti "alternativi" sia la soluzione. La lotta che dovremmo fare tutti assieme riguarda secondo me la politica culturale in generale; in particolare, si deve cercare di modificare e migliorare molte cose (alcune qui le abbiamo anche solo accennate) in questo mondo e se lo si fa tutti assieme, compatti, di sicuro si hanno maggiori possibilità di riuscita. Per esempio, è stato lanciato un appello per il jazz, alcuni mesi or sono, e l'appello è ancora attivo (www.xiljazz.it): molte di queste cose sono lì enumerate e condivisibili, e possono essere una base di partenza per un lavoro comune. Purché si esca dalle guerriglie intestine, dalle false e inutili contrapposizioni, dai propri piccoli orti e si faccia fronte unito.

Fresu: Perché no, se sono in grado di farlo. Penso che in questo momento così complicato le nuove strade siano l'unica chance per affrontare il futuro. Non solo in musica, ma anche in politica, in economia... L'Italia è interessante perché è lunga e vasta. Ogni luogo ha un diverso modo di esprimersi e dinamiche diverse nei rapporti con il prossimo e in quelli tra istituzione e cittadini. Se questo in politica è visto come una cosa drammatica, in arte risulta molto interessante. Per questo ogni realtà è a sé stante e ogni relazione va perseguita nel proprio territorio. Penso che ogni artista o ogni collettivo o gruppo debbano fare una ricerca nei propri luoghi e nelle proprie città e paesi e che si debba dialogare molto, sapendo che non possono esserci né mille festival in ogni regione né migliaia di concerti. L'altro problema è che noi musicisti siamo tantissimi e non c'è spazio, né opportunità lavorative per tutti. Alla fine i musicisti insegnano tutti perché mancano le occasioni concertistiche e non fanno altro che contribuire a creare un esercito di disoccupati o di nuovi insegnanti...

Leali: Sì, ritengo che lo debbano fare associandosi e investendo su loro stessi. Non si può pretendere di volere fare la propria musica "innovativa," pretendere cachet dignitosi e poi realizzare concerti che attirano cinque spettatori. Secondo me dovrebbero essere gli artisti a investire su loro stessi e la loro musica e che a noi direttori spetti offrire loro promozione e produzione.

Mormile: Spesso ci sono musicisti che creano più curiosità all'estero che in Italia. Penso possa essere una buona idea creare un circuito tra di loro per avere dei varchi verso pubblici che li rappresentino di più rispetto a quelli di altri festival. Perché alla fine il punto è anche che a parte del pubblico certe proposte non piacciono, il tema è delicato e ovviamente soggettivo, ma capita che alcune musiche non abbiano un grande riscontro perché in Italia abbiamo, come dicevo, un problema culturale.

Pensa, al di là degli slogan, che ci sia realmente un pubblico del jazz in Italia, economicamente rilevante e costante? Se sì, come mai questo pubblico (se c'è) non riesce quasi mai a ingolosire qualche investitore nell'organizzazione di manifestazioni musicali jazz interamente sostenute da privati?

Brazzale: Un pubblico realmente del jazz, nel senso che qui si intende, al di fuori di prodotti annacquati, non esiste in numeri importanti. Lo dicono anche i dati Siae che sono rilevanti solo quando si tratta di pop(ular) star; mentre, significativamente, è in crescita il numero dei soggetti organizzatori, a fronte del calo degli incassi (il che è un dato su cui meditare). Storicamente, quando il pubblico del jazz si è allargato ha sempre significato che il non-jazz tendeva a prevalere. E oggi, in una società guidata dai media visivi, questa tendenza non è controvertibile. Temo che si debba tornare a investitori amici, personalmente del jazz e della musica, della cultura e dell'arte, prima che dell'economia. Diversamente, il jazz in sé e per sé, o comunque la musica d'arte, ha perso.

Costantini: Credo che un pubblico del jazz ci sia, ma questo non riesce a "ingolosire" investitori, almeno il "classico" tipo di sponsor, perché si tratta di un pubblico assai parcellizzato, anche se molto diffuso: ossia, ci sono pochi soggetti ma sparsi ovunque. Sommati, formerebbero il più grande pubblico del mondo, ma il problema è sommarli!

Sarà che noi abbiamo sempre avuto enormi difficoltà nel reperire contributi privati, anche per via della particolare situazione del nostro territorio, dove tutto è già drenato e indirizzato altrove e a decidere e gestire pure gli interventi dei privati sono spesso gli amministratori pubblici.

Fresu: In Italia c'è uno dei pubblici migliori del mondo, così come la realtà jazzistica è una delle migliori del mondo. Perché denigrarci sempre e comunque? Se siamo messi male sul piano del lavoro la fertile realtà del jazz italiano risulta un controsenso. Purtroppo questo è il momento meno adatto per fare ingolosire qualsivoglia sponsor, soprattutto quando le manifestazioni si svolgono in aeree del territorio difficili e disastrate sul piano economico e della ricerca del lavoro. La Sardegna oggi, ad esempio, è una di queste ma la gente ha voglia di musica e di jazz. La gente, nonostante la crisi, ha voglia di viverla per strada e nelle piazze. Quando frequentavo la Spagna degli anni Ottanta mi rendevo conto che la maggior parte della cultura era finanziata da banche e da fondazioni. In Italia questo è sempre poco avvenuto. Forse bisognerebbe cambiare il sistema fiscale per fare sì che le imprese siano stimolate in questo senso o forse bisognerebbe solo cambiare i nostri politici e i nostri dirigenti che pensano ancora in modo vecchio. Leali: Sì, c'è ed in crescita costante. Quanto agli sponsor, ho notato personalmente un sempre maggiore interesse da parte dei privati verso questa musica. Ovviamente uno sponsor privato chiede anche ritorni d'immagine e di pubblico. Mormile: Devo essere sincero? No, se il confronto è con altri posti come la Norvegia o la Francia, dove si vede gente di tutta l'età che va nei club o ai concerti. E lo scarso investimento dei provati penso ne sia una conseguenza, sì.

C'è qualche aspetto del Festival che lei dirige che ritiene possa essere migliorato?

Brazzale: Forse dirò una cosa troppo ambiziosa, ma ritengo che il Festival debba dare un apporto sempre maggiore alla crescita culturale di una vera coscienza musicale diffusa, con attività, anche per nulla eclatanti, che si sviluppino durante l'anno, nell'attesa di maggio. Solo così si riuscirà a non aver bisogno delle star per richiamare pubblico da musicisti sì di qualità ma non popolari. Poi, di cose piccole pratiche ce ne sono un'infinità da migliorare: ce le diciamo spesso all'interno dello staff ma non serve fare outing!

Costantini: Di certo la promozione, che soffre per prima della strutturale carenza di fondi: privilegiando l'attività, non ne rimangono abbastanza per promuovere questa in modo adeguato. E sicuramente altro: le idee non mancano, il problema è che mancano i mezzi per poterle realizzare.

Fresu: Molti. Anzi moltissimi. In alcuni casi la responsabilità è la nostra. In altri dei nostri interlocutori politici. Già avere garantito un finanziamento triennale con relativo programma in tre anni sarebbe un grande miglioramento. Inoltre avere non solo certezza sui finanziamenti (il nostro festival inizia tra un mese e ad ora, dopo 25 anni di lavoro e di storia, non abbiamo ancora la minima idea di quanto ci verrà dato!) e sulle tempistiche di accredito degli stessi. La Regione paga con i suoi tempi e funzionalmente al Patto di stabilità, ma gli interessi bancari non vengono presi in considerazione nei bilanci. Se tutto va a rotoli chi ne fa le spese? Il presidente dell'Associazione, non certo il funzionario di turno.

Leali: Ogni cosa può essere migliorata e pensare che tutto sia perfetto è il primo errore che porta verso la fine dell'evento.

Mormile: Può sembrare banale, ma direi che la cosa che mi manca è il budget per poter portare a più pubblico la formula cui stiamo già lavorando.

Le chiedo di rispondere a quanto un musicista intervistato ha deciso di chiederle direttamente o a una domanda espressamente dedicata al suo Festival:

Ogni anno Vicenza Jazz dedica un grande concerto gratuito in piazza al pubblico della città. È un investimento che secondo lei aiuta, portando parte di quel pubblico anche a incuriosirsi degli altri concerti a pagamento, oppure rimane un pur sempre valido (e immagino non economicissimo) "regalo" di intrattenimento a un uditorio che comunque non si identifica nel jazz e ne fruisce in modo occasionale?

Brazzale: Con tutta sincerità, siamo più vicini alla seconda ipotesi. Ma, spinti anche dalle esigenze di immagine di chi finanzia, sia pubblico che privato, e dato atto che una generale ricaduta pubblicitaria sul festival avviene comunque, non mi dispiace che alla fine sia il jazz a fare un regalo alla città. Il jazz è stato così a lungo (e per molti versi è ancora) una musica negletta che mi fa piacere debba trovarsi nella parte del generoso zio d'America.

Data la sua esperienza con il Network Europeo, quali pensa possano essere delle strategie efficaci per una migliore circuitazione di musicisti, ma anche di mobilità degli operatori, in Europa? Che tipo di azione politica e culturale dovrebbe essere suggerita al Ministero e agli Enti Locali?

Costantini: L'incentivazione di scambi e co-produzioni, di show case o iniziative simili, che in passato si sono felicemente attuati. Non è soltanto una questione di fondi, che andrebbero assolutamente incrementati, nella cultura in generale e nel jazz in particolare: è anche una questione di atteggiamento "culturale," di considerazione e rispetto, di volontà di capire l'importanza di forme d'arte "altre" rispetto a quelle considerate "classiche" e più che tutelate in ogni modo e in ogni dove. In realtà, una vera azione politica e culturale manca del tutto negli enti pubblici e nei loro amministratori. Bisognerebbe cominciare dall'abc: la strada da percorrere è davvero lunga e impervia. Ciò non toglie che spetta a tutti noi, nel nostro piccolo, incamminarci in questa direzione e non smettere mai di dedicarci a questo obiettivo, nell'interesse di tutti, prima fra tutti proprio la "cultura," parola che pare essere sparita completamente dal vocabolario dei politici, che cercano solo consenso, per di più senza riuscirci, visto che sempre più cittadini si allontanano dalla cosa pubblica.

"non ho potuto fare a meno, qualche tempo fa, di leggere la sua infuocata missiva all'Unione Sarda (mi pare) nella quale si lamentava di un piccolo (in proporzione) taglio al budget del suo Festival. Con la somma corrispondente all'entità di quel taglio avremmo agevolmente potuto mettere in piedi tra le quattro e le sei rassegne quali quelle che El Gallo Rojo ha faticosamente organizzato negli ultimi anni a Massa Lombarda. Alla luce di questo fatto, non sarebbe il caso di riconsiderare una scala di valori che non può essere più applicabile al periodo di crisi in cui viviamo, e quindi di redistribuire quelle che per me sono enormi risorse in una maniera più equa e consona? "

Fresu: Chiedo a chi ha scritto: quanto costa il festival di Massa Lombarda, quanti musicisti ci suonano e qual è l'indotto sul territorio? Da quanti anni esiste e i musicisti sono pagati oppure no? C'è un direttore artistico e percepisce un compenso? Lo chiedo perché io, in venticinque anni di Time in Jazz, non ho mai preso un euro per scelta. Né per il mio ruolo di presidente della "nostra" associazione culturale (ho ipotecato la mia casa per potere accedere a un fido bancario), né per quello di direttore artistico, né per quello di musicista. Siamo partiti da zero e ciò che abbiamo costruito lo abbiamo fatto lottando tutti i giorni e dimostrando capacità, progettualità e serietà. Se il nostro budget può sembrare tanto, questo va visto in base ai contenuti e a ciò che il festival produce, non solo in termini economici ma in termini di crescita personale, sociale e di scambio. Tra il 2002 e il 2012 il numero degli spettatori paganti è stato di 45.258. I concerti a pagamento sono quelli che si svolgono sul palcoscenico di Piazza del Popolo, a cui si è aggiunto, a partire dal 2011, un ulteriore spazio-concerto al Centro Laber. La percentuale di concerti a pagamento rappresenta il 25 per cento circa della totalità degli eventi. Tutti gli altri sono per scelta gratuiti.

Dal 2011 l'associazione culturale Time in Jazz ha avuto in gestione dal Comune di Berchidda gli immensi spazi dell'ex-cooperativa La Berchiddese, un caseificio in disuso oggi convertito, proprio grazie al suo lavoro, nel Centro Laber, sede di studi di produzione culturale e per lo spettacolo, che porterà in paese ogni anno centinaia di artisti e di tecnici in residenza, stimolando così anche una nuova economia ricettiva. Per dare avvio a tale progetto il Comune ha usufruito dei fondi strutturali messi a disposizione dall'Unione Europea che saranno investiti nella ristrutturazione e riorganizzazione dello spazio che Time in Jazz utilizza già da qualche anno.

Inoltre, l'associazione Time in Jazz ha acquistato, nel 2010, una vecchia casara dei primi del Novecento, oggi anch'essa in corso di restauro, che diverrà a breve luogo di produzione ed espositivo, di incontro e di riferimento per tutto il Nord Sardegna, sollecitando ancora una volta quel processo di crescita culturale, umana ed economica. Nonostante il nostro festival sia sulla bocca di tutti, non ce la facciamo e qualsiasi taglio finanziario ci mette in seria difficoltà visto che siamo sempre sotto budget e che i finanziamenti pubblici arrivano spesso con anni di ritardo. Time in Jazz è diventato un'azienda e come tale va gestita. Come qualsiasi azienda ci sono delle responsabilità oggettive ed è necessario combattere tutti i giorni armati fino ai denti. Detto ciò, trovo triste che dopo venticinque anni si viva ancora una situazione precaria sotto tutti i punti di vista. Time in Jazz è un grande successo ma anche una sonora sconfitta. Non solo per noi ma per tutti.

Chi ha scritto sa cosa è un festival e cosa comporta? Certo, da Reggio Calabria per andare a Milano ci sono diversi modi. Si può andare in macchina, in treno, in aereo, a cavallo o a piedi. Tutto è possibile ma a piedi ci si mette un mese. È una scelta. Anche noi possiamo fare un festival con quindicimila euro, ma non lo vorrebbe nessuno e non ci verrebbe nessuno, mandando così al macero venticinque anni di sudore e di fatiche. Ognuno fa quello che vuole, ma se il festival di Massa Lombarda costa venti volte meno di quello di Berchidda è un problema loro. Anche il nostro nel 1988 costava nulla, ma le cose crescono e diventano giustamente più grandi. Dimostrino anche loro di potere e di volere diventare grandi senza cercare forzatamente di vedere la trave nell'occhio del prossimo.

I soldi che noi recuperiamo faticosamente non sarebbero comunque investiti né a Massa Lombarda né altrove ma nei territori virtuosi. Essere virtuosi significa impegnare se stessi e non pesare sugli altri né fare pesare le proprie difficoltà sugli altri. Ognuno deve avere ciò che gli spetta, ma trovo sbagliato il pensare di togliere questo agli altri perché ogni rassegna e ogni festival ha la sua storia, il suo percorso e le proprie esigenze. L'errore è sempre nel pensare che gli altri siano meglio o peggio, ed è ancora più grave parlare senza conoscere. Ma questo, nel nostro Paese, è purtroppo uno sport in voga.

"pensa che sia corretta una politica secondo la quale non prendete in considerazione musicisti (fra i giovani) che non abbiano preventivamente partecipato ai corsi estivi?"

Leali: Penso di sì. Se devo investire su un giovane senza un ritorno di immagine ed economico preferisco farlo su giovani che ho avuto la possibilità di formare. Molti dopo due concerti con artisti importanti già pensano di essere star e preferisco vedere crescere un artista piuttosto che avventurarmi su giovani di cui ignoro formazione e capacità su un palco a fianco di grandi artisti.

Vorrei anche precisare che i giovani che riteniamo validi poi continuano a studiare ai nostri seminari per anni e gratuitamente in quanto i corsi li regaliamo a chi merita e ai musicisti che pensiamo possano avere potenzialità che vanno coltivate. E comunque molti giovani che hanno partecipato al nostro festival non hanno studiato con noi, ma certo quando possiamo valorizziamo i giovani cresciuti da noi, come Domenico Sanna, Leonardo Corradi e molti altri.

"perché Veneto Jazz non ha mai sviluppato nella sua direzione artistica una tematica? Ad es. soprattutto per quanto riguarda i concerti satellite sarebbe bello e proficuo per la rassegna stessa sviluppare delle idee che possano attirare l'attenzione del pubblico e stabilire coerenza e continuità tematica all'interno della rassegna valorizzando così gli artisti italiani, locali etc."

Mormile: Ringrazio del suggerimento per alcune cose, ma temo che in parte si sfondi una porta aperta, perché dare una continuità è difficile per tutte le varianti, culturali, di budget, di appoggio, dalle istituzioni. Con il NuFest ad esempio, anche se non tratta di jazz propriamente detto, abbiamo fatto cose molto interessanti, e le stiamo cercando di portare avanti perché suscita la curiosità dell'ente pubblico sui nuovi linguaggi. Non credo quindi di non avere mai tentato di sviluppare le tematiche, se sfogliamo i programmi del passato si capisce, ma lo prendo comunque come utile suggerimento per il futuro.

Foto di Claudio Casanova (Costantini, Fresu), Angelo Bandini (Brazzale) e Roberto Panucci (Leali).

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