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La forza di un sogno: la storia della About Time Records
Tra le tante etichette indipendenti che coraggiosamente hanno testimoniato - impresa forse impossibile e donchisciottesca sia per le avversità economiche e distributive che per l'inafferrabile vitalità di quegli anni - gli scenari più avventurosi del jazz creativo newyorkese della fine degli anni Settanta, la About Time riveste un ruolo del tutto peculiare.
Dieci dischi pubblicati nell'arco di vent'anni, la maggior parte dei quali nei primissimi anni Ottanta.
Un catalogo - è distribuito ora in Italia dalla Jazz Today Distribution - conosciuto principalmente per la presenza di tre "gemme" assolute come i lavori di Henry Threadgill, ma nel quale convivono Ahmed Abdullah e il Willem Breuker Kollektief, Ronald Shannon Jackson e Fred Hopkins, Joe Morris e il troppo sottovalutato Jerome Cooper.
Un'etichetta dalla quale traspare tutto l'amore e la passione che i tre "artefici" vi hanno profuso.
Dieci dischi tutti da scoprire o ri-scoprire.
Noi lo abbiamo fatto andando a sentire direttamente la testimonianza di chi in quel sogno forse un po' pazzo ha creduto con tenacia e a cui dobbiamo alcuni dei lavori più belli di quel periodo.
Alan Ringel e Larry Shengold hanno ripercorso con noi questa avventura.
All About Jazz Italia: Quando e in che circostanze è nata la About Time?
Alan Ringel: La About Time è nata da alcuni contatti che avevo a New York alla metà degli anni Settanta, in particolare con quelli che sono stati i miei coproduttori, Larry Shengold e Ed Fishman. All'epoca ero un osservatore e ascoltatore attento della scena downtown newyorkese e seguivo tanti concerti in locali come l'Ali's Alley, The Kitchen, il Tin Palace, l'Axis, il Five Spot, lo Studio Rivbea etc.
L'etichetta è nata quando ho contattato Ahmed Abdullah, la cui band mi era capitato di ascoltare in qualche occasione. Ci eravamo messi d'accordo per registrare il gruppo in un concerto programmato alla New York University, ma non è stato possibile e abbiamo dovuto ripiegare su una registrazione in studio. Dico ripiegare, non perché sia venuta male, tutt'altro, ma perché poi ho potuto assistere al concerto ed è stato spettacolare, forse il migliore che abbia mai sentito da loro. La pubblicazione di Life's Force costituisce così il punto di partenza per la About Time.
L.S.: : Sì, era un periodo davvero esaltante per il jazz a New York! C'erano infatti un sacco di musicisti che erano da poco arrivati nella Grande Mela da tutte le parti degli Stati Uniti, Philadelphia, Chicago, St. Louis, Texas, California e a New York hanno trovato molte opportunità di esibirsi, ma non così tante per incidere.
Noi tre fondatori della About Time eravamo degli appassionati, ma nessuno di noi era professionalmente attivo nel business musicale. Abbiamo considerato sempre un vantaggio questo, dal momento che eravamo nemmeno trentenni e molto caparbi nella nostra idea di fare qualcosa di nuovo.
Ahmed Abdullah aveva suonato per diverso tempo nell'Arkestra di Sun Ra e essendo un ottimo solista, si stava facendo un nome anche con progetti a proprio nome.
Suonava frequentemente all'Ali's Alley, il loft del batterista di Coltrane, Rashied Ali. La strumentazione insolita del suo gruppo (Vincent Chancey al corno francese, Muneer Abdul Fatah al violoncello, Jay Hoggard al vibrafono) e la presenza di due musicisti che hanno lasciato poche testimonianze registrate come il batterista Rashied Sinan e il bassista Jerome Hunter hanno fatto sì che questo fosse il gruppo giusto al momento giusto!
AAJ: Quali erano le etichette che hanno costituito per voi una forza di ispirazione?
A.R.: Francamente non saprei dire dove abbiamo trovato la forza per fondare un'etichetta, ma personalmente sono stato molto ispirato dal lavoro di Manfred Eicher della ECM, i cui dischi avevo comprato in un appartamento dell'Upper West Side quando ero all'università. Penso si trattasse della sede originaria della Jazz Composer's Orchestra Association a New York, gestita da Michael Mantler e Carla Bley. Era la fine degli anni Settanta e etichette come Black Saint, Soul Note, India Navigation, Nessa, Gramavision e molte altre indipendenti specializzate in jazz e improvvisata erano particolarmente attive. Così ci siamo detti che avremmo potuto fare lo stesso.
L.S.: Tra le etichette del tempo penso che quelle che più sono state di esempio per noi erano la Delmark e, come ha detto Alan, la India Navigation e l'italiana Black Saint.
AAJ: E il nome About Time, come è saltato fuori? Mi sembra abbia una molteplicità di significati!
A.R.: Per trovare il nome all'etichetta ci abbiamo pensato un po' su e quello che ho proposto è stato subito accettato dagli altri, dopo che molte altre idee erano state prese in considerazione e rifiutate. Nel nome che abbiamo scelto si possono leggere sicuramente molteplici significati, ma deriva da una frase che una volta uno studioso di logica mi ha detto: "la matematica riguarda lo spazio, la musica, il tempo". E ovviamente è ispirato anche da una delle composizioni di Miles Davis che più amo, "It's About That Time", da In a Silent Way.
L.S.: Il nostro nome significa molte cose allo stesso tempo ed è anche una specie di gioco di parole: "about time" nel senso di era "finalmente l'ora" che qualcuno registrasse il sestetto di Henry Threadgill è uno dei significati, ma anche la musica è "about time" nel senso del ritmo [chiedete a un batterista per conferma!] e il registrare è "about time" nel senso del tempo presente, catturato per il futuro!
AAJ: Dopo Ahmed Abdullah, che curiosamente è stato l'artista che negli stessi anni ha inaugurato anche la Cadence Records, il secondo musicista a incidere per la About Time è stato Jerome Cooper...
L.S.: Il lavoro solista di Jerome Cooper è stato una specie di rivelazione per quelli che come noi avevano sempre seguito il Revolutionary Ensemble. Era necessaria una registrazione dal vivo e speravamo di ricreare l'intensità, la dinamica e l'energia gioiosa delle sue composizioni soliste. Chi ha il disco sottomano può farsi un'idea della scena della registrazione, ma devi pensare al pubblico seduto sul pavimento duro del Soundscape, attentissimo, catturato non solo dalla performance, ma anche dal lento svelarsi della struttura musicale. Una specie di magia controllata.
Come tecnico del suono ero seduto davanti al registratore - un vecchio e adorabile Ampex 351, lo stesso di registrazioni classiche degli anni Sessanta - e a un certo punto Jerome vide che ero preoccupato. "Quanto nastro hai ancora?" mi ha chiesto. "Più o meno sette minuti" gli ho risposto
"D'accordo, suonerò ancora per sei minuti e mezzo!" e così fece! Questo è il controllo... la magia la dovete scoprire!
A.R. Per quanto riguarda Jerome Cooper, negli anni l'ho perso di vista. Ha un approccio alla musica molto disciplinato, nonostante io sappia che la sua vita è piuttosto movimentata e caotica.
Mi piacciono i rischi che si prende, anche se io non potrei mai vivere in quel modo. Ha continuato a fare concerti e registrare dischi e il disco di riunione della Revolutionary Ensemble dell'anno scorso è stato davvero buono, considerando da quanto il gruppo era sciolto.
Credo che il loro concerto di addio si sia tenuto, sempre a New York, la stessa sera del famoso concerto al Central Park di Paul Simon.
Penso che Jerome Cooper ami molto la tensione tra la struttura e l'improvvisazione e la sfrutta molto nella sua musica. Il pezzo "Bert the Cat" ad esempio si può definire uno dei lavori per così dire più "accessibili" del jazz d'avanguardia ed è evidentemente molto strutturato. A tal punto che qualche volta gli ascoltatori lo ignorano, così come ignorano Steve Reich ritenendolo troppo ripetitivo. Molti sistemi organici si basano su periodicità o eventi ciclici da cui si sviluppano. La musica di Cooper fa lo stesso: Jerome ha un grande senso dell'umorismo, ma per apprezzarlo devi viverlo di persona: un esempio di questo è il titolo della sua composizione "The Crouch Opinion", registrata sul disco Outer and Interactions, di cui ho sentito anche un bellissimo arrangiamento per una solo performance. È un grande pezzo, oltre che una maliziosa risposta alla recensione di Stanley Crouch sul Villane Voice di The Unpredictability of Predictability. La sola cosa che posso dire di lui è che è sempre puntuale!
AAJ: Ronald Shannon Jackson era in una fase molto intensa della sua carriera [Prime Time, etc.] quando incise Eye on You per la About Time. Trovo che la formazione di quel disco, la Decoding Society sia molto interessante e a partire da sonorità Prime Time si muovono su terreni che anticipano alcune tendenze successive.
A.R.: Le mie orecchie si sono accorte di Ronald Shannon Jackson sin dalle prime battute del disco 3 Phasis di Cecil Taylor: è stato sorprendente come il sentire la differenza portata da Tony Williams nel quintetto di Miles Davis. Ho conosciuto Ronald dopo un fantastico concerto del suo gruppo al Ladies Fort Loft. I gruppi diretti dai batteristi mi hanno sempre interessato, tanto per farti un esempio, Enhance di Billy Hart è uno dei miei dischi preferiti di quel periodo.
Jackson poi, salta all'occhio, è l'unico batterista ad avere registrato con Albert Ayler, Ornette Coleman e Cecil Taylor! The Decoding Society è stata davvero una sfida per David Baker, cui è toccato il compito di registrare la combinazione di strumenti acustici e elettrici. È stata anche una sfida armonizzare personalità così diverse nel suonare una musica così densa, compressa e veloce.
Eye on You è un gran disco e lo abbiamo mixato di proposito in modo che nessuno strumento sia predominante; ogni performance è breve nella durata, ma ricca di cose che accadono, perché Shannon voleva che i solisti entrassero e uscissero rapidamente. Non saprei dire se e quanto Eye On You sia anticipatorio: Vernon Reid è poi diventato famoso con i Living Color e lo stesso Shannon Jackson ha inciso molto in seguito, ma non cose costruite direttamente su quello che esce da questo lavoro. Penso che la teoria armolodica di Ornette Coleman e i suoi Prime Time siano stati la base di tutto questo.
L.S.: È un disco di brani brevi e molto densi. Puoi vederlo come una sintesi delle influenze di Ornette Coleman e di Cecil Taylor, o come una fusione di armolodia e poliritmia, ma si rischierebbe di fare torto all'originalità e alla spontaneità della scrittura. Era musica che suonava fresca e innovativa e mi pare che lo sia anche oggi. Abbiamo optato per un disco in studio invece che dal vivo - e David Baker ha fatto davvero un eccellente lavoro - e ci sono volute un sacco di prove.
AAJ: Arriviamo così all'artista più importante e rinomato che ha inciso per l'etichetta, Henry Threadgill, che nel catalogo compare con tre fantastici lavori.
A.R.: La trilogia incisa da Henry Threadgill per la About Time è largamente riconosciuta dalla critica come uno dei suoi lavori più importanti. Just the Facts and Pass the Bucket e When Was That? sono entrambi apparsi nelle liste dei 100 migliori dischi jazz di sempre.
La mia opinione è che Subject to Change sia rimasto un po' fregato rispetto ai primi due per il fatto che sia il trombonista Craig Harris che il cornettista Olu Dara avevano lasciato la band.
Threadgill continua a ricevere una grande attenzione critica per il suo lavoro e ha mantenuto un profilo più alto degli artisti di cui abbiamo parlato fino ad ora. Spero che la distribuzione di Jazz Today possa rimediare al fatto che questi lavori non sono tanto facili da trovare in Europa, fatto che risalta ancora di più perché gli altri lavori di Threadgill sono stati registrati per etichette più grosse come la Rca o la Columbia o europee come la Black Saint.
Comunque il pubblico è sempre in ritardo rispetto agli innovatori più significativi e nessuno dei nostri dischi è mai andato fuori catalogo, così c'è sempre tempo per mettersi in pari!
L.S.: Ogni periodo della carriera di Threadgill è stato esaltante, dagli Air agli Zooid. In un certo senso possiamo vedere i suoi dischi per la About Time come una trilogia, ma lo stile e la sostanza sono state poi trasferite anche nelle registrazioni per la RCA Novus e Henry aveva scritto brillantemente per un organico allargato già nel 1979 con il disco X-75 Volume 1. Quel sestetto è stato un gruppo fantastico, specie dal vivo... ci sono anche dei nastri di quella formazione e chissà che prima o poi non vedano la luce!
AAJ: Il solo titolo "europeo" nel catalogo della About Time è quello del Willem Breuker Kollektief. Come sei entrato in contatto con loro?
A.R.: Ho visto il Willem Breuker Kollektief in una chiesa della Tufts University a Medford, vicino a Boston, durante il loro tour americano del 1982. Una rivelazione! Facevano dell'avanguardia divertente: hanno suonato un lungo set finito con loro che danzavano in cerchio e ogni strumentista che si lanciava in assolo nel momento in cui passava di fronte al pubblico
Mi sono presentato loro dopo il concerto, ero insieme alla mia ragazza, che non riusciva a concepire un concerto che non fosse di canzoni, così si era messa a lavorare a maglia. Così, quando ci siamo presentati, il trombonista Bernard Hunnekink le ha detto senza preamboli "come sta venendo questa sciarpa?"
Dietro le mie insistenze poi Larry Shengold e Ed Fishman sono andati a seguire lo stesso concerto al Public Theatre di New York, e nello stesso tour li abbiamo registrati!
Breuker è un'altra di quelle straordinarie figure musicali che è al tempo stesso sia famosissimo che quasi sconosciuto. È riuscito a tenere insieme per trent'anni la stessa big-band d'avanguardia con più o meno gli stessi componenti, suonano quasi ogni sera, hanno una loro etichetta, in Olanda l'hanno fatto cavaliere! È stato un vero privilegio registrarli e un onore essere l'unica etichetta americana ad averlo fatto. So che considera quel disco una delle sue registrazioni tecnicamente migliori, in particolare la versione di "Song of Mandalay" di Kurt Weill.
Breuker è una figura particolarmente interessante nella scena europea perchè si distingue dall'improvvisazione più libera di alcuni suoi colleghi come Peter Brötzmann, Evan Parker e Derek Bailey e si muove verso una combinazione elaborata di composizione e improvvisazione. In questo lo possiamo accomunare a Threadgill e Jerome Cooper. A questi elementi Breuker aggiunge poi un incredibile senso dell'umorismo e un'attenzione agli aspetti teatrali dell'esibizione live.
AAJ: A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, l'attività dell'etichetta diventa più sporadica, con solo i dischi del quintetto di Jerome Cooper, il quartetto di Fred Hopkins e Diedre Murray e, addirittura nel 1993, il disco di Joe Morris. Che accadde?
A.R.: A partire dagli anni Ottanta ci siamo dedicati a diverse attività professionali e i dischi del Jerome Cooper Quintet, di Fred Hopkins e Diedre Murray e del Joe Morris Racket Club non hanno avuto quell'attenzione che hanno avuto i precedenti, anche se è stata comunque positiva.
Il marketing e i meccanismi distributivi dei dischi sono molto cambiati in questi ultimi anni, ma non penso che il pubblico di questa musica lo sia così tanto. È ancora musica per persone con la mente aperta e avventurosa. Nonostante si usi associarla a persone di età universitaria o più vecchie, non credo sia uno stereotipo molto utile, perché se ti appassioni da ragazzo, poi questa cosa te la porti dietro tutta la vita.
L.S.: Per quanto riguarda i tre dischi a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, mi sembra che ognuno di essi sia venuto molto bene: Outer and Interactions di Jerome Cooper è uno dei lavori più ragguardevoli di una discografia ancora troppo frammentaria, Prophecy di Fred Hopkins e Diedre Murray si muove su uno scenario delizioso di archi e batteria e Joe Morris, che è artista molto eclettico, ha suonato al Racket Club con uno dei suoi progetti migliori.
Abbiamo rallentato progressivamente: un disco all'anno, uno ogni due anni e poi ci siamo presi una bella pausa. Non voglio dire che ci siamo fermati! Dieci dischi: non male per un'etichetta che non sarebbe sopravvissuta molto se non ci avessimo investito un sacco di tempo e attenzioni, non dando retta a chi ci diceva che saremmo falliti nel giro di un paio d'anni. Abbiamo cercato di mantenere il livello artistico alto, così come il livello qualitativo tecnico e produttivo e siamo riusciti ad avere sempre tutto in catalogo, anche se sfortunatamente non tutto in CD. Ma quelli che non sono stati ancora ristampati in CD lo saranno presto! È una cosa che ha richiesto più tempo del previsto, ma che non abbandoneremo. E mi piace anche pensare che in futuro il catalogo si possa anche allungare...
AAJ: Non ci sono musicisti che vi piacerebbe produrre?
A.R.: Trovo molto interessante quello che stanno facendo musicisti come Ken Vandermark, Tim Berne, Wallace Roney, o la Yo Miles Band. A Boston dove vivo sto seguendo un po' la musica di Dave Bryant e Neil Leonard: Bryant è stato componente dei Prime Time di Ornette Coleman ed è la "risposta esatta" al quiz "chi è stato il primo tastierista a suonare con Ornette dai tempi di Walter Norris su Something Else"?
Ha anche prodotto un proprio CD dal titolo The Eternal Hang per la Accurate, con George Garzone al sassofono.
Neil è un polistrumentista che mette in relazione i propri strumenti, principalmente il sax contralto, con l'elettronica e ha autoprodotto uno splendido disco in solo dal titolo Timaeus. Si è preso un anno sabbatico proprio in Italia lo scorso anno e quindi forse ti sarà capitato di imbatterti nella sua musica. Poi ovviamente continuo a seguire i progressi del multitalentuoso Joe Morris, che incide per la maggior parte delle etichette che ora stanno facendo un gran lavoro.
AAJ: Vi va di ricordare qualcuno in particolare?
Avrei piacere di ricordare l'inestimabile contributo che all'etichetta hanno dato Taylor Storer e David Baker. Storer è stato uno dei direttori del NMDS (New Music Distribution Service/JCOA) a New York, quando abbiamo fondato la About Time. È morto, se ricordo bene, nei primi anni Ottanta. Il mondo della distribuzione discografica non è propriamente un luogo molto amichevole e lui ha costituito una significativa eccezione a questa regola, rimanendo un uomo d'affari onorevole e onesto.
David Baker è stato tecnico del suono per When Was That, Eye on You, Outer and Interactions, oltre ad avere mixato Prophecy. È mancato un paio di anni fa, non ci vedevamo da diverso tempo, l'ultima volta che ho lavorato con lui è stato per trasferire alcuni master su dat ai Vanguard Studios.
Fonico eccezionale, che capiva davvero e amava profondamente il jazz contemporaneo nello stesso modo in cui lo amiamo noi. Forse questi ricordi non sono così interessanti per i lettori, ma penso sinceramente che non potessi fare a meno di menzionarli.
Un particolare ringraziamento va a Alan Ringel e Larry Shengold, per la loro squisita disponibilità a questa intervista. Grazie anche a Riccardo Cigolotti di Jazz Today Distribution per avere reso tutto possibile e più facile.
Sito della About Time Records
Foto di Raymond Ross (Abdullah), Pieter Boersma (Breuker)
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