Home » Articoli » Lyrics » Intervista all’Ensemble Dissonanzen. Conversazione con T...
Intervista all’Ensemble Dissonanzen. Conversazione con Tommaso Rossi.
ByAll About Jazz Italy: Iniziamo dalla domanda meno banale. Che cosa è un ensemble?
Ensemble Dissonanzen: In effetti è la questione più difficile! Da questa domanda dipende un po' tutto. Alcuni potrebbero sostenere che l'ensemble è un gruppo che risponde alle intuizioni di un direttore e che ne segue le linee estetiche e progettuali, essendo così l'espressione di una sola persona. Altri invece potrebbero essere dell'idea che un ensemble è un luogo dove si realizza la collaborazione tra vari musicisti, ognuno con una sua visione e, attraverso un lavoro di ricerca e di studio, si cerca di trarre una sintesi. È questo il caso dell'Ensemble Dissonanzen.
AAJ: Hai voglia di raccontare come, quando e dove si è formato il vostro Ensemble?
E.D.: È difficile trovare un momento esatto nel quale è nato il nostro ensemble: ci sono stati tre eventi molto significativi nella nostra storia, forse potremmo addirittura dire che ci sono stati tre diversi inizi. Il primo è stato nel 1993, quando il violoncellista Marco Vitali creò le stagioni di Dissonanzen all'interno delle stagioni del Teatro Galleria Toledo di Napoli. In alcuni concerti che vedevano impegnati per lo più dei solisti sorse la necessità di programmare dei lavori di ensemble e fu necessario raggruppare alcuni musicisti (la maggior parte colleghi dello stesso Marco del Teatro San Carlo di Napoli) sotto la sigla Ensemble Dissonanzen.
Il secondo è stato il 1999 quando Claudio Lugo, che nel frattempo era succeduto a Marco nella direzione artistica dell'associazione, propose l'esecuzione di un Pierrot Lunaire cantato e danzato. Bisognò creare un gruppo che, dopo un bel po' di prove, affiancò l'allora giovanissima ma già emergente Cristina Zavalloni nell'esecuzione e si avvalse della coreografia di Alessandra Petitti e delle luci di Pasquale Mari.
Il terzo è rappresentato dalla scelta, avvenuta nel 2001, di non limitare l'ensemble a uno "strumento," per quanto efficace, di realizzazione di programmi all'interno delle stagioni di Dissonanzen, ma di connotarlo anche come "laboratorio" di progetti da proporre anche presso altre stagioni concertistiche. In questo senso, la scelta di dedicare una parte dell'attività all'improvvisazione ha avuto sicuramente un peso importante. Il primo progetto che realizzammo ed esportammo fu la sonorizzazione di alcuni corti di Man Ray, utilizzando brani di Satie e sviluppando, su questi materiali, un lavoro sull'improvvisazione.
AAJ: Come e perché del nome che avete scelto.
E.D.: Il nome Dissonanzen, per connotare un cartellone di concerti di musica contemporanea, e poi l'associazione e l'ensemble, fu scelto ispirandosi al celeberrimo saggio di Adorno, Dissonanzen, appunto. In quell'epoca (siamo nel 1993) si voleva reagire alla corrente neo-romantica e soprattutto al famoso saggio di Baricco, L'anima di Hegel e le mucche del Wisconsin, che infuriava in quel momento e operava una colossale opera di revisionismo storico contro i filoni musicali del '900 legati alle esperienze della Seconda Scuola di Vienna. Marco Vitali, con il contributo fondamentale del semiologo Massimo Bonfantini, volle riproporre una lettura del '900 meno faziosa e soprattutto didascalicamente finalizzata a contestualizzare i movimenti dell'avanguardia musicale. Il successo fu enorme e, a quel punto, Vitali decise di fondare un'associazione a cui nel 1997 ho aderito anche io.
AAJ: I presupposti che vi hanno portato a unirvi nel 1993 sono gli stessi sui quali ancora oggi basate il vostro legame?
E.D.: Diciamo che dal 1993 molte cose sono cambiate. Innanzitutto, come dicevo prima, in quel periodo il lavoro sull'ensemble non era al primo posto negli scopi dell'associazione. Il compito che Dissonanzen si dava era soprattutto quello di creare un dibattito attorno ai temi della musica contemporanea, in una città come Napoli, che era stata sempre un po' refrattaria a certi tipi di linguaggi musicali. Questa "missione" non si è certamente ridotta oggi, ma in questi anni si è pensato che lo strumento migliore per realizzare questo fosse puntare sulla "musica pratica" piuttosto che sulla semplice riflessione, anche se accompagnata da ascolti e da concerti. Oggi Claudio Lugo non fa più parte del gruppo di lavoro. È stato dal 1999 al 2006 direttore dell'ensemble e coordinatore artistico dell'associazione e ha dato un contributo fondamentale in termini di progettualità, visione e qualità musicale. Nel frattempo, sono entrati a far parte del gruppo anche altri musicisti. Il gruppo dei soci "militanti" è attualmente costituito da Ciro Longobardi, Marco Cappelli, Francesco D'Errico, Marco Sannini, Daniele Colombo, Marco Vitali, Raffaele Di Donna, dall'attore Enzo Salomone, che ha dato un contributo importante nel legare alla dimensione musicale una sfera sonora legata alla parola e al teatro, dalla danzatrice e coreografa Alessandra Petitti, con cui negli anni abbiamo attivato una piccola sezione di teatro-danza contemporanea, intitolata con un pizzico di ironia DissonTanzen. Così come una collaborazione importante come quella con Agostino Di Scipio si è realizzata quando questi è venuto a insegnare al Conservatorio di Napoli, con l'apertura della classe di musica elettronica (vedi in proposito il festival Caminantes).
AAJ: Per quanto riguarda il repertorio, come scegliete i pezzi o i singoli progetti e come lavorate in fase di esecuzione... Magari puoi raccontarcelo a partire da un progetto che vi sta particolarmente a cuore.
E.D.: È complicato rispondere a questa domanda. Gli inizi di un progetto sono spesso difficili da scorgere e qualche volta anche casuali. Spesso ci si confronta su una personale esperienza artistica (l'esecuzione di un autore o la conoscenza di un musicista) e si valuta se questa possa diventare patrimonio comune dell'ensemble. Mi limito a uno degli ultimi casi. Con il musicista americano Adam Rudolph abbiamo recentemente realizzato un bellissimo progetto, "Pietrasanta Project", in cui un'intera piccola orchestra, composta dagli strumentisti di Dissonanzen, da quelli dell'Is Jazz Ensemble, da allievi del Conservatorio di Cosenza e di Napoli ha fatto un lavoro con lui, dando vita a un progetto davvero originale. Rudoplh ci è stato presentato dal nostro chitarrista Marco Cappelli, che, newyorkese d'adozione, l'ha conosciuto nell'ambiente dei musicisti downtown.
Oppure potrei parlare del progetto su Samuel Beckett, che abbiamo realizzato l'anno scorso: l'input è arrivato da Enzo Salomone, che è un attore storicamente partecipe alle esperienze più raffinate della sperimentazione teatrale napoletana. Pochi sanno che la musica ha avuto per Beckett un ruolo davvero importante nella sua formazione, influenzando anche molte sue scelte poetiche. Attraverso una scelta di testi e di musiche legate al mondo beckettiano (Schubert, Satie, Feldman) abbiamo composto un mosaico di suggestioni e di situazioni teatrali e musicali su cui è stato costruito il concerto-spettacolo. C'è insomma parecchia circolazione di idee.
Naturalmente avere molte idee è anche faticoso. Perché obbliga al confronto. Così come avere una propensione alla multi-disciplinarietà obbliga anche a vedere le cose dal punto di vista di chi non è musicista. Ma non potrei immaginare Dissonanzen in modo diverso da questo.
AAJ: Una cosa che vi caratterizza è senza dubbio un notevole impegno concertistico nella città di Napoli con progetti spesso complessi e articolati. In tutto ciò c'è un'evidente parte di lavoro "dietro le quinte" e "inedita" che non emerge né attraverso l'attività concertistica, né attraverso quella di registrazione, ma che è per voi altrettanto importante.
E.D.: Direi fondamentale. Forse questa è la parte più difficile del nostro essere ensemble. In un certo senso anche quella più appassionante. Napoli è davvero una città particolare. Musicalmente ricchissima. E per questo piena di voci diverse, di soggettività interessanti. Spesso in conflitto tra loro. Dissonanzen deve fare i conti con tutto questo, ovviamente. Fare i conti anche con la mancanza di spazi, che, proprio perché contestualizzata in un panorama artisticamente ricchissimo, rende tutto ancora più complicato. Per mancanza di spazi intendo propriamente una mancanza di sale disponibili e con costi accessibili. Inoltre la politica del "bassolinismo," ha relegato la musica a ultima delle arti, prediligendo chiaramente il teatro e le arti figurative. Il Napoli Teatro Festival, vero e proprio "monstre" culturale, non ha praticamente mai ospitato un'opera di teatro musicale. Se lo dici agli attori e agli uomini di teatro fanno spallucce. Eppure questo, nella città che ha inventato l'opera buffa, sembra quantomeno strano...
AAJ: Che cosa vi interessa maggiormente mettere in luce della musica del Novecento? Quali sono gli aspetti sui quali voi come Ensemble ritenete di dover maggiormente lavorare?
E.D.: Un rapporto con la musica del Novecento è fondamentale per noi, e credo che dovrebbe esserlo per ogni gruppo che fa musica contemporanea. Il Novecento come luogo di poetiche musicali, anche drammaticamente contrapposte. Ma anche come bagaglio di tecniche strumentali, di saperi da conoscere. Basta pensare allo sviluppo che alcuni strumenti hanno avuto nel XX secolo per rimanere stupiti e ammirati. Per quanto riguarda il rapporto con il jazz, tra noi ci sono anche dei jazzisti puri, ma il lavoro che cerchiamo di fare insieme certamente non ha a che vedere con il jazz. Cerchiamo una cifra improvvisativa che sia nostra, anche usando suoni elettronici e campionati. In questo, l'apporto di Francesco D'Errico è davvero importante. Quando si crea un suono di ensemble, ogni strumentista alla fine sa qual è il suo spazio timbrico, e l'improvvisazione diventa una visualizzazione collettiva di timbriche, direi in un certo senso una partitura in movimento.
AAJ: Dal punto di vista teoretico il vostro ensemble si muove attorno a due direttrici fondamentali: il repertorio scritto e l'improvvisazione. Apparentemente sembrano non dover convergere, anche se molta musica del Novecento e contemporanea lavora invece per creare fertili occasioni di iterazione. Vorrei approfondire con voi la questione.
E.D.: Dirò quella che può sembrare un'assurdità. Secondo me tra improvvisazione e musica scritta, non c'è poi tanta differenza, se considerate dal punto di vista dell'ascolto! Molte volte capita di ascoltare musica improvvisata e sembra che dietro ci sia una precisissima partitura... così come capita l'opposto. Ascoltare musica scritta con grande precisione e pensare che si tratti di musica improvvisata... Ovviamente la mia è una provocazione. Ma se guardiamo anche la storia della musica il confine tra scrittura e improvvisazione è stato sempre piuttosto labile. Pensiamo che tutti i grandi compositori del passato erano anche dei grandi improvvisatori, ovvero dei grandi esecutori e interpreti di se stessi. L'ascoltatore percepisce cose che funzionano oppure che non funzionano e il compito del compositore e degli interpreti sta nell'essere convincenti al momento del dunque. Il dunque è la viva musica. L'unica cosa che conta. La vita che si sprigiona al momento del fare musica. Credo anche che sia molto educativo dedicarsi a tutte e due le cose. Quando improvvisi ti rendi conto che devi suonare solo le cose importanti. Quando suoni la musica scritta ti rendi conto che è importante suonare bene tutto.
AAJ: Al di là della vostra esperienza particolare, cosa significa "improvvisazione" in un ambito musicale come il vostro? A quali esperienze improvvisative guardate o quali sono quelle che credete abbiano maggiore interesse oggi per chi si occupa di musica tout court.
E.D.: Devo dire la verità. Noi non abbiamo seguito dei modelli. Abbiamo cercato di seguire il nostro istinto e di assecondare un gusto di ensemble che si è creato sul campo. Certo ognuno di noi porta nel suo stile di improvvisatore quelle che sono le sue esperienze con altre musiche. Dal punto di vista strettamente artistico i primi passi in campo improvvisativo li abbiamo fatti con l'esecuzione di partiture grafiche e "open" degli anni '60 e '70 (Autotono di Sylvano Bussotti, Serenata per un Satellite di Bruno Maderna, fino alle tavole grafiche di Deragliamento di Francesco Pennisi), poi con un lavoro sempre più originale e libero.
AAJ: ... e per quanto riguarda l'elettronica, che contatti avete con questa terza direttrice (altrettanto feconda)?
E.D.: Per quanto riguarda l'elettronica come Festival abbiamo intrapreso già da anni una collaborazione assai feconda con Agostino Di Scipio e con la scuola di musica elettronica del Conservatorio "San Pietro a Majella". Con Di Scipio abbiamo più volte lavorato anche come interprete, in lavori che prevedevano il nastro magnetico o l'uso dell'elettronica dal vivo. Averlo a Napoli sicuramente ha provocato un'iniezione di internazionalismo e una visione più aggiornata di molti aspetti della composizione contemporanea.
AAJ: Essendo All About Jazz una rivista dedicata al jazz, quanto pensate il vostro lavoro abbia a che fare con questo genere? Che cosa vi interessa in particolare del jazz?
E.D.: Io credo che il jazz sia ormai davvero impossibile da definire. In effetti gli stessi amici jazzisti hanno difficoltà a dare una definizione. Possiamo dire che il jazz sia una parte cospicua della musica che si fa oggi. Trovo spesso impossibile applicare però rigide divisioni tra i suoni di certe esperienze "jazzistiche" e quelli della cosiddetta musica contemporanea o di sperimentazione. Insomma il panorama sonoro moderno è assolutamente restio a essere ingabbiato. Forse solo per il pop ormai esistono rigidi schemi. Comunque quello che il jazz ha davvero rinnovato è secondo me la concezione armonica. E questo ha consentito anche di uscire definitivamente dalla eterna questione tonalità/atonalità.
AAJ: Portate avanti un lavoro teorico (letture, discussioni sulla metodologia, studi o ricerche, seminari) a livello di Ensemble oppure la formazione e la ricerca sono un percorso individuale, che ciascuno di voi persegue con sensibilità e inclinazioni musicali proprie, da condividere solo in un secondo momento insieme?
E.D.: Direi che in questi anni abbiamo sempre cercato di interagire con soggetti culturali interessati a svolgere anche un'operazione di riflessione. Non sono mancati momenti di confronto a livello universitario o scolastico. Purtroppo è molto difficile dare a questo tipo di attività un percorso organico e stabile. Sarebbe necessario avere degli spazi permanentemente utilizzati allo scopo. E anche una capacità organizzativa più ampia. Ovvero dei mezzi economici.
AAJ: Qual è il campo di ricerca musicale imprescindibile per un ensemble che si occupa di musica contemporanea?
E.D.: Cercare di dire qualcosa di nuovo. E possibilmente di vivo. Altrimenti tacere.
AAJ: Lavorate anche per fare formazione ai giovani? È importante e in quale misura il coinvolgimento delle istituzioni (conservatori, scuole musicali ect.)?
E.D.: Questo è un aspetto importantissimo a cui abbiamo lavorato proprio negli ultimi anni. Forse perché stiamo diventando più grandicelli... e c'è bisogno di lasciare un segno verso il futuro. I rapporti con le classi di composizione di Napoli e di musica elettronica sono in atto da alcuni anni. Recentemente abbiamo commissionato agli studenti di composizione un'opera da camera, che purtroppo ancora non siamo riusciti a realizzare per mancanza di risorse. Si tratta di un'opera intitolata Ikmè su testo della bravissima scrittrice napoletana Antonella Cilento. Una storia che riguarda l'integrazione di una bambina palestinese, rimasta orfana di entrambi i genitori, in una famiglia napoletana, dove la musica svolge un ruolo fondamentale.
AAJ: Uno degli aspetti più importanti per voi è proprio quello di lavorare sulla diffusione dei linguaggi musicali contemporanei. Nei vostri concerti eseguite autori contemporanei (bellissimo il lavoro su Morton Feldman). Come costruite un concerto e attorno a quali aspetti puntate maggiormente?
E.D.: Noi non abbiamo scelto in maniera programmatica di lavorare con o su un compositore specifico. Le nostre commissioni sono state realizzate sempre quando c'era un'esigenza profonda, anche extramusicale, su un tema specifico. Credo che questo forse ci abbia in parte anche chiuso delle porte. Tuttavia ci ha dato forse maggiore libertà di azione.
AAJ: Il pubblico è importante? E in che forma, dimensione, misura...?
E.D.: Il pubblico è importante. E molto. Non credo alle rassegne di musica contemporanea per addetti ai lavori. Magari anche annoiati nell'ascoltare i lavori dei loro colleghi/rivali. Certo fare una programmazione di musica contemporanea espone a rischi, magari anche ad errori. Ne abbiamo certamente fatti anche noi, magari programmando cose che non hanno avuto la risposta sperata, o non così interessanti come speravamo. Tuttavia esporsi ad alcuni rischi fa parte del gioco. I cartelloni "sicuri," quelli con le cose già ascoltate sono già realizzati da altri. Il problema è che rischiare spesso non è remunerativo, sia in termini economici che di pubblicità. Gli stessi giornali parlano molto più volentieri del già noto. Dissonanzen un suo pubblico a Napoli però l'ha conquistato e sono convinto che se avessimo soltanto la possibilità di una proposta più continuativa ciò verrebbe fuori con chiarezza.
Abbiamo spesso fatto concerti con tantissima gente, ricordo serate abbastanza memorabili da questo punto di vista, ad esempio Tempest di Claudio Lugo, Scelsi Morning con Marc Ribot, Musica Porosa con Markus Stockhausen [su cui vedi i video youtube segnalati], il concerto con il percussionista americano Jim Pugliese, Pierrot Lunaire di Schönberg, un Happening dedicato a John Cage alla Fondazione Morra, così come la sonorizzazione dei corti di Man Ray all'Istituto Grenoble. Per due anni abbiamo realizzato un ciclo di Cinema sonorizzato nell'ambito del Festival delle Ville Vesuviane, ottenendo sempre il pienone. Così come consenso ha ottenuto tutta la programmazione che abbiamo realizzato in Conservatorio, specialmente quella legata alla collaborazione con la classe di musica elettronica. Recentemente anche il progetto con Adam Rudolph ha riempito la Chiesa della Pietrasanta. Insomma l'Ensemble Dissonanzen, quando suona, raccoglie certamente consenso in città. Certamente la scelta di interagire con ambienti culturali diversi (Università, arti figurative, istituti di cultura esteri, Conservatorio, Accademia di Belle Arti) ha contribuito a farci conoscere. Certo se avessimo un luogo dove stabilmente poter operare, tutto cambierebbe in meglio...
AAJ: Che impatto hanno avuto le rassegne concertistiche che avete realizzato sulla città di Napoli in questi anni?
E.D.: La mia sensazione è che Dissonanzen abbia dato e debba continuare a dare un contributo alla vita culturale della città di Napoli. Per quanto mi riguarda sento molto questa responsabilità, anche perché noi tutti amiamo moltissimo la nostra città, e vorremmo vederla ricordata per quanto di bello produce e non solo per le sue criticità. Da questo punto di vista credo che Napoli sia grandemente sottovalutata nella percezione mediatica del Paese. Quello che si fa qui passa sotto silenzio, meriterebbe invece ben altra attenzione. So anche di detrattori e di coloro che giudicano la nostra esperienza con ostilità, ma è più che normale questo. C'è chi ci vede come una sorta di corpo estraneo, come se aver scelto un nome tedesco o un particolare campo di attività ci dovesse porre necessariamente fuori dal grande ventre della "madre partenopea".
Ovviamente Dissonanzen è anche una provocazione, nella terra del melos e della canzone. Ma questa provocazione in realtà è il frutto del grande amore che abbiamo per la nostra città e per la cultura della nostra città. A Napoli ci sono state spesso figure di spessore europeo che hanno scelto una strada difficile all'interno del dibattito culturale interno. Pensiamo a Giuseppe Martucci, che è uno dei più grandi musicisti del XIX secolo. Una figura che aspetta ancora una piena valorizzazione. Lo stesso si può dire nel XX secolo per Mario Pilati, compositore prematuramente scomparso. Certamente Dissonanzen dà fastidio a chi pensa che Napoli debba esportare solo tarantelle e mandolinate, oppure che la sua produzione musicale sia da focalizzare solo sul XVIII secolo. E questo "cartello" ha seguaci non solo qui ma anche fuori da Napoli. Questo perché è comodo poter mettere etichette e fare di ogni erba un fascio.
Napoli è poi la città della soggettività. Una città piena di grandi talenti che raramente si aggregano. Forse il fatto che Dissonanzen sia un collettivo molto coeso è un altro elemento visto come anomalo.
AAJ: Nel vostro repertorio figura anche la collaborazione con l'Ensemble Algoritmo diretto da Marco Angius nel progetto Il Diario di Nijinsky di Detlev Glanert. Come è nato e che importanza ha avuto nel vostro percorso?
E.D.: Il nostro pianista Ciro Longobardi è stato il trait d'union con Marco Angius. Ciro lavora da anni con Algortimo ed è stato naturale proporre un'esperienza di collaborazione tra i due ensemble. Marco Angius è poi un direttore fantastico, con una enorme competenza. Io ho avuto la fortuna di lavorarci anche in una ripresa di Globe Theatre di Giorgio Battistelli, un lavoro particolarissimo scritto per un organico che comprende strumenti antichi (flauti traversi barocchi, liuto, viola da gamba) oltre alle percussioni.
AAJ: Vi appoggiate ad una casa discografica? Ne avete fondata una vostra?
E.D.: Beh se fossimo in grado di fondare un'etichetta saremmo a cavallo! Purtroppo non è così. Le collaborazioni con le etichette con cui abbiamo inciso sono anche frutto di causalità. Alla Mode Records interessò pubblicare materiali relativi a Dallapiccola e Petrassi in occasione del centenario della loro nascita, così come lo stesso discorso fu fatto per il CD su Henze, in occasione del suo ottantesimo compleanno. C'è anche da dire che i due progetti non sarebbero stati possibili se non ci fossero stati dei concerti in occasione dei quali effettuare la registrazione. E si trattò di inviti presso il Ravenna Festival e l'Associazione "A.Scarlatti" di Napoli e del Sorrento Festival. Diverso il caso del CD con Adam Rudolph, realizzato in collaborazione con l'ISMEZ e non in commercio. Anche se stiamo cercando il modo di pubblicare altri materiali realizzati con Rudolph.
AAJ: Musica Porosa rimane un CD a mio avviso di grande spessore e insuperato. Dentro c'è tutto il succo di un'esperienza radicale fatta convergere in suoni. La musica è pregna di urgenze, è porosa, è permeabile all'esperienza di Markus Stockhausen e Tara Bouman. Successivamente avete registrato due cd che contengono musiche da camera, uno dedicato a Dallapiccola e Petrassi e l'altro a Henze. Non sono affatto meno belli. Anzi. Ma sono molto diversi tra loro, per sonorità, caratteristiche e sensibilità dei compositori stessi. Perché queste diverse scelte...
E.D.: Musica Porosa nacque sotto la suggestione della lettura di un bel volume pubblicato dall'editore napoletano l'Ancora del Mediterraneo che raccoglie una miscellanea di saggi su Napoli di intellettuali tedeschi. Pensammo ad un lavoro musicale che traesse ispirazione dalle testimonianze di viaggio che alcuni intellettuali tedeschi avevano lasciato su Napoli negli anni '20 del XX secolo. Block, Adorno, Benjamin, Krakauer si erano interrogati sulla città, sulla sua radicale differenza e lontananza dalla modernità europea. Ne avevano visto caratteristiche che ancora oggi sopravvivono e, in un certo senso, rappresentano un cifra unica al mondo. L'idea fu, a quel punto, di proporre a Markus e Tara un lavoro di "musica intuitiva" sul concetto di "porosità" quello che definisce forse meglio di tutti l'essenza di Napoli. In quel frangente ci soccorsero anche le immagini di Antonio Biasiucci, che ha rivolto il suo occhio fotografico ai vulcani dell'area napoletana, e alle pietre porose di tufo. Nacque una collaborazione con il Goethe Institut e soprattutto un concerto bellissimo e pieno di energia che per fortuna , fu registrato e poi pubblicato. Sembrerebbe che Dallapiccola, Petrassi ed Henze stiano lontani anni luce da tutto ciò. E invece in realtà no. Per uno strumentista che si dedica alla musica contemporanea come si fa a prescindere da questi tre autori? Tre giganti della musica contemporanea non potevano essere assenti dallo scenario.
AAJ: Avete in programma registrazioni nuove?
E.D.: Stiamo preparando un grosso lavoro che raccoglie molte registrazioni che abbiamo fatto in questi anni e che per ora non erano state pubblicate. Una sorta di ritorno al futuro in occasione dei 20 anni dell'associazione.
AAJ: Dal punto di vista economico, come avete provveduto fino ad ora a finanziare i vostri progetti? Quali margini di autonomia avete rispetto a chi/coloro che vi sovvenziona/no?
E.D.: Dissonanzen per parecchi anni ha avuto piccole sovvenzioni dal Dipartimento per lo Spettacolo dal vivo. Poi sono state tagliate nel 2005, all'alba dei primi tagli al FUS. In quell'occasione organizzammo una vasta raccolta di firme contro questa decisione e ottenemmo un vasto consenso attorno alla nostra protesta. Il Ministero non cambiò idea ma almeno ci sentimmo meno soli. A livello locale abbiamo potuto contare sull'appoggio di alcuni enti locali (la Provincia e la Regione soprattutto) e di alcuni sponsor come l'Istituto Banco di Napoli- Fondazione e la Banca Popolare di Ancona. Ma oggi, nel pieno della crisi, le nostre risorse sono ridotte quasi a zero. E abbiamo deciso di intraprendere una strada nuova. "Ricomincio da tre" direbbe Massimo Troisi. Siccome è impossibile impedirci di suonare abbiamo deciso di ripartire dal pubblico, ovvero dalle persone e cominciare a pensare di dover non contare più su alcun contributo pubblico ma solo sul sostegno dei singoli.
AAJ: Pensate che ci sia una politica in Italia attenta agli Ensemble e/o su cosa dovrebbe sostenere realtà come la vostra la politica (locale, nazionale?)?
E.D.: Devo dire che fino a poco tempo fa ci si aspettava che la gestione politica della cultura potesse dare delle risposte anche su temi come la ricerca musicale. Illusione. La politica non ha oggi una visione della cultura. Direi purtroppo che non ha visione pressoché di nulla, neanche dei grandi problemi macro-economici. Forse proprio l'ostinazione di portare avanti battaglie culturali, il fatto stesso di organizzare un concerto è oggi atto politico. Direi quasi un atto rivoluzionario. Non mi aspetto più alcun contributo economico dalle istituzioni pubbliche: cerchiamo di costruire, attraverso la nostra azione culturale, una nuova politica, un nuovo agire pubblico.
AAJ: Essendo Dissonanzen una realtà da anni presente a Napoli, cosa vi sentite di dire sulla realtà (anche musicale) di questa città.
E.D.: Napoli ha fortissime tradizioni culturali. In campo musicale direi ha il primato in Italia. A Napoli è nata la didattica musicale. I primi conservatori europei sono nati qui. Ma Napoli è cultura essa stessa, in quanto patrimonio urbanistico e storico dell'umanità. Fino ad oggi si è pensato che questa forza che ha il passato a Napoli fosse ostacolo alle avanguardie, oppure qualcuno ha pensato di imporre la contemporaneità per decreto (penso alle politiche di Bassolino e dei suoi esperti nelle arti visive). In realtà una grande capitale europea, che ha immensi scrigni di sapere e ricerca, grandi università, un ceto intellettuale importante non può prescindere dal suo passato ma neanche rinnegare presente e futuro. Dunque se Napoli riuscirà ad armonizzare tradizione e modernità vincerà la sua sfida e allontanerà definitivamente quell'alone di provincialismo, e di sudditanza psicologica che ancora inconsciamente caratterizza il suo immaginario di capitale di un regno sconfitto.
AAJ: Un ensemble come il vostro, per il tipo di repertorio che esegue, lavora sul passato (archivio della memoria) o piuttosto sul presente (quotidianità in tempo reale)?
E.D.: Considererei la risposta a questa domanda come un corollario della precedente. Se passato e presente devono convivere in una grande città, forse anche l'attività di un micro-soggetto sociale come è un ensemble, dovrebbe essere caratterizzata dall'armonico bilanciarsi di conservazione e innovazione. E non credo che questa politica significhi "dare un colpo al cerchio e uno alla botte". Significa fare uno sforzo ulteriore per comprendere il mondo. In questo senso devo anche dire qualcosa di me. Io mi occupo da sempre anche di musica antica. Non ho mai trovato problematico abbinare questo alla mia attività di esecutore di musica contemporanea.
AAJ: Siete tra i fondatori di R.iT.M.O. (Rete Italiana Musicisti Organizzati - organismo che unisce tutti i principali operatori nel settore delle musiche di sperimentazione). Pur non configurandosi nella forma di un archivio, qualche caratteristica simile sembra averla assunta. Ritenete la "rete" così come era stata concepita ancora utile e attuale e partecipe di quanto sta succedendo in Italia.
E.D.: La fondazione di R.It.M.O avvenne in un'indimenticabile giornata napoletana di qualche anno fa. E l'esperimento è continuato con la pubblicazione del Libro bianco sulla diffusione della musica contemporanea in Italia, un atto importante che ha fotografato una realtà complessa e articolata come quella italiana. Tuttavia la prima conseguenza della nascita della rete nazionale fu la scoperta dell'assenza delle reti locali. Emerse paradossalmente che spesso soggetti della stessa regione ed anche della stessa città intrattenevano rapporti di collaborazione con omologhi gruppi di altre città ma non con quelli dello stesso contesto di provenienza. Dunque probabilmente il passo da fare oggi è quello di collegare i soggetti che operano nello stesso territorio. Solo dal particolare il contesto generale può ricevere forza. Noi stiamo provando, con la nascita delle rete 'Namusica a fare un discorso di collaborazione tra gli ensemble napoletani, questa volta non necessariamente legati solo al repertorio contemporaneo. Le esigenze dei gruppi musicali sono comuni, al di là dei repertori. E mischiare un po' le carte fa bene a tutti.
AAJ: Vorrei chiudere questa intervista provando a tornare sulla "fotografia" fatta da Guido Barbieri, nel suo contributo "La casa (matta) della musica contemporanea italiana" (in: Libro bianco, pp. 383-386), riguardante la situazione degli ensemble in Italia. Proprio per il vostro "attivismo" nel creare la R.It.M.O e oggi Na'Musica come fotografereste oggi voi la situazione degli Ensemble in Italia?
E.D.: A me sembra che il panorama italiano degli ensemble di musica contemporanea sia estremamente interessante e di livello molto alto. Certamente, a livello di numeri, il nord (penso soprattutto a Milano e Torino) esprime il maggior numero di gruppi. Ma il sud forse possiede le realtà più eclettiche e che guardano in direzioni diverse; penso da questo punto di vista all'esperienza di Curva minore a Palermo, di Improvvisatore involontario a Catania e della nostra esperienza, che in un certo senso, rappresenta una sintesi tra la propensione alla esecuzione del repertorio scritto e quella verso la realizzazione di una cifra estetica che metta più al centro il lavoro degli interpreti. Forse in Italia ancora si guarda all'eclettismo con sospetto e quindi ad una visione della contemporaneità musicale ancora legata al concetto di "autore," "compositore," "editore," "commissione," che secondo me è ormai superata. O meglio. Si tratta solo di una delle visioni possibili.
Foto di Claudio Casanova (Marco Cappelli, Ciro Longobardi), Pagliuca (Tommaso Rossi).
Tags
Comments
PREVIOUS / NEXT
Support All About Jazz
