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Intervista a Herb Geller

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All'età di 81 anni Herb Geller è in piena attività ed il suo stile creativo, variopinto e luminoso, è inossidabile al trascorrere del tempo: sembra voler ripercorrere le orme del suo primo modello, Benny Carter, in gran forma ben oltre i novant'anni.

La sua biografia è esemplare, come lo è quella di un grande protagonista della storia del jazz che ha attraversato e reinterpretato con personalità almeno tre scuole: il Be-Bop, il West Coast Jazz e l'Hard Bop.

Il suo nome resta associato alle celebri incisioni del 1954 con l'ottetto Clifford Brown-Max Roach e nella California di quel decennio collaborò con i protagonisti del West Coast Jazz: da Shorty Rogers a Howard Rumsey, da Shelly Manne a Chet Baker, da Bill Holman a Maynard Ferguson.

Dopo la morte della prima moglie Lorraine nel 1958, Geller tornò a New York dove guidò il suo ensemble più importante, il sestetto con Scott LaFaro (Gypsy, 1959). Dai primi anni sessanta la sua carriera si è svolta principalmente in Europa: in orchestre tedesche, in collaborazioni con Friedrich Gulda (1965-66), Peter Herbolzheimer (1970-79), Jan Lundgren (1994) e con propri gruppi.

All About Jazz: Negli ultimi anni Lei ha registrato in Germania una decina di dischi come leader e un lavoro in Italia per la Soul Note, nel nuovo organico Herb Geller & Roberto Magris Europlane Quintet.

Come è nata la collaborazione col pianista triestino?

Herb Geller: Roberto mi ha contattato nel 2003, invitandomi a Trieste per registrare il CD Il bello del jazz ma la collaborazione non s'è fermata lì. Da allora abbiano suonato in vari concerti: ad Ancona Jazz, al JazzTime Rijeka in Croazia, a Padova Jazz e in un breve tour italiano. Saremo il 19 novembre al festival di Novi Sad in Serbia e al Porgy & Bess di Vienna in dicembre. Per me è un'esperienza particolarmente felice suonare con Roberto, con il sassofonista Denis Razumovic, il contrabbassista Nikola Matosic e il batterista Enzo Carpentieri.

Se tutto va bene ci sarà anche un prossimo disco.

AAJ: Il suo ultimo disco è dedicato alle composizioni di Arthur Schwartz. Un autore importante ma poco noto. Com'è nata l'idea?

H.G.: Quel CD è nato dietro suggerimento di Alastair Robertson, per la sua etichetta Hep Records. Mi trovavo in tour in Gran Bretagna e sono stato fortunato a poter incidere con la mia formazione di allora, comprendente il pianista John Pearce, il bassista Len Skeat e il batterista Bobby Worth. Ho sempre raccolto le canzoni dei grandi songwriter americani come Cole Porter, Irving Berlin, Jerome Kern, Harold Arlen, Jimmy Van Heusen eccetera ed ho raccolto circa tremila pezzi nel mio hard disk comprendenti testi e armonie. Arthur Schwartz è stato uno dei miei autori preferiti anche se purtroppo non ha raggiunto la popolarità degli altri.

AAJ: Benny Carter è stato molto importante nella sua formazione. Cosa ricorda di lui?

H.G. Benny Carter ha rappresentato qualcosa di veramente speciale per me. L'ho ascoltato per la prima volta in un teatro di Los Angeles quando avevo 14 anni e fu allora che decisi di diventare un musicista professionista. Divenimmo amici quando mi trovai ad incidere con lui in un long playing di Quincy Jones negli anni cinquanta. Poi ci siamo ritrovati altre volte: abbiamo registrato assieme nel 1988 a New York, suonato in un festival ad Helsinki e partecipato al concerto celebrativo per i suoi 90 anni. Ogni volta che sono tornato a Los Angeles sono andato a trascorrere un po' di tempo con lui e sua moglie.

AAJ: Oltre a quella di Benny Carter ha avuto altre influenze significative?

H.G.: Si, Johnny Hodges... ma negli anni quaranta Charlie Parker ha rappresentato per me un modello importantissimo.

AAJ: Quando ha suonato per la prima volta in Europa?

H.G.: La prima volta fu nel 1962 quando mi venne offerto di suonare con la SFB Orchestra di Berlino Ovest. Tre anni dopo ebbi la proposta di una scrittura stabile nella NDR Orchestra di Amburgo, dove sono rimasto fino al mio 65° compleanno, quando sono andato in pensione. Nei 15 anni che sono trascorsi da allora ho suonato regolarmente in Europa e negli Stati Uniti.

AAJ: Lei ha lavorato per un certo periodo nell'orchestra di Claude Thornill. C'era anche Gil Evans?

H.G.: Ho suonato nell'orchestra di Thornill tra il 1950 e il 1951. È stata una straordinaria esperienza per me. Si c'era Gil Evans e scriveva occasionalmente qualche arrangiamento, provandolo poi con tutta l'orchestra.

AAJ.: Poco tempo dopo Lei ha lasciato New York per trasferirsi in California...

H.G.: Mi sono trasferito a Los Angeles nel 1952 perché c'erano parecchie opportunità di registrare stando lì. La musica fu etichettata come West Coast e Cool per evidenziare una differenza con le session di New York ma ironicamente la gran parte dei musicisti di quel movimento erano originari della costa orientale. Ho suonato spesso con i musicisti che orbitavano attorno al Lighthouse e lì ho incontrato la mia prima moglie Lorraine che era pianista stabile in quel locale insieme a Max Roach ed altri.

AAJ: In quegli anni Los Angeles fu anche la culla per le prime esperienze di molti innovatori della comunità afro-americana, come Eric Dolphy e Charles Mingus...

H.G.: Ho frequentato la scuola superiore con Eric Dolphy ed eravamo amici stretti ma allora non ho conosciuto Mingus.

AAJ: Per restare nell'ambito dei musicisti neri, è vero che ha suonato con l'orchestra di Roy Porter?

H.G.: Si ma non molto. Con quella formazione ho svolto alcune prove e ci siamo poi esibiti in concerto.

AAJ: Nel 1954 ha partecipato a famose registrazioni con Clifford Brown. Cosa ricorda del trombettista e di quella session?

H.G.: Mi ritengo molto fortunato di aver potuto suonare con Clifford Brown, che era anche un mio buon amico. Io, Clifford e Max Roach avevamo tutti un contratto con la Mercury e così registrammo assieme in alcune session con Dinah Washington, Maynard Ferguson e Clark Terry. Clifford resta il mio trombettista preferito e di lui voglio ricordare anche le doti umane: era una persona magnifica.

AAJ: Uno dei suoi gruppi migliori è stato il sestetto comprendente Thad, Elvin Jones e Scott LaFaro. Cosa ricorda di quel grande bassista? È vero che fu Lei a presentarlo a Bill Evans?

H.G.: Scott era un carissimo amico e visse a casa mia per alcune settimane mentre era alla ricerca di un appartamento a Los Angeles. Più tardi lo raccomandai a Benny Goodman che stava organizzando un tour della sua band, di cui anch'io facevo parte. Scott voleva lasciare la California per stabilirsi a New York e l'ingaggio andava nella giusta direzione.

La notte prima di partire andammo a sentire Bill Evans in un locale, io li presentai e Bill chiese a Scott di unirsi a lui nel secondo set. Nei giorni successivi, quand'eravamo già in tour, Scott ricevette un telegramma da Bill Evans che gli proponeva di unirsi a lui.

AAJ: Restiamo ai primi anni sessanta. In tour con Goodman Lei si recò anche in Sud America e per qualche tempo decise di fermarsi in Brasile proprio nel momento in cui nasceva la bossa nova...

H.G.: L'ultimo concerto con Goodman fu a San Paolo. In quei giorni avevo conosciuto un pianista che era anche proprietario di un night club e mi propose di restare per far parte del suo combo. Così quando l'orchestra di Benny tornò a New York io rimasi in Brasile per sei settimane dove ebbi modo di conoscere e suonare brani come "Desafinado" e "One Note Samba" che diverranno famosi più tardi, dopo che Stan Getz li incise.

Successivamente mi fu offerta la scrittura nell'orchestra di Berlino Ovest di cui ho detto e lì conobbi la mia attuale moglie.

AAJ: Che progetti ha per il prossimo anno?

H.G.: Spero di continuare a suonare tanto a lungo quanto la salute me lo consente.

Foto di Michele Giotto

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