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Jazz e narrativa 1: il Novecento secondo Baricco
L'obiettivo di "Déjà lu," la nuova rubrica di All About Jazz Italia, è appunto quello di recuperare dall'oblio testi già pubblicati in passato per riproporli ai jazzofili di oggi che leggono AAJ. Per il reperimento del materiale, oltre agli abituali collaboratori di AAJ, ci siamo rivolti a note firme nazionali e internazionali, ottenendo la loro convinta adesione. I testi a volte vengono ampliati e riveduti col senno di poi, oppure, se funzionano, lasciati nella versione integrale; in una nota viene comunque citata la fonte originaria.
E' possibile ricostruire in poche pagine lo spirito dei primi decenni del Ventesimo secolo? Quello spirito altalenante fra avanguardia iconoclasta e ritorno all'ordine, fra modernismo e primitivismo, fra irrequietezza intellettuale e perbenismo borghese? Alessandro Baricco ha tentato di farlo calando a cavallo fra gli anni Venti e i Trenta una fiction avvincente, intessuta di una musica che ha molti punti in comune con il jazz ed ambientata su un transatlantico, spazio simbolico e favolistico, luogo di tutte le contraddizioni sociali dell'epoca, unico mezzo di trasporto che potesse dare concretezza alle aspirazioni verso la mitica America.
Si tratta di "Novecento" (Feltrinelli, 1994), breve racconto in forma di monologo, dalla struttura compatta ed unitaria, assai meno complessa dei due romanzi di Baricco che lo hanno preceduto: "Castelli di rabbia," 1991, e "Oceano mare," 1993. Scritto per l'attore Eugenio Allegri ed il regista Gabriele Vacis, che lo hanno rappresentato sulle scene teatrali nella stagione '94-'95 dopo il debutto avvenuto al festival di Asti nel luglio 1994, "Novecento" è stato messo in onda anche su Radio Tre la sera del 27 dicembre 1994. A proposito della recitazione di Allegri è appena il caso di rilevare la pronuncia staccata ed un accento che sembrano coniugare la cadenza torinese all'yddish con risultati di un'asprezza un po' manierata. Indubbiamente si tratta di un'interpretazione ragionata e legittima, probabilmente concordata con lo stesso Baricco; certo non è l'unica e forse nemmeno la più convincente fra quelle possibili.
È anche il caso di accennare al fatto che nel 1998 da questo racconto Giuseppe Tornatore ha tratto il film "La leggenda del pianista sull'oceano," una ricca produzione italo-statunitense assai fedele al testo di Baricco. La colonna sonora, dovuta a Ennio Morricone assistito da Amedeo Tommasi, affida alla tromba di Cicci Santucci il tema principale. L'interprete di tutti i brani pianistici è invece Gilda Buttà, pianista classica di grande esperienza che ha collaborato con compositori di musica da film quali Luis Bacalov, Nicola Piovani e soprattutto lo stesso Morricone.
Ma veniamo al testo con un orecchio particolarmente attento alla musica che cerca di evocare. Il singolare protagonista è un trovatello, nato e subito abbandonato sul transatlantico Virginian. Detto per inciso, una nave dal nome RMS Virginian, varata nel 1995 e smantellata nel 1954, è veramente esistita; fra l'altro nell'aprile 1912 è intervenuta in soccorso dei naufraghi del Titanic.
Il padre adottivo dà al neonato il composito nome di Danny Boodmann T. D. Lemon Novecento: "L'ho trovato nel primo anno di questo nuovo, fottutissimo secolo, no? Lo chiamerò Novecento." Nome estremamente simbolico: anche Duke Ellington e Louis Armstrong nacquero a cavallo del 1900, anno a cui una storia aneddotica e riduttiva attribuisce appunto la nascita del jazz, musica emblematica del Ventesimo secolo.
Analogamente all'eroe de "Il barone rampante," man mano che cresce Novecento si autocostringe in un microcosmo limitato, ma per questo vivibile, che gli permette di catalogare con distacco le cose del mondo da una propria ottica personale. Come il Cosimo di Calvino ha deciso di non mettere mai più piede sul terreno, creandosi un habitat esclusivo e sufficientemente confortevole fra le fronde degli alberi, così Novecento, nato per caso su una nave in rotta verso il Nuovo Continente, non osa mai scendere sulla terra ferma nel corso di tutta la sua vita. La sua caparbia coerenza arriva al punto di decidere di morire assieme al piroscafo, che ormai messo in disarmo viene fatto saltare.
Alla base di questa sua determinazione sta forse la paura dell'ignoto, forse il presentimento che immaginare la realtà è sempre meglio che sperimentarla direttamente. Sta di fatto che alla morte del padre adottivo egli si è talmente conformato alla vita della nave che non riesce a concepire altro tipo di esistenza: ha appena otto anni ma tra la poppa e la prua del Virginian ha trovato la sua città ideale, il suo osservatorio privilegiato dal quale filtrare ed introiettare le varie esperienze mondane, dal quale prendere consapevolezza dei vari comportamenti umani e della suddivisione della società in classi fra loro incomunicabili.
Inoltre, nella casistica combinatoria degli ottantotto tasti del pianoforte egli, carattere schivo e di poche parole ma bambino prodigio, ha scoperto il suo più congeniale mezzo di comunicazione, la sua forma d'espressione più esuberante. Del Virginian diventa il pianista in pianta stabile, inventando musica per ogni occasione e per ognuna delle tre classi che accolgono i passeggeri della nave. Novecento emerge senza dubbio come il solista più straordinario della Atlantic Jazz Band, formazione guidata da Fritz Hermann, di evidente origine tedesca, "che non capiva niente di musica ma aveva una bella faccia per cui dirigeva la band".
Assai significativi sono a tale proposito i nomi degli altri membri del gruppo: alla tromba Tim Tooney, che fra l'altro è la voce narrante che ci racconta la storia di Novecento; al banjo Oscar Delaguerra, ovviamente un oriundo italiano; al trombone Jim "Breath" Gallup (un irlandese?); alla chitarra Samuel Hockins, l'immancabile ebreo; al clarinetto Sam "Sleepy" Washington. Stona un po' il nome di quest'ultimo, che è l'unico a rivelare un'origine neroamericana in un'orchestra di bianchi: cosa che negli anni Venti non era impossibile, ma certo non frequente.
Ma che musica suona Novecento, che della band costituisce il perno incrollabile e caratterizzante? Indubbiamente la sua musica, come ci viene descritta da Baricco tramite la rievocazione del trombettista, ha molti caratteri jazzistici. Innanzi tutto il pianista, come molti jazzmen dell'epoca, è un completo autodidatta: da bambino ha imparato a suonare con lunghe, segrete esercitazioni o, più probabilmente, per naturale istinto, per divina folgorazione. Finché non lo scoprono una notte "seduto sul seggiolino del pianoforte, con le gambe che penzolavano giù, non toccavano nemmeno per terra... Suonava non so che diavolo di musica, ma piccola e... bella. Non c'era trucco, era proprio lui a suonare, le sue mani, su quei tasti, dio sa come. E bisognava sentire cosa gli veniva fuori".
Questa musica di spontaneo candore e inedita originalità ha dunque tutti i caratteri dell'improvvisazione, nel senso che prende forma istantaneamente nel momento del suo concepimento. "Lui suonava... Non esisteva quella roba, prima che la suonasse lui, okay?, non c'era da nessuna parte. E quando lui si alzava dal piano, non c'era più... e non c'era più per sempre...". La composizione e l'esecuzione quindi coincidono ed ogni interpretazione si configura come fatto irripetibile. Pure sotto questo profilo dunque la musica di Novecento è assimilabile al jazz, anche se il concetto di improvvisazione jazzistica assume un significato complesso, che va ben oltre il senso di mera invenzione estemporanea.
In terzo luogo la musica di Novecento si adatta alle situazioni, è mutevole e ricettiva: quella "dovuta," di intrattenimento, eseguita con l'orchestrina e destinata alle occasioni danzanti ufficiali della prima classe, è assai diversa da quella che suona unicamente per se stesso in tutta solitudine, magari nel pieno di un violento uragano, quasi per sprigionare la propria creatività in sintonia con la forza scatenata della natura. Al di sopra del mestiere, del dover suonare per guadagnarsi da vivere, esperienza che hanno conosciuto bene molti jazzmen, sta sempre e comunque l'urgenza espressiva.
Inoltre il nostro pianista ed i suoi compagni non disdegnano di fare visita ai viaggiatori di terza classe, prendendo spunto dalle melodie delle loro tradizioni: "... ogni tanto si andava da quei poveracci degli emigranti e si suonava per loro, ma senza la divisa, così come veniva, e ogni tanto suonavano anche loro, con noi". Quindi ci troviamo di fronte, ed anche questo è un preciso connotato del jazz di qualsiasi epoca, ad una benefica commistione fra più influenze etniche, alla sovrapposizione di diversi livelli culturali, alla coesistenza fra diverse esigenze espressive.
Infine il multiforme ed umorale pianismo del nostro protagonista, la cui fama si è ormai diffusa anche sulla terra ferma, sa essere anche di strabiliante virtuosismo. È appunto con quest'arma che riesce a sbaragliare Jelly Roll Morton in persona, salito sulla nave proprio per ingaggiare con lui una sfida senza esclusione di colpi, da lasciare gli ascoltatori col fiato sospeso. Dopo due brani, un ragtime ed un blues di toccante leggerezza, in cui Morton dimostra la sua superiorità, alla terza prova Novecento si scatena in frasi di tale inaspettata arditezza e frenetica velocità da umiliare il famoso avversario che si ritira indispettito.
L'inserimento di Jelly Roll Morton, jazzman realmente vissuto, nell'incedere fantastico ed assurdo del racconto è uno dei tanti colpi di genio di Baricco, che, fra l'altro, riesce con poche pennellate a tracciare un ritratto vivido e realistico del grande pianista, presuntuosamente autodefinitosi "l'inventore del jazz".
Pertanto la musica di Novecento, spontanea, improvvisata, immaginifica, carica di swing e di virtuosismo, sembrerebbe in tutto e per tutto jazz. Anzi, ci appare decisamente calata nel suo tempo e paragonabile a quel jazz di intrattenimento, esuberante e spensierato, che veniva esibito per esempio al Cotton Club di Harlem, fra le scenografie di cartone del jungle style, a cominciare dalla fine degli anni Venti. La contemporanea rappresentazione grafica di questo tipo di jazz la possiamo rintracciare nei bei manifesti di Paul Colin, nel quadro Il blues di Stuard Davis del 1925, o anche nelle buste dei dischi a 78 giri di produzione europea, nelle quali l'esagitato e caricaturale dinamismo di un'orchestrina di neri veniva contrapposto alla longilinea e composta eleganza del pubblico danzante, ovviamente bianco.
Ma ad un'analisi più attenta si scopre che manca qualcosa che impedisce al cerchio di chiudersi, cioè c'è una caratteristica essenziale al jazz che, per forza di cose, non può appartenere al mondo musicale del nostro eroe, vale a dire un preciso retroterra culturale. Orfano dei veri genitori, condizionato dalla sua paranoica scelta di autosegregazione, cullatosi nell'ambiente sociale del transatlantico, vario e rutilante, ma senza riferimenti fissi, spinto dall'istinto e dalla tecnica prodigiosa ad una espressione comunicativa e frizzante, ma tutto sommato superficiale, Novecento non ha vere radici e la sua musica non può essere espressione di una determinata cultura popolare. Non può confrontarsi con una tradizione da rinnegare o da sviluppare e, a ben vedere, egli non è del tutto consapevole di ciò che sta suonando; tanto è vero che dopo lo scontro vittorioso con Jelly Roll, esponente autentico ed emblematico della musica afroamericana di quel periodo, guardandolo scendere dalla nave sussurra fra sé e sé: "E in culo anche il jazz".
Questo saggio rappresenta la versione ampliata e riveduta di un precedente testo, pubblicato nel maggio 1995 sul mensile Linea d'ombra col titolo "Concerto jazz sul Titanic," e viene pubblicato per gentile concessione dell'autore. - L'articolo viene riproposto per gentile concessione dell'autore.=
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