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La musica tradizionale sarda: un ponte tra passato e futuro

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Il testo di Paolo Fresu qui ripubblicato costituisce la prefazione al libro "Cuncordu e Tenore di Orosei - Il canto: mare e terra" di Luca Devito, Stampa Alternativa, Viterbo, 2008. Viene riproposto per gentile concessione dell'autore

La musica tradizionale sarda: un ponte tra passato e futuro.

Si parla sempre troppo poco di musica tradizionale. Nonostante questa sia sempre presente nei Melting Pot delle musiche del mondo, l'impressione è che ci sia un tentativo di volerne dimenticare le vere origini, volgendo ad essa le spalle e proiettandola con pochi scrupoli nella globalità delle autostrade produttive dei mercati musicali. Ed è qui che si genera l'equivoco tra memoria e contemporaneo. Tendiamo tuttora a pensare che la musica tradizionale, qualsiasi questa sia e da qualsiasi geografia provenga, faccia parte di un passato mnemonico da musealizzare e da salvaguardare non rendendoci conto che, di fatto, questa è l'unica musica realmente "contemporanea". Questo termine, nella sua etimologia di origine latina, è mutuato da "Cum" e "Tèmpus" o "Tèmpora" e dunque significa: "Che è o vive nel medesimo tempo". Se ciò è vero, non possiamo dunque non collocare il senso dei suoni nella contemporaneità di sempre. Quella del passato, del presente e del futuro.

Da questo punto di vista l'esempio della Sardegna è emblematico. Per la sua posizione geografica e per la sua storia l'Isola è sempre stata luogo di scambi e di negozi, di saperi e di soprusi. Dai tempi dei traffici dell'ossidiana e degli ori di Tharros, l'Isola, posta strategicamente nel cuore del Mare Nostrum, è stata un importante testimone di contemporaneità ed è stata capace di cogliere al meglio - e successivamente di metabolizzare - i pensieri e le correnti di tutte le civiltà che in quel mare vi si affacciavano. Intendiamoci, civiltà che spesso l'hanno violata accerchiandola dalle coste e successivamente invadendone le terre, ma senza per questo riuscire a modificarne ed indebolirne il forte senso societario e collettivo. Senso di un popolo vero che il linguaggio della musica ha da sempre rappresentato, raccontandone gli aspetti più intimi. Meglio ancora il linguaggio delle "musiche," visto che in Sardegna queste non solo sono antiche come il mondo ma sono un esempio di continentalità varia, ricca e dinamica. La funzione dei suoni in questo "passato/presente transitorio" appare chiara, specie alla lettura dei testi antichi, e dimostra quanto i suoni del rito e della festa siano profondamente legati a quelli della lingua e di quel sardo mutuato dal latino che nasce con la Carta de Logu di Eleonora d'Arborea nel XIV secolo.

Dunque potremo provare ad azzardare una nuova teoria sulla contemporaneità musicale, ammettendo a noi stessi che essere contemporanei, se da una parte significa riconoscersi in un momento storico o sociale, dall'altra significa definirsi solo per quello che si è. È contemporanea la lingua ed è contemporanea la musica che ne rappresenta il "suono ancestrale" filtrato attraverso la storia. È in questo senso che forse bisognerebbe leggere il tentativo di volgere le spalle alla tradizione - e non solo quella musicale - e del volere darla in pasto ai crocevia e agli snodi planetari. La storia moderna, a partire dagli anni Settanta in poi, ha completamente modificato il senso fruitivo della musica tradizionale. Se questa era a suo tempo contemporanea, in quanto viveva nelle feste e nelle sagre, tra le strade, le aie e i borghi del mondo, oggi sembra essere contemporanea solo quando la si affianca ad altri linguaggi musicali e soprattutto quando la si consuma nei luoghi classicamente deputati alla fruizione dello spettacolo. In altre parole se il Maestro delle launeddas Dionigi Burranca suonava per accompagnare in processione le statue dei santi o il ballo tradizionale, oggi l'altro Maestro Luigi Lai si esibisce in solitudine sui palchi dei grandi teatri e mette il suo strumento, fabbricato da lui stesso, al servizio di Angelo Branduardi, di Sonos 'e memoria o addirittura delle sperimentazioni di musica elettronica. Quale dunque è la vera musica contemporanea? Quella di Dionigi Burranca, artigiano della musica del suo tempo, oppure quella di quell'altro artigiano che è Luigi Lai e che vive il tempo musicale di oggi?

E' in questa riflessione che si innesta il complesso dilemma dell'attualità di tale forma d'arte e del suo presente e futuro. Non senza che questo investa la realtà insulare che, assieme a poche altre realtà continentali, rappresenta oggi un caso unico e originale per qualità di produzione e per ricchezza progettuale e creativa. Forte della sua posizione nevralgica in seno al Mediterraneo, la Sardegna è gravida di più espressioni musicali che ne rappresentano bene la varietà sonora, linguistica, strumentale e repertoriale. Se le launeddas sembrano essere lo strumento polifonico più antico del Mediterraneo, una serie di altri come la chitarra, l'organetto e la fisarmonica sono entrati a far parte del repertorio strumentale in tempi diversi a partire dal XVI secolo, provenendo da varie parti dell'Italia, dalla Spagna e trovando nell'Isola territorio fertile. E se la tradizione delle launeddas è presente principalmente nel sud dell'Isola, è al nord che ancora oggi si possono udire sui palchi delle piazze le voci cristalline dei cantanti nelle gare (in logudorese o in gallurese), accompagnati dalla fisarmonica e dalla chitarra, mentre nel centro dell'Isola l'organetto sostiene ancora le danze collettive ed in particolare il liberatorio "ballu tundhu". Pochi sono gli altri strumenti utilizzati e, fatto salvo per qualche zufolo e flauto come "su sulittu" o "sa bena" o qualche percussione come "su tamburino" di Gavoi, lo strumentario della tradizione sarda è alquanto ridotto e riconoscibile.

Altri "congegni fonici," come li definisce Don Dore nella sua pubblicazione sugli strumenti tradizionali della Sardegna, sono trastulli per l'infanzia o oggetti funzionali alla vita agropastorale che poco si prestano ad essere considerati strumenti veri e propri. Ma tutti hanno avuto da sempre la funzione di sottolineare gli importanti momenti della società rurale prima, e di quella urbana dopo, svolgendo un importante ruolo che dà dignità ai suoni autoctoni e a quelli meticciati provenienti da altre culture. Il ruolo dello strumento polifonico più antico è emblematico. In grado di accompagnare le processioni religiose e i balli tradizionali svolge tuttora, grazie ad una tradizione tramandata oralmente, un'importante funzione di raccordo tra la cultura sacra e quella profana, incarnando l'essenza della nostra vita societaria. Attraverso l'uso della tecnica della respirazione continua, il musicista ha la possibilità di muoversi agilmente nei territori più disparati e l'uso delle "nodas" lo rende ricco sotto il profilo ritmico e delle microvariazioni tematiche. La modalità del fraseggio, tipica delle nostre musiche, è vicina a quelle del Novecento e soprattutto al linguaggio afroamericano. Non è casuale quindi che negli ultimi venti anni si sia sempre di più sperimentato nella direzione del connubio tra questi mondi e che artisti americani come Ornette Coleman, Dave Liebman e Ralph Towner si siano cimentati nell'utilizzo delle launeddas, piegandole ai significati di una musica jazz che chiamiamo contemporanea nell'accezione attuale del termine. È dalla fine degli anni Cinquanta, del resto, che ci si pone il problema dell'apertura e del futuro della musica tradizionale e l'argomento è stato oggetto di riflessione sia negli ambienti musicologici che in quelli prettamente spettacolari, lasciando spesso fuori da queste disquisizioni gli stessi artisti che della contemporaneità sono il veicolo, in quanto vivono nel loro tempo e dunque ne sono i protagonisti e i testimoni.

In Sardegna, il prezioso lavoro fatto dai vari Andreas Fridolin Weis Bentzon sulle launeddas, o successivamente da Alan Lomax, Diego Carpitella e dal sassarese Pietro Sassu, proseguiva nel metodo comparativo teorizzato negli anni Cinquanta da Jaap Kunst con l'obiettivo di calarsi completamente nella cultura musicale dell'Isola e nella sua lingua, così da interiorizzarne gli aspetti comportamentali e sociali prima che musicologici. L'artista rimaneva ai margini del processo di studio e di ricerca, quasi alla stregua di un animale della giungla da dover scrutare da lontano e con parsimonia per non costringerlo a modificare i suoi comportamenti. Se da una parte questo era rispettoso ed eticamente coerente, dall'altra toglieva al musicista la possibilità di interrogarsi non solo più sulla propria musica, ma sul rapporto tra questa e le altre.

È negli anni Settanta che artisti provenienti dalle aree del jazz, del rock e del pop hanno sentito la necessità di guardare altrove e principalmente alle musiche del mondo, individuando in alcune di queste materiali preziosi da innestare nella propria produzione creativa. Ciò è successo anche in Sardegna senza però, a mio avviso, che ci fosse un reale coinvolgimento dei musicisti popolari che spesso rimanevano passivamente ai margini delle discussioni in atto, quando queste si concludevano in un bieco utilizzo dei suoni visti come ingrediente di un piatto dal sapore esotico. Le ragioni credo siano da addebitare al ruolo che la musica etnica aveva ancora in quegli anni e che oggi si sta perdendo. Seppure il Novecento fosse un secolo in transizione, la cultura dell'Isola e la sua società continuavano ad aggrapparsi ad un tempo più lento, forti di quella insularità che faceva della Sardegna un territorio apparentemente vergine ed inespugnabile. La musica tradizionale la si produceva e la si consumava nelle strade, nelle piazze e nelle chiese e la si tramandava oralmente nelle botteghe artigiane e nelle sagrestie. L'artista dunque si sentiva parte di quella contemporaneità della quale si è parlato, in quanto depositario del linguaggio e dunque unico testimone.

A partire dagli anni Ottanta, lo tsunami del progresso ha messo in crisi anche quelle comunità storicamente forti e coese, mettendo a repentaglio, complice la televisione e successivamente Internet, i tradizionali meccanismi produttivi e fruitivi. L'artista si è dunque trovato nella difficoltà di riconoscersi in quella contemporaneità quotidiana a lui vicina e si è dovuto interrogare sul senso della propria musica e soprattutto sul futuro della stessa. Scuole più organizzate di launeddas hanno sconvolto quell'assetto millenario del Maestro "uno" laddove i maestri sono diventati tanti, mentre la cultura di massa è divenuta l'antitesi dell'espressione popolare, intesa come cultura di popolo. La musica ha dovuto fare i conti con la terribile prospettiva dell'implosione in se stessa, o piuttosto del riuscire a declinarsi in mille sfaccettature policromatiche e sempre più spesso gli artisti tradizionali si sono fatti loro stessi portavoce dell'esigenza di confrontarsi con gli altri linguaggi musicali. A volte con risultati incerti ed altre estremamente interessanti e addirittura convincenti al punto da generare un nuovo mercato che si è chiamato impropriamente World Music.

In questo scenario c'è tutto il territorio delle musiche vocali e polivocali che per molto tempo hanno guardato pigramente il contraddittorio evolversi delle scene musicali isolane e che oggi ne rappresentano forse la sintesi storica, estetica e filologica. Se la polifonica gutturalità dei Tenores si perde nella notte dei tempi assieme alla monofonia dei "sos attitos" o dei "gosos," è la recente storia della musica vocale sacra che ne racconta meglio di tutte il percorso odierno, facendo proprie molte delle istanze sul senso attuale della nuova contemporaneità. Nata nel 1700, quando i padri Benedettini toscani si installarono a Sassari, la vocalità delle Confraternite vive oggi in alcuni centri dell'Isola distribuiti principalmente nelle città e nei paesi vicini al mare come Castelsardo, Santulussurgiu, Bosa, Cuglieri, Orosei ed è in quest'ultima città della Baronia che ha vita una delle realtà più attive che da tempo si sta interrogando sui temi trattati finora. Volendo ripercorrere la storia della nostra musica, diremo che è proprio quella vocale, assieme alle launeddas, ad avere assistito all'evolversi della storia degli ultimi millenni. Il canto infatti è sempre stato presente nella cultura indigena come primo segno sonoro e i vari gruppi "a Tenores," sparsi principalmente nei paesi e nelle città della Sardegna centrale, ne sono il principale testimone. Anche in questo caso si potrebbe parlare di contemporaneità interpretativa. Il canto nasce nei tzilleris, i bar di paese, tra una ridotta di vino ed una abbardente ed al di là del semplice intreccio de "sa mesa oghe" (mesuvoche), "sa contra" (cronta) e "su bassu" è "sa boghe" (boche o voche) che si lancia nel melisma fungendo da corone r capace di raccontare l'attualità attraverso i versi dei nostri grandi poeti. È una sorta di blues insulare quello dei gruppi a Tenores, in quanto le variazioni stilistiche, diverse da paese a paese, non modificano sostanzialmente il rapporto tra le voci: il ruolo che queste hanno resta intatto da gruppo a gruppo, ma in ogni centro cambiano le storie e le fonti che ne alimentano il componimento letterario che mai è totalmente improvvisato.

È la voce, nella cultura sarda, il vero elemento di raccordo tra il suono della parola e il significato della stessa. Il fatto che oggi si siano mantenuti intatti i linguaggi dei gruppi a Tenores significa che non è sostanzialmente cambiato il senso raccontato delle storie e che queste persistono nonostante lo tsunami del progresso. Diverso è invece per la tradizione dei Cuncordu con la polifonia sacra del repertorio natalizio e pasquale. Perché ad esempio nei quindici brani del gruppo Su Cuncordu 'e su Rosariu di Santu Lussurgiu è racchiusa la storia non solo di quella Confraternita ma di tutta quella comunità. Se i Tenores potrebbero teoricamente modificare i contenuti comunicativi, mantenendo intatto l'intreccio delle voci, questo non sarebbe possibile con le Confraternite che devono necessariamente rispondere a degli stilemi dettati dalla liturgia cristiana.

Il problema dunque della continuità stilistica e della crescita repertoriale è serio e pone questioni e domande forse più complesse rispetto a quelle relative alla contemporaneità della musica tradizionale oggi. Più volte, in questi ultimi anni, si sono fatte sperimentazioni utilizzandone il suono, ma di rado si è sviluppato un concetto armonico e melodico rispetto ad una musica che sembra essere semplice ma che, di fatto, è altresì complessa e costruita attraverso una rigida struttura dettata dal tempo. Le sperimentazioni con il jazz hanno dato di sicuro risultati interessanti come lo hanno dato i trattamenti elettronici della musica di ricerca contemporanea - anche se a noi questo termine pare poco appropriato - ma certamente questi non hanno risolto il problema del rinnovamento di un repertorio che è funzionale a quei momenti religiosi nonostante questi gruppi, sempre più spesso, si esibiscano in contesti altri. Da questo punto di vista bisogna ammettere che il lavoro del gruppo "Tenores e Cuncordu" di Orosei si è da sempre distinto non solo per la sua apertura verso l'altro, ma soprattutto per la sua necessità di indagine nell'altro, evitando di fossilizzarsi in un mondo chiuso tra le sagrestie e le piazze. Ed è proprio la parte del loro lavoro dedicata al rapporto con le altre musiche - nello specifico i progetti registrato per la Winter & Winter con Ernest Reijseger e nell'ultimo film di Herzog - a dare i risultati maggiori ed a scardinare quell'atavico attaccamento alla pura tradizione che rischia di implodere in un déja vu già sentito.

La disquisizione sulla contemporaneità della musica tradizionale in Sardegna e sul suo futuro nel rispetto del presente e del passato necessita il coraggio delle scelte e un assoluto rigore funzionale. Di certo, in questo contesto, il gruppo di Orosei è quello che ha percepito al meglio questa necessità tesa tra passato, presente e futuro nel rispetto di quella contemporaneità che, come abbiamo scritto, è di chi vive concretamente il proprio presente. Presente che l'esaustiva opera di Luca Devito fotografa in modo lucido e puntuale andando a sfogliare i capitoli più intimi della loro storia musicale, artistica e anche umana. Analizzando a fondo la loro musica e scrivendone delle ambizioni di oggi, non fa altro che contribuire a dare risposte alle innumerevoli domande che la cultura tradizionale sarda si pone e a rafforzarne e incoraggiarne un cammino che dovrà necessariamente essere ogni giorno più contemporaneo in un ponte ideale tra passato appena trascorso e un futuro imminente.

Foto di Roberto Cifarelli e Riccardo Crimi (Fresu)

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