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La storia dell'armonia afro-americana: un profilo incompleto
Esiste un linguaggio armonico specifico della musica afroamericana? È possibile rintracciare tratti sufficientemente sistematici tali da riconoscerne una qualità distintiva, autonoma, originale? Ed esistono apporti originali, dal punto di vista armonico, della civiltà musicale afroamericana al più generale linguaggio della musica? Generalmente gli studi di armonia afroamericana si sono limitati al solo jazz, ma noi qui intendiamo il termine "afroamericano" nel senso più ampio possibile, riferibile a quella musica che reca tracce più o meno consistenti di cultura nera, e che è nata e si è sviluppata principalmente nel continente americano, per poi diffondersi in momenti diversi e con diversa incidenza e densità in altre regioni del mondo.
Identificare i tratti distintivi della armonia afroamericana e tracciarne lo sviluppo significa quindi condurre una ricerca che ha per orizzonte i continenti africano, europeo e americano e che abbraccia ormai cinque secoli di storia. Una operazione simile, diciamolo subito, non è mai stata né compiuta né minimamente intrapresa e naturalmente non verrà avviata in queste pagine, dalle quali vogliamo invece proporre una traccia su cui, a nostro avviso, dovrà muoversi la ricerca futura.
Un primo passo da compiere è quello di provare a delineare una storia dell'armonia della musica afroamericana, di cui attualmente sappiamo pochissimo. Sebbene i primi documenti a stampa risalgano alla prima metà del XVII secolo, fin dal XVI secolo la musica nata dall'incontro tra colonizzatori europei, segnatamente spagnoli e portoghesi, gli aborigeni amerindi e gli schiavi africani, giunti nelle prime colonie del Nuovo Mondo già nei primi decenni del Cinquecento, ha provocato una prima forma di sincretismo, di cui tuttavia non abbiamo tracce di prima mano. Tuttavia la cultura musicale spagnola era già intrisa di caratteri nordafricani, che avevano esercitato anche una qualche influenza sulla musica dell'Africa subsahariana.
All'inizio del XVII secolo, in Europa si assiste al declino della vecchia tradizione polifonica e al sorgere graduale di una nuova concezione verticale dell'aggregazione di suoni, che sarà poi definita "armonica". La nascita dell'armonia e la nascita della musica afroamericana sono quindi quasi contemporanee. Ma c'è di più: recenti ricerche hanno permesso di dimostrare che una moderna concezione dell'accordo, che si fa tradizionalmente risalire al primo Settecento di Rameau, era già presente nella chitarriglia, musica spagnola popolare per chitarra, alla fine del Cinquecento: nel trattato Guitarra espanola de cinco ordenes di Joan Carles y Amat, pubblicato nel 1596, appare la prima rappresentazione grafica del circolo delle quinte, che implica anche il concetto di rivolto della triade. La scoperta, dal nostro punto di vista, è di grande importanza, perché gran parte del repertorio cui si riferisce Amat è composto di ciaccone e passacaglie. Queste danze, non c'è alcun dubbio, sono di origine americana, e nella componente ritmica "ostinata" recano chiare tracce di una matrice africana. Marcello Piras ha ipotizzato la discendenza dell'uso di triadi parallele nella ciaccona dalla musica per halam del Gambia
(di cui la chitarriglia condivide anche la tecnica esecutiva), e quindi una possibile radice africana dell'armonia tout court. C'è anche da capire quanto la musica amerindia possa aver influenzato quella dei colonizzatori. Fatto sta che non solo la musica afroamericana e l'armonia nascono insieme, ma addirittura la seconda potrebbe essere un prodotto della prima.(Nota 1)
In questo stesso crocevia sorge anche il concetto di giro armonico, ovvero di successione di accordi che si ripete circolarmente, su cui vengono intessute delle variazioni improvvisate o scritte, che possiamo quindi considerare un tratto distintivo afroamericano. Fatto singolare, tale tecnica si diffuse nella musica colta e popolare del Vecchio Continente ma, a quel che si sa, non è altrettanto documentata nella prima musica americana. Probabilmente assai diffuso nella musica di tradizione orale, tornerà ad essere pienamente visibile in area afroamericana tre secoli dopo grazie alla canzone e al jazz.
Dunque l'uso dell'accordo di per sé, il circolo delle quinte, l'iteratività e il basso ostinato, il giro armonico su cui si improvvisa sono tutti tratti di chiara origine afroamericana, destinati ad un grandioso e impensabile sviluppo, che legherà idealmente la musica africana a Girolamo Frescobaldi e John Coltrane.
La musica africana non conosce propriamente armonia. La tradizione araba è essenzialmente monodica; nelle complesse forme polifoniche della regione subsahariana (quelle prodotte dai pigmei, ad esempio) le coincidenze verticali, tutte dentro le possibilità della scala pentatonica, non sono meno casuali di quelle del contrappunto dell'ars antiqua. Quando le voci non sono indipendenti, prevale il parallelismo: parallelismi di terza e sesta, o quarta, quinta, ottava, in cui le voci, come in un organum africano, sono rigidamente accoppiate. Questa prevalenza del parallelismo si è sicuramente conservata nel Nuovo Mondo, visto che la troviamo intatta quattro secoli dopo nelle musiche rituali nere haitiane, cubane e brasiliane.
Ma gran parte dei documenti scritti tra XVII e XVIII secolo nelle Americhe non comprende affatto le musiche tradizionali nere, se non in misura minima, bensì consiste di musiche sacre e profane di chiara matrice europea, per giunta stilisticamente in ritardo rispetto agli sviluppi del Vecchio Mondo. Basti dire che la polifonia, agonizzante o del tutto sparita in Europa, è ancora ben viva nelle Americhe nei villancicos degli spagnoli Juan De Araujo o Tomás de Torrejón y Velasco.
Verso la fine del Settecento, dunque ancora con ritardo, la musica delle colonie si allineò al gusto della monodia accompagnata e al teatro d'opera di gusto napoletano. Non è il caso di ripercorrere passo passo la storia della musica colta nel continente americano. Basti dire che, seppure non esistano ancora studi specifici in proposito, una certa conoscenza del repertorio induce a credere che, a livello armonico, non vi sia alcun elemento realmente significativo che distingua la produzione americana da quella europea. I segni della influenza africana sono invece visibili, fin dalle origini, a livello ritmico: nei negritos e nei guineos la condotta delle parti è quella polifonica europea, ma l'andamento ritmico è ricco di inflessioni africane.(Nota 2)
Elementi peculiarmente afroamericani di condotta delle parti sono piuttosto rari anche nelle grandi tradizioni nazionalistiche del XIX secolo, sorte in Brasile, a Cuba e negli Stati Uniti (si pensi a Gottschalk e alla tradizione dei compositori neri culminata in Scott Joplin). Emergono invece altri tratti ugualmente importanti: ad esempio in molti pezzi di Louis Moreau Gottschalk la sonorità dell'accordo è subordinata al suo impatto sonoro. In questo il compositore di New Orleans traduce la lezione di Liszt in termini afroamericani: infatti nella sua opera l'armonia non solo si scioglie nella ricerca timbrica sul pianoforte, ma si trasforma in un mezzo per restituire percussività allo strumento. Culmine di questa linea, che passa attraverso Jungle Drums di James P. Johnson, saranno le improvvisazioni di Cecil Taylor, in cui triadi maggiori e minori, parallelismi di quarta, quinta e ottava e naturalmente i clusters sono esaltati in funzione puramente timbrico-percussiva.
L'altro tratto caratterizzante è quello della sensualità sonora. La musica per pianoforte di molti compositori da salotto dell'Ottocento, come il cubano Ignacio Cervantes o il brasiliano Ernesto Nazareth, si muove su un terreno armonico assolutamente convenzionale, ma riluce di una accurata sonorità accordale, in cui l'uso coloristico e parsimonioso delle settime, l'inflessione malinconica delle progressioni discendenti e delle modulazioni in minore riscattano la semplicità della sintassi. Già Debussy stava mostrando come gli accordi potevano divenire pure macchie di colore, sganciate da regole sintattiche tradizionali. Ma i compositori del Nuovo Mondo, ben lontani per sensibilità e cultura dai maestri francesi (anche se molti di loro studiarono a Parigi), si muovevano piuttosto in una dimensione affine a quella di Chopin o Brahms, sebbene con un respiro più schiettamente domestico. La loro lezione si staccherà da quella europea per la personale cura nella compattezza accordale, per l'assaporare i riflessi e le venature degli intervalli armonici, per la latente tendenza al parallelismo: una sensibilità di matrice chitarristica che si consoliderà nelle successive trasformazioni della musica popolare americana, soprattutto in Brasile (si pensi alla sensualità di successioni e sonorità armoniche delle canzoni di Antonio Carlos Jobim).
Per il continente americano gli anni Venti del nostro secolo segnano l'affermazione piena degli stili nazionali (si pensi a Aaron Copland o a Heitor Villa-Lobos) e l'emergere prepotente del jazz. Sul piano dell'armonia si assiste a un fenomeno curioso. I compositori delle scuole nazionali si liberano del linguaggio armonico tradizionale e recuperano alcuni elementi più caratteristicamente afroamericani, come i parallelismi, certe dissonanze, scale pentatoniche ecc., ma lo fanno sull'onda delle innovazioni provenienti dall'Europa.
In altre parole, sembra che la lezione di Stravinskij, in particolare, liberi la fantasia dei compositori colti e permetta loro di accogliere finalmente quegli elementi armonici "neri" finora rimasti ai margini.
Contemporaneamente, negli Stati Uniti si allarga a macchia d'olio quello che è forse l'unico sistema armonico peculiarmente afroamericano: il blues. Basato su una scala inesistente in altre culture, articolato in una successione accordale in perfetta simbiosi tra modalità e tonalità, ordinato dal testo in un ritornello dalla misura inconsueta (12 misure), il blues è un prodotto di sintesi tra la cultura nera e quella euroamericana. Qualunque sia l'origine della scala,(Nota 3) grazie ad essa i bluesmen e i jazzisti neri crearono un mezzo di espressione del tutto originale, che i compositori colti potranno liberamente ibridare con il linguaggio del neoclassicismo europeo (si pensi a Aaron Copland o Maurice Ravel).\
Il dato più eccezionale del blues è che esso, per la sua natura sincretistica, non è incompatibile con il sistema tonale: la terza blue non annulla la terza maggiore ma coesiste con essa; inoltre la settima di dominante, esistente anche nel sistema tonale, perde la funzione sintattica tradizionale di risoluzione per divenire accordo autonomo (I o IV grado anziché esclusivamente V).
Questi tratti verranno pienamente assorbiti dalla tonalità contemporanea, per divenirne parte integrante, ora come un tratto stilistico afroamericano, ora come semplice elemento di colore: non c'è oggi in Occidente musica contemporanea, leggera o colta, che non rechi tracce di blues.
L'altro ingrediente armonico che ha pervaso la musica americana degli anni Venti sono stati il debussysmo e la musica russa tardoromantica (si pensi a figure distanti tra loro come Rachmaninov e Skrjabin), portata anche dai numerosi musicisti immigrati. Alcune innovazioni di Debussy - uso del parallelismo, ricerca timbrica dell'accordo, convivenza della terza maggiore e minore - risultarono singolarmente sovrapponibili al mondo armonico afroamericano.
Ci volle poco perché compositori di ampie vedute ne cogliessero le singolari coincidenze; in George Gershwin troviamo la sintesi e contemporaneamente la riconversione di tutta l'eredità armonica afroamericana fino agli anni Venti: l'uso di accordi alterati e la libertà di condotta delle parti di origine debussyana, la sensualità sonora afroamericana, la scala, le inflessioni e la sintassi del blues, la risonanza armonico-pianistica della scuola russa. Così mentre il blues si andava radicando nel tessuto musicale nero-americano, Gershwin, e in misura più limitata Aaron Copland, lo infiltravano nella canzone leggera, nel musical, nella musica da concerto e da qui in tutta la cultura musicale americana e in quella europea derivata da essa.
La rilevanza di questo fenomeno resta ancora tutta da studiare, così come lo è il suo incrocio con il jazz. Il quale, indubbiamente, rappresenta la novità armonica più macroscopicamente rilevante della civiltà musicale afroamericana contemporanea. Eppure il jazz degli anni Venti non presenta ancora quei tratti originali che gli attribuiremo in seguito. Con la rimarchevole eccezione del blues, il jazz degli anni Venti, solistico e orchestrale, non mostra affatto la raffinata complessità dei classici leggeri dell'epoca, ad eccezione di un Bix Beiderbecke o di un Don Redman, più vicini per sensibilità al mondo del debussysmo, oltre naturalmente al caso unico di Duke Ellington.
È a partire dagli anni Trenta che l'armonia jazz prende a sviluppare quei tratti che riconosceremo come caratteristici: armonie complesse e alterate, sostituzione degli accordi, cromatismo sistematico, condotta delle parti mista (regole tonali e parallelismo), ricerca del "colore" dell'accordo ecc. Non è ancora ben chiaro a cosa sia legata questa trasformazione: un'ipotesi possibile, anche se non esclusiva, è che il mutamento di repertorio avvenuto a cavallo tra anni Venti e Trenta, con la massiccia acquisizione delle sofisticate canzoni di Broadway, abbia permesso nel jazz nero l'assimilazione di un mondo armonico fino a quel momento rimastogli estraneo; in altre parole, il jazz fece proprio il mondo armonico gershwiniano, da cui giungerà a sviluppare un linguaggio del tutto autonomo.
Esso consiste in un allargamento dell'armonia tonale con elementi debussyani, sorta di "debussysmo funzionale" con in più le novità scalari e funzionali introdotte dal blues, e fa proprio il concetto di giro armonico che intanto la canzone tradizionale americana aveva già ampiamente utilizzato. La sintassi è spesso subordinata alla ricerca timbrica, che la altera in modo peculiare (si pensi ancora a Ellington). Questo linguaggio, che troverà ulteriore ibridazione con la musica leggera americana, prese a svilupparsi secondo la propria logica interna, risentendo solo in minima parte di influssi esterni;(Nota 4) e di qui, sull'onda dell'espansione del jazz, giunse a influenzare le musiche di mezzo mondo. Quando il jazz, alla fine degli anni Cinquanta, si concentrò sulle scale modali, adottò un metodo totalmente differente da quello tornato in voga con la musica europea agli inizi del secolo e pure fatto proprio da certi compositori di estrazione afroamericana: il modalismo jazz, che pure subì influenze orientali, ebbe un impatto enorme sul rock e sulle musiche derivate, imponendo un concetto di modalità del tutto nuovo.
La prassi modale e il "tonalismo jazz" sono poi confluiti in una koiné jazzistica che è oggi parte integrante di qualsiasi musica occidentale, dal rock alla canzone, al teatro musicale a certa musica eurocolta: essa ha preso il posto, nella musica del Novecento, di quel sistema tonale tradizionale dato per morto (un po' troppo frettolosamente) tra le due guerre. Ora domina la scena musicale, rimane esclusa dai luoghi accademici dell'insegnamento, e solleva tante domande quanti sono gli stimoli creativi che ancora suscita nei musicisti contemporanei.
NOTE
1) Cfr. Massimo Preitano, "Gli albori della concezione tonale: aria, ritornello strumentale e chitarra spagnola nel primo Seicento," Rivista Italiana di Musicologia, XXIX, 1, 1994, pagg. 27-88. Per un sunto del saggio e l'ipotesi della discendenza africana cfr. la segnalazione di Marcelle Piras nella rubrica "Ritagli" de II Sismografo, III, 11, ottobre 1994, pag. 39.
2) Cfr. i tre negritos pubblicati a stampa nella Antologia de la musica colonial en America del Sur, a cura di Samuel Claro, Ediciones de la Universidad de Chile, Santiago de Chile, 1974.
3) Esistono diverse teorie sull'origine della scala blues, nessuna totalmente convincente. La più accreditata è oggi quella proposta da Gunther Schuller in Early Jazz, Oxford University Press, New York, 1968 (tr. it. Il jazz classico, Mondadori, Milano, 1979). Cfr. anche la voce "Blue note" in Dizionario Universale della Musica e dei Musicisti, UTET, Torino, 1983.
4) È ancora da chiarire, ad esempio, se l'utilizzo della scala ottatonica (o diminuita) e delle varie sostituzioni di tritono sia il risultato di una naturale evoluzione del linguaggio (come appare probabile) o derivi da una sotterranea influenza stravinskiana esercitata sui boppers.
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