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L’errore è aspettare il nuovo Charlie Parker
ByLa fase evolutiva della musica di matrice afroamericana in cui ci troviamo tuttora immersi affonda le sue radici ai tempi della ben nota estate parigina del 1969: si era partiti per celebrare l'apoteosi del free jazz, si torna avendo assistito per più versi al suo party di commiato. Quasi nessuno se ne accorge, in verità. Bisognerà attendere l'epoca in cui presenze allora quasi clandestine (la triade Braxton/Jenkins/Leo Smith e l'Art Ensemble of Chicago) assumeranno ufficialmente il ruolo di battistrada.
Sulla nuova via, a dispetto delle ubbie di nostalgici e falsi puristi, si preconizza da un lato (Art Ensemble) il recupero in chiave epico-narrativa di tutto il patrimonio musicale (e non solo, del resto) neroamericano, con performance che sconfinano nell'happening, in bilico fra citazione parodistica - talora quasi caricaturale - e riesumazione filologica, finezza e clownerie, ricerca e ostentato disimpegno, dall'altro (Braxton & Co.) uno sperimentalismo spinto, per lo più privo delle asprezze del free storico, ma ancor più radicale in quanto a soluzioni strutturali, estetiche e lessicali, una sorta di neocamerismo nero fatto di alternanze suono/silenzio, microvariazioni di timbro e altezza, polivalenza strumentale, estrema attenzione per l'aspetto compositivo. L'accento si sposta dall'improvvisazione comunemente intesa a un concetto di aleatorietà assai prossimo allo sperimentalismo occidentale.
L'epicentro dei nuovi pruriti, dunque, è Chicago. Anche a New York, però, non si sta con le mani in mano. Sulla scia della raggiunta epifania espressiva del suo artista più emblematico, Sam Rivers (peraltro nativo dell'Oklahoma), tutto l'ambiente è in fermento. Si afferma il loft jazz e con esso i vari Julius Hemphill, Oliver Lake, David Murray, Hamiet Bluiett, oltre tutto riuniti dal 1977 nel World Saxophone Quartet, il cui contraltare si coglie col tempo nel bianco e californiano Rova (dalle iniziali dei suoi membri: Raskin Ochs Voigt Ackley): più calato, com'è ovvio, nella tradizione neroamericana il primo, di segno più scopertamente "contemporaneo" il secondo.
Quanto a Rivers, il suo è ancora un discorso essenzialmente di sintesi di esperienze trascorse. Il nuovo a tutti i costi non lo attrae. L'accento cade semmai sul versante espressivo - le strutture, in effetti, sono in lui tutt'altro che rigide - sul colore, su una narratività più compresa, amorevole, meno sarcastica, beffarda e corrosiva, rispetto all'Art Ensemble of Chicago.
Altro leader storico è Steve Lacy, newyorchese giramondo trapiantato a Parigi, la cui consacrazione, come per Rivers, giunge di fatto tardiva. Il sopranista è da sempre su posizioni di assoluta originalità: una caparbia monogamia strumentale mentre tutti si muovono in senso opposto, uno stile riconoscibile dopo due battute, la predilezione per il solo, una fine vena introspettiva, rigore ed essenzialità, sono i suoi ingredienti. La sua è la ricerca minimale, microcellulare per eccellenza, una porta costantemente aperta sull'ascesi, l'isolamento, il silenzio, il nulla.
Che cosa resta, oggi, di tutte queste esperienze? In primo luogo la convinzione che Rivers e quelli del WSQ, prima ancora come singoli che come ensemble, possano ancora sfornare un prodotto anche appetibile ma non più sorprendere; che rispetto al WSQ più attenzione meriti il Rova; che Braxton faccia attendere più del lecito nuove saette; che l'Art Ensemble, ormai riesumato solo per trascinarsi in prevedibili tournée, abbia per anni smorzato lungo itinerari a lui non del tutto congeniali l'unico genio del gruppo, Roscoe Mitchell, poeta del nulla e dell'irrisolto; che l'altro poeta del nulla, Steve Lacy, dopo anni di inflazione discografica, abbia trovato nelle magiche cure del silenzio il trampolino di lancio per riguadagnare, a cinquant'anni, la prima linea; che nessun nome nuovo meritevole di particolare attenzione sia destinato ad affacciarsi in tempi brevi.
Chi leggesse in quest'ultimo rilievo un'implicita condanna dell'odierna scena jazzistica sarebbe fuori strada. Si tratta piuttosto della messa in discussione del concetto secondo cui a ogni angolo sia lecito attendersi un nuovo Parker, un nuovo Coleman, l'uomo in grado di imprimere una svolta, di indicare agli altri la nuova direzione da prendere. Oggi come oggi un'attesa del genere non sembra legittima, realistica. Almeno fino a che non si rimescolino le carte in tavola e non cambi la mano. Tutto, o quasi, si è tentato, lungo gli itinerari del Nouveau di baudelairiana memoria, e sulle attuali coordinate dell'approccio conoscitivo alla materia artistica s'impone una revisione. Non nel segno del manierismo mainstream, ovviamente, quanto della rilettura, della sintesi, dell'apertura a contributi interdisciplinari.
Se da più parti si giudica l'arte agonizzante, vorrà dire che le sopravviveranno gli artisti. Ed è tutto fuorché un gioco di parole.
Foto di Alberto Bazzurro (Mitchell), Guy Le Querrec (Lacy) e Michael Wilderman (Braxton).
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