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Intervista a Zeno De Rossi

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Nonostante da piccolo percuotesse tutto quello che aveva sottomano, la folgorazione per la batteria arriva quando si accorge di non poter diventare il portiere dell'Inter (tra i suoi idoli trova posto anche il mitico Ivano Bordon ). E' stato tra i primi musicisti italiani ad avere contatti con il downtown newyorchese suonando più volte al Tonic, locale culto di quella scena. Attraverso la corposa produzione El Gallo Rojo sta animando come pochi una scena musicale spesso asfittica e omologata. Cita "l'Angelo Novus" di Paul Klee per spiegare la propria filosofia musicale e di vita. Questo e molto, molto altro emerge dall'incontro con Zeno De Rossi.

All About Jazz: Sei una delle presenze più assidue della musica creativa e trasversale e nel contempo si hanno pochissime informazioni sul tuo conto. Qualche nota biografica sparsa qua è la in rete e niente più. Puoi raccontarci la tua genesi di musicista e artista a tutto tondo ?

Zeno De Rossi: Fortunatamente, sono cresciuto in una famiglia dove si ascoltava parecchia musica. Mio padre in gioventù suonava il contrabbasso ed era un appassionato di jazz: dalla sua collezione ho potuto ascoltare dischi come Complete Communion di Don Cherry, Kulu Se Mama di Coltrane, Right Now di Mingus, Bitches Brew di Davis, ma anche Frank Sinatra, Little Richard, Rufus Thomas e Solomon Burke che ricordo in una collezione di cento vinili della Curcio editore sulla storia del rock. I miei fratelli maggiori ascoltavano parecchio prog e rock inglese, Led Zeppelin, Genesis, Jethro Tull, Yes, Pink Floyd; mio fratello Alessandro, in particolare, che si dilettava con le percussioni, era molto interessato alla musica cubana, per cui anche musicisti come Irakere o Carlos Patato Valdez mi sono stati familiari. Poi, ovviamente, c'era tutta la musica della mia adolescenza, i famigerati anni '80, nella quale preferivo gruppi come Talk Talk, Police, Style Council e una miriade di altri gruppi che sarebbe meglio non ricordare.

AAJ: E la folgorazione per la batteria?

Z.D.R.: Ho sempre avuto un impulso primordiale a percuotere ogni cosa mi capitasse sotto mano (sedie, pentole, divani, gatti...), ma in realtà mi sono avvicinato alla batteria solo verso i tredici anni, in sostanza quando ho capito che non sarei mai potuto diventare il portiere dell'Inter... Abitavamo in un condominio in pieno centro, per cui non era immaginabile tenere una batteria in casa. Un giorno, un amico di mio fratello lasciò in custodia la sua batteria nella nostra cantina, così un pomeriggio, mentre ero solo in casa, decisi di scendere a recuperarla. Dopo aver affrontato cinque piani di scale senza ascensore e averla montata non saprei dire come, iniziai a strimpellare, ma immediatamente le urla dei vicini coprirono i suoni dello strumento.

Il primo gruppo formato con degli amici risale a quel periodo: nessuno di noi aveva mai preso in mano uno strumento, ma più che il sacro fuoco dell'arte, probabilmente fu la focosità adolescenziale con l'intento di far colpo sulle ragazze la molla principale per quella iniziativa. I risultati furono scarsi nell'uno e nell'altro campo. Ciò nonostante iniziammo ad applicarci sul serio, tanto da organizzare persino una sala prove nella mansarda del sassofonista: per l'occasione rubammo da un cantiere una serie di pannelli isolanti facendo un gran lavoro di insonorizzazione, scoprendo solo più tardi che il materiale trafugato era un isolante termico e non acustico, con il risultato di raggiungere temperature tropicali nelle dure prove del sabato pomeriggio e disturbare comunque tutto il vicinato!

AAJ: E da lì al jazz...

Z.D.R.: Al jazz mi sono avvicinato volontariamente e come spesso accade sono partito dai contemporanei per poi arrivare, con un percorso a ritroso, ai padri. Pat Metheny, ad esempio, era uno dei miei artisti preferiti quando avevo diciassette anni ed e' stato grazie a lui che mi sono poi accostato ad Ornette Coleman, con quel capolavoro che e' Song X. Poi ho scoperto la musica di Bill Frisell e la mia vita è cambiata: sono stato letteralmente folgorato da Lookout for Hope, da Before We Were Born e da tutti i suoi lavori successivi. Senza dimenticare i Miniature: nel 1992, pochi giorni prima di partire per il servizio militare, tennero un concerto all'Università di Verona, fu lì che conobbi per la prima volta Joey Baron (gli prestai addirittura la batteria, per l'occasione), Hank Roberts e Tim Berne. Queste conoscenze, questa musica, sono state per me fondamentali.

Nello stesso periodo ho iniziato a suonare jazz nei club cittadini ed ho avuto la fortuna di farlo con musicisti più esperti e preparati di quanto non lo fossi io. Tra questi ci tengo a citare Enrico Terragnoli, un musicista straordinario ed un grande amico con il quale collaboro da allora in vari progetti, e Francesco Bearzatti che ho ritrovato nel suo splendido Tinissima, dopo qualche anno in cui ci eravamo persi di vista. Con loro due nel 1995 ho formato il Kaiser Lupowitz Trio, un gruppo che guardava certamente verso New York e proprio lì, nel 1998, abbiamo registrato il nostro secondo disco You Don't!. Inoltre sono stato influenzato da tutti i batteristi che suonavano in quegli anni in città, come Riccardo Biancoli, Bobo Facchinetti (un maestro con le spazzole) e Sbibu (che mi ha aiutato molto dandomi una miriade di consigli).

AAJ: Il Downtown newyorchese ha quindi segnato in qualche modo il tuo percorso artistico...

Z.D.R.: Tramite musicisti come Bill Frisell, Tim Berne, John Zorn e Wayne Horvitz, ho iniziato ad interessarmi a tutta la musica di un certo tipo che si suonava a New York in quegli anni. Ho sentito da subito un'attrazione per quell'approccio trasversale e per quella particolare energia, l'energia che solo una città del genere può dare. Dal mio punto di vista e' stata una stagione davvero particolare che, tra la fine degli anni '80 e la prima metà dei '90, ha fatto emergere attorno al Knitting Factory e al Tonic, una miriade di musicisti e gruppi eccezionali come Dave Douglas, Don Byron, Soul Coughing, Thomas Chapin, Chris Speed, Sex Mob, Masada etc. Ho frequentato molto quei posti, soprattutto il Tonic, dove ho avuto la fortuna di suonare più volte e conoscere parecchi apprezzati musicisti. Con alcuni di loro ho iniziato varie collaborazioni che sono state e sono tuttora fondamentali per il mio percorso umano e artistico. Tra tutte queste vorrei citare quella con Chris Speed, grande amico e straordinario musicista.

AAJ: Le tue vicende artistiche e personali sono strettamente legate al collettivo El Gallo Rojo. Quale è lo stato di salute dell'etichetta? E quelle della musica in generale in Italia?

Z.D.R.: El Gallo Rojo e' uno straordinario esempio di come si possa pensare collettivamente la musica. S ono orgoglioso di far parte di questo gruppo di visionari che si autofinanziano e che in soli cinque anni hanno fatto uscire più di quaranta dischi.bPersino un artista del calibro di Franco D'Andrea ha sposato la nostra causa con entusiasmo dando un forte segnale "politico," dimostrando che non è sempre del tutto valida l'equazione "grande nome = grande etichetta". A febbraio uscirà il suo nuovo disco Sorapis sempre con il quartetto di cui faccio parte, cui seguirà un tour per celebrare i suoi settanta anni che vedrà la presenza di Dave Douglas come ospite.

Per quanto riguarda lo stato attuale della musica in Italia direi che la questione e' piuttosto delicata: esistono fortunatamente delle isole felici, ma generalmente credo che le prospettive non siano alquanto rosee. Ho la fortuna di girare parecchio e posso dire che in paesi come Francia, Belgio, ma più in generale nel nord Europa, le cose sembrano funzionare diversamente e meglio che in Italia. Perché è stata fatta nel corso degli anni una politica positiva nei confronti della cultura, il pubblico e' curioso ed abituato ad uscire a sentire musica, anche se si tratta di ascoltare qualcuno che non hanno mai sentito nominare. Questo comporta delle programmazioni più interessanti e rischiose all'interno dei vari festival, e non solo i soliti nomi, come invece accade da noi. Ma in fondo e' inutile stupirsi di quanta poca considerazione goda la cultura in Italia, basti pensare a chi rappresenta il Ministero della Cultura oggi... Inoltre mi piacerebbe vedere più musicisti ai concerti e preferirei che si aprissero più club e meno scuole di musica, perché credo ancora che questa forma d'arte chiamata jazz si apprenda meglio dal contatto diretto con i musicisti.

AAJ: E' vero, nel mondo incerto che ruota intorno al jazz, un dato certo è l'assenza di musicisti ai concerti dei propri colleghi. Come spieghi questo atteggiamento assai diffuso?

Z.D.R.: Quando ero giovane, l'unico modo per avere accesso diretto alla musica era quello di andare a vedere il maggior numero di concerti possibile e di ascoltare parecchi dischi. I tempi sono sensibilmente cambiati; credo che il fatto di avere a portata di mano qualsiasi tipo di informazione senza uscire dalle mura della propria casa abbia impigrito molti giovani. L'esperienza diretta di un concerto, magari in un piccolo club, per me e' ancora il modo migliore per tentare di apprendere questa forma d'arte. Per quanto riguarda invece i colleghi, non saprei. Posso solo dirti che qualche settimana fa ho suonato a Parigi con il gruppo di Francesco Bearzatti e tra il pubblico c'erano parecchi musicisti affermati come Henri Texier ed Emmanuel Bex, non certo gli ultimi arrivati. Questo da noi, con qualche eccezione, capita raramente.

AAJ: Incarni una figura di batterista storicamente piuttosto rara, quella che affianca al musicista assai ricercato, il leader di numerosi progetti individuali. Puoi spiegare come riesci a muoverti all'interno di questa tua differenziata attività artistica?

Z.D.R.: Con seri problemi di schizofrenia... Mi piacerebbe avere il tempo e la possibilità di suonare con tutti i musicisti che mi piacciono e se dovessi assecondare il mio istinto, formerei un gruppo nuovo ogni settimana. Il progetto Shtik in un certo senso soddisfa in parte questa mia esigenza, ma essere veramente un "leader" e' un lavoro estremamente faticoso. Non mi riconosco molto in quella parola, mi definirei piuttosto un "ideatore di progetti".

AAJ: Musica klezmer (Meshuge Klezmer Band), il jazz ai più alti livelli (Franco D'Andrea, Enrico Rava), il fantastico country-acid-rock di Guano Padano per citarne alcune... qual è la vera anima di Zeno De Rossi?

Z.D.R.: In ognuno dei gruppi che hai citato ho la possibilità di esprimere me stesso e di trasmettere il mio background, costruito in parecchi anni di ascolto onnivoro. Rispetto ai vari gruppi, poi, non trovo una grande differenza di approccio: quello che cerco di fare e' di mettermi al servizio della musica e di fare, come meglio posso e nel modo più personale, quello che la musica richiede in quel momento.

AAJ: Fai parte da anni della band di Vinicio Capossela, c'è qualche aspetto di questa esperienza nel mondo del rock d'autore che hai trovato particolarmente interessante e stimolante ?

Z.D.R.: La collaborazione con Vinicio mi ha dato la possibilità di suonare quasi in tutto il mondo, spesso in strutture e festival particolarmente prestigiosi e suggestivi, sempre di fronte ad un pubblico numerosissimo. L'impatto emotivo e' decisamente diverso da quello a cui sono abituato nel contesto jazzistico, una sua grande dote infatti e' la capacità di coinvolgere gli spettatori in maniera sorprendente, facendoli sentire parte integrante dello spettacolo. Devo dire che e' un esperienza che mi ha arricchito molto, grazie a lui ho avuto modo di avvicinarmi a molti artisti in cui difficilmente mi sarei imbattuto, penso ad esempio a Chavela Vargas, Matteo Salvatore, insomma ad un certo tipo di canzone popolare che amo molto.

AAJ: Ultimamente Shelly Manne sembra aver recuperato un interesse che per quei strani accadimenti della storia della musica jazz era andato quasi completamente perduto. Roberto Gatto (Remembering Shelly) e Fabio Jegher (Warm Feelings (remembering Shelly)) lo hanno omaggiato con un disco. Tu addirittura con un doppio CD, The Manne I Love. Ci puoi raccontare la genesi e la realizzazione di questo progetto?

Z.D.R.: La mia folgorazione per Shelly Manne e' avvenuta parecchi anni fa. Mi trovavo a Firenze e la mia amica Letizia Renzini, sapendo del mio interesse per la musica ebraica, mi fece sentire un vinile aveva appena preso a New York in un mercatino: Shelly Manne, My Son the Jazz Drummer. In quel disco Manne affrontava, con un gruppo di fuoriclasse tra i quali Victor Feldman e Teddy Edwards, vari brani della tradizione ebraica arrangiati però in chiave jazz. Rimasi letteralmente colpito e copiai immediatamente il disco su una cassetta, riuscendo solo qualche anno più tardi a trovarlo in vinile e in CD nella ristampa dal titolo Steps to the Desert. Qualche tempo dopo capitai a Livorno nella taverna di Mauro Liperini, un vero appassionato di jazz che purtroppo ci ha lasciati da qualche anno. Nel suo locale stracolmo di vinili ascoltai due dischi, nuovi per me, di Manne che aumentarono la mia passione: The Three and The Two e 2-3-4. Entrambi i dischi contengono, tra l'altro, delle improvvisazioni estemporanee piuttosto inusuali per il periodo in cui sono stati registrati.

Il primo dei due in particolare, diviso in due parti, presenta delle formazioni fuori dal comune per l'epoca (1954), da una parte un trio composto da Manne, Shorty Rogers e Jimmy Giuffre' (batteria, tromba e ance) e dall'altra Manne in duo con Russ Freeman al piano. Già nel primo disco di Shtik intitolato Me'or Einayim avevo affrontato qualche brano tratto appunto da My Son the Jazz Drummer e ha cominciato allora a balenarmi l'idea di dedicare un intero lavoro alla figura di Shelly Manne. Mi sono documentato molto, passando gli ultimi anni ad ascoltare parecchio materiale dalla sua sterminata discografia. Alla fine, ho scelto i brani ai quali mi sentivo più legato, cercando di dare un impronta cinematografica al disco, tracciando una sorta di biografia.

AAJ: Hai definito The Manne I Love un atto d'amore verso un grande batterista, compositore e band leader. Oltre a questo, a noi sembra anche una sorta di stato dell'arte della tua visione musicale, con gli amori, le passioni, le influenze che hanno scandito il tuo percorso, il tutto con il marchio chiaro di El Gallo Rojo...

Z.D.R.: Questa e' proprio l'idea che sta alla base del progetto Shtik, nato originariamente per unire la mia passione per la musica ebraica e per il jazz, coinvolgendo i musicisti con cui amo suonare. Certamente un'operazione che scava nel mio passato per recuperare melodie, memorie personali e suggestioni... C'e' una citazione di Walter Benjamin riferita ad un quadro di Paul Klee che rende perfettamente l'idea di quale sia il mio approccio alla musica, ma più in generale alla vita:

"C'è un quadro di Klee che s'intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta".

W. Benjamin, Angelus novus, Einaudi, 1962, pp. 76-77

AAJ: Cosa frulla attualmente nella testa di Zeno De Rossi ?

Z.D.R.: Mi piacerebbe trovare il modo di portare in giro il mio gruppo con una certa frequenza. Abbiamo fatto qualche concerto di presentazione del disco con una formazione in quintetto per cui abbiamo adattato gran parte del repertorio ed i risultati sono stati davvero positivi. Se qualche promoter fosse interessato, noi siamo pronti...

Foto di Claudio Casanova.

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