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Jazz America '68
ByPer rispondere bisogna ascoltare un disco appena ristampato su CD e che oggi acquista ulteriori significati, vista la scomparsa dell'autore, a ottant'anni, il 25 luglio 2008 ad Availles (Francia): Lady Heavy Bottom's Waltz è solo in apparenza un album come tanti di quel periodo; si tratta invece di una musica che esprime simbolicamente il '68 jazzistico neroamericano: il leader, Johnny Griffin, lo registra in un'unica seduta, il 27 agosto 1968, ai Lindström Studios di Colonia, grazie all'italiano Gigi Campi a far da produttore e supervisore. Con Griffin, come sempre al sax tenore, una formazione anomala: ottetto formato da Benny Bailey (tromba), Ake Persson (trombone), Sahib Shihab (baritono) Francy Boland (pianoforte), Jimmy Woode (contrabbasso) e alle batterie i quasi omonimi Kenny Clare e Kenny Clarke. Sei i brani di media durata, tra standard ("Foot Patting" di George Duvivier), cover ("Please Send Someone to Love" di Percy Mayfield), original ("The Jamfs Are Coming" e la title track dello stesso leader) ad affermare un sound gioioso, tirato, allegro, quasi ballabile; una negritudine esemplare che l'interno della copertina sembra visualizzare nella sequenza di foto che ritraggono un Griffin raggiante, occhiali scuri e camicia bianca, che scherza, ride, dirige, gesticola. Il suono di Lady Heavy Bottom's Waltz concilia hard bop e soul jazz con picchi quasi commoventi di un blues feeling solare, che solo il Little Giant, da oltre dieci anni protagonista di un jazz storicamente compagno di strada di Lionel Hampton e Thelonius Monk, può esternare.
Difficile spiegare a parole, vista l'ineffabilità dei suoni musicali, i legami, sia pur allegorici, tra Griffin (con il suo Lady Heavy Bottom's Waltz) e il '68 americano, tra il jazz e quegli avvenimenti che, dagli omicidi di Martin Luther King e Robert Kennedy alle sommosse nei ghetti neri, dalle marce contro la guerra in Vietnam alle rivolte nei campus universitari, fino alla durissima contestazione per la Convention dei Democrats a Chicago, turbano la coscienza degli Stati Uniti d'America. L'analogia è fin troppo semplice: come l'America non sarà più quella di prima, anche il jazz-jazz dopo Griffin non resterà più lo stesso. Oltre la sonorità, comunque intrisa di vera blackness, Lady Heavy Bottom's Waltz conferma la tendenza dei jazzmen neri al nomadismo culturale: il rifiuto del sistema americano e il tanto agognato ritorno all'Africa, si manifesta anche, da parte dei musicisti, con la scelta dell'Europa, per concerti, tournée, residenze stabili, incisioni fonografiche. Non a caso le maggiori jazz label nel '68 nascono fuori dagli Stati uniti: Spotlite e Black Lion a Londra, MPS a Villigen, Sackville a Toronto (e nel '69 Byg e Actuel a Parigi, ECM a Colonia).
Per chi non abbraccia necessariamente la causa rivoluzionaria o la militanza politica delle Black Panthers che, a livello culturale, sono metaforicamente rappresentate dal free (o new thing) dei vari Archie Shepp, Cecil Taylor, Ornette Coleman, Albert Ayler, Don Cherry, la risposta è l'esilio artistico in Francia, Olanda, Germania, Danimarca o Gran Bretagna. Ed è qui che gli hardboppers, come Griffin e tanti altri, non suonano più come dieci o cinque anni prima; del resto, rispetto agli esordi di Sonny Rollins, Horace Silver, Art Blakey, arrivano via via il modale, il free, persino la bossa nova, il doo-wop, la psichedelia e il rhythm'n'blues a rovesciare il modello di valori consolidatosi attraverso una identità nera mainstream che altro non è che un ritorno alle grande lezione parkeriana.
Emblematico, in tal senso, il percorso di una casa discografica come la Blue Note, che parrebbe assai meno incline alla sperimentazione immediata come accade invece alla Impulse! o, per molti versi, all'Atlantic o alla Columbia, per non dire dell'ESP-Disk appositamente fondata per ribadire la necessità di un 'libero' jazz. La Blue Note, dunque, in quel periodo, appena prima o durante il '68 sforna eccezionali LP di una modernità eterogenea che, dentro la matrice boppistica, accoglie ritmi latinoamericani, tempi dispari, echi pop, strumenti esotici, black culture riversata anche in balli come il twist, lo shake, il boogaloo. Difatti per Lucien Malson, nella sua Storia del Jazz, edita in Italia dalla ERI, non a caso, proprio nel '68 (ma scritta in Francia un anno prima) i nuovi ritmi "sono largamente accolti anche da tutti i musicisti dell'equipe Blue Note, la casa discografica di Alfred Lion e Francis Wolff che pubblica esclusivamente incisioni di jazz e ne illustra soprattutto l'aspetto 'funky' o 'soulful.' Ne abbiamo degli esempi in Señorita Eula di Don Wilkerson, Lady Fingers di Stanley Turrentine, Easy Does It di Bobby Timmons, Tokyo Blues di Horace Silver, Sidewinder di Lee Morgan, Turnaround di Hank Mobley, Siete Ocho di Andrew Hill, Luana di Freddie Hubbard, Mamacita di Kenny Dorham o Succotash del giovane Herbie Hancock. Per la maggior parte, questi artisti della Blue Note (benché alcuni di loro, come Gracham Moncur o Anthony Williams, propendano per il free jazz) stabiliscono delle transazioni fra la musica inquieta o di ricerca e la musica del rhythm'n'blues. Molti sax tenori, che seguono questa via di mezzo, sentiranno, da pare loro, più l'influenza di John Coltrane che quella di Ornette Coleman (...)".
Malson ignora, per ovvi motivi cronologici, che proprio queste transazioni siano alla base dei test di Miles Davis che porteranno al cosiddetto jazz-rock anticipato proprio nel '68 dai celebri Miles in the Sky e Filles De Kilimanjaro (e dall'inedito Water Babies) e condotto all'acme l'anno successivo con In a Silent Way, Bitches Brew e il tardivo Big Fun. Il quintetto del 'divino' trombettista, dopo un lustro, cambia: vi si aggiungono via via Chick Corea, Joe Zawinul, Dave Holland, John McLaughlin ad alternarsi agli strumenti elettrificati che amplificano l'inconfondibile climax funk progressista. Miles, tuttavia, tra gli ascendenti estetici, per la svolta jazzrock non cita né il free né la sintesi, alla Griffin, fra hard bop e soul jazz; le preferenze riguardano la black music popolare che, proprio attorno al '68, con il soul e il r'n'b di cantanti maschi e femmine, è nel pieno fulgore: Otis Redding (da poco scomparso), James Brown, Aretha Franklyn, Wilson Pickett, Ike & Tina Turner, Brenton Wood, Sam & Dave, Arthur Conley, Al Green, Stevie Wonder, Sly & Family Stone incarnano, nella giovane comunità afroamericana, la risposta pop al jazz intellettuale che, appunto sul versante colto, offre ancora ottimi esempi di musica tra rabbia e ricerca; e le 'Pantere Nere del free' sono attivissime, se si riascoltano dischi come The Way Ahead, New York Is Now, New Grass, Eternal Rhythm, Praxis.
Tuttavia il '68 per il free è un anno decisivo in un'altra direzione: la scoperta di inedite soluzioni associative nel giro di poco tempo si traduce con la fondazione dell'AACM (Association for the Advancement of Creative Music, 1965) a Chicago, della JCOA (Jazz Composer Orchestra Association, 1966) a New York, del Black Artists Group (1968) a Saint Louis. Con queste tre istituzioni di musica tra solidarietà e alternativa nel contesto underground o, per usare un termine dell'epoca, 'controculturale,' la neoavanguardia sonora ripensa il free attraverso ulteriori emancipazioni. E' insomma il preludio a ciò che, durante i Seventies verrà chiamata improvised o creative music, dove il ribellismo della new thing si stempera, o meglio, si trasforma in segni ancor più oltranzisti, sul piano della forma musicale, mentre l'iniziale avventurismo cede il posto a una fede comunitaria, con larghi spazi ai territori inesplorati: polistrumentismo, scrittura, teatralità, combinazione di organici anomali (fino alla perfomance in solitudine). In tal senso l'attività viene documentata, nel '68, dall'assetto dell'Art Ensemble Of Chicago, dal debutto di Anthony Braxton, dagli album Congliptions di Roscoe Mitchell e Communications II della Jazz Composer Orchestra di Carla Bley, preludio alla radicale Liberation Music Orchestra di Charlie Haden dell'anno dopo.
Ma il '68 nel jazz americano compie anche un'altra tacita rivoluzione, sul piano del mercato discografico; scompare, quasi all'improvviso, il cosiddetto 'jazz di papà': musicisti non più giovani, portavoci di un 'jazzetto' bianco ormai logoro e superato, facili prede dell'easy listening, vengono sopraffatti dall'ondata giovanile soul e rock: se si guarda al numero e alla qualità di LP jazz pubblicati nel '68, si nota subito come la nuova musica, in fondo nata dalle radici blues e gospel, spazzi via quell'idea di jazz salottiera, ma anche un po' hollywoodiana, tra romanticismo annacquato, night-club, donne fatali, adulti in smoking: appunto il paparino che ascolta lo stereo con gli amici, oppure sullo sfondo di un cocktail party o ancora in pantofole davanti al caminetto. Alcune vecchie icone del jazz entrano in crisi proprio nel '68, altre più effimere non torneranno che anni dopo, sull'onda di un logico recupero della strada maestra afroamericana (sia bianca sia nero, per inciso).
Non è dunque un caso che tra le centinaia di album jazz pubblicati nel '68 prevalgano organisti e chitarristi (strumenti 'principi' nel rock), mentre diversi boppers di mezza età si riciclano nel soul per restare à la page, o semplicemente a galla, come faranno un lustro dopo, i campioni dell'hard bop nei confronti della fusion. A New York in particolare, durante tutto il '68, spopolano i tastieristi, con l'Hammond B-3 vivacissimo protagonista di un genuino soul-jazz boppeggiante iniziato un decennio prima grazie al capofila Jimmy Smith che nel '68 firma ancora tre album, seguito dal prolifico Jimmy McGriff con quattro e via via dai bravissimi Richard Groove Holmes, Jack McDuff, Johnny Lytle, Big John Patton, Johnny Hammond, Lonnie Smith, Larry Young.
Tuttavia per i grandi del passato anche recente, qualche margine di spazio c'è ancora poiché, nel jazz americano, il '68 significa anche importanti novità legate a un sound più classico: Yank Lawson e Bob Haggart danno vita a The World's Greatest Jazz Band, ottetto dixieland che riunisce anziani solisti incrociando revival e swing. Il redivivo Willie "The Lion" Smith, maestro dello stride piano, dedica un doppio microsolco a una specie di biografia musicale. Si incontrano per la prima sola volta, in quartetto, Dave Brubeck e Gerry Mulligan esponenti del primissimo cool: in mezzo a un'interminabile tournée nel '68 sfornano ben tre dischi. E, ancora, su vinile, sono tante le collaborazioni spesso uniche fra maestri e capiscuola: dai cantanti Eddie Jefferson e Joe Williams condotti rispettivamente da James Moody e Thad Jones, al lancinante duo free (a Milano) tra l'argentino Gato Barbieri e il sudafricano Dollar Brand, da poco convertitosi all'Islam con il nome di Abdullah Ibrahim, poi usato in ogni successivo album. Tra gli 'Americans In Europe' all'insegna del mainstream, ecco i tête-à-tête fra Farmer e Woods a Roma, Bill Coleman e Buddy Tate a Parigi, mentre a Londra il giamaicano Joe Harriott assieme a John Mayer tenta con successo una world music ante litteram.
E le leggende viventi? I boppers rimasti, ormai ultracinquantenni, si dedicano ai grossi organici: Dizzy Gillespie costituisce la Reunion Big Band, Kenny Clarke si conferma con Francy Boland leader di una spumeggiante orchestra euroamericana. Tra i 'giganti' Duke Ellington si divide tra il Secondo Sacro Concerto (seimila persone al newyorchese St. John Divine) e la tournée in Brasile, Argentina, Cile, Uruguay (che sarà lo spunto per l'imponente Latin American Suite); è il jazzista più prolifico del '68 con altri tre album: oltre il postumo Yale Concert, Live in Mexico, Studio Sessions New York 1968 e Francis A. & Edward K. epocale incontro con Frank Sinatra. L'ancor più leggendario Louis Armstrong, dopo la ridicola presenza sanremese, si riscatta tirando fuori un brano da hit parade ("What a Wonderful World") e licenziando ancora un 33 giri di filastrocche disneyiane, oggi sorprendente, pur nell'allora kitsch ostentato. Il disco jazz più venduto nel '68 è però quello pop-jazz di Wes Montgomery, prematuramente scomparso nel giugno di quell'anno, mentre fra i titoli destinati a futura memoria si imporranno Speak Like a Child di Herbie Hancock e Now He Sings, Now He Sobs di Chick Corea.
Non mancano neppure le stravaganze, quasi a confermare l'aspetto ludico di tanta frenesia sessantottina, che nel jazz ad esempio si traduce nella chitarra suonata dal batterista coltraniano Elvin Jones in Elvin's Guitar Blues, o negli otto strumenti impiegati dal solo Keith Jarrett per Resoration Ruin (secondo Lp a proprio nome). Ma la stravaganza per antonomasia resta pur sempre, nel jazz '68, la copertina di Underground, ennesimo bel disco del quartetto di Thelonious Monk, che forse non aggiunge nulla sul piano inventivo a quanto esperito nei precedenti vent'anni: però, in quell'immagine, folle scenografia, dove Monk è seduto al pianoforte, vestito (e armato) da partigiano francese, durante l'occupazione nazista, in una stalla usata come rifugio e deposito d'armi, c'è un forte richiamo traslato al Black Power; il '68 del jazz americano passa anche di qui, oltre gli struggenti assolo del 'vecchio' compagno monkiano Johnny Griffin in Lady Heavy Bottom's Waltz.
Foto di Roberto Polillo (Griffin), Jat Kilby (Dollar Brand)
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