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Intervista a Giorgio Gaslini

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Il 22 ottobre 2009 Giorgio Gaslini ha compiuto ottant'anni.

Per l'occasione il festival Parma Jazz Frontiere gli ha dedicato la serata del 29 novembre, facendo eseguire sue composizioni da un tentetto di suoi collaboratori di ieri e di oggi, fra i quali Gianluigi Trovesi, Roberto Ottaviano e Roberto Dani, sotto la dinamica direzione di Roberto Bonati.

Sia pure in leggero ritardo, anche AAJ intende tributare un omaggio al Maestro milanese, ponendo la dovuta attenzione sui multiformi aspetti della sua attività. Oltre a ripubblicare, nella rubrica Déjà lu, parte del suo fondamentale saggio "Il tempo del musicista totale" e a recensire il libro di Davide Ielmini "Giorgio Gaslini. L'uomo, l'interprete, il compositore. La musica raccontata da una voce 'fuori dal coro,'" (Zecchini Editore, 2009), e il CD Adiantum, (Velut Luna, 2009) si è voluto raccogliere una mirata intervista.

Credendo di interpretare la volontà dello stesso Gaslini, personaggio autentico e musicista con una sterminata esperienza alle spalle, ma idealmente proiettato sempre verso il futuro, ho cercato di sondare prevalentemente la sua posizione critica nei confronti di temi che rivestono un'importanza centrale nell'attività creativa di un musicista europeo. Per un musicista completo come Gaslini, entrato ormai nella storia, è infatti possibile rintracciare notizie di carattere biografico o riguardanti le sue collaborazioni/produzioni del passato in innumerevoli altre fonti, anche recenti, che spaziano dalle enciclopedie alle discografie specialistiche, dai libri alle recensioni...

All About Jazz: In più di un'occasione, anche negli ultimi anni, hai espresso la tua opinione sulle critiche che Theodor Adorno (1903-1969) rivolse al jazz. Ma se si pensa a un certo "jazz," come comunemente inteso e divulgato dagli anni Trenta fino ad oggi, un jazz ritualmente ripetitivo, comunicativo in quanto ripropone cliché riconoscibili a un suo pubblico di fan intellettualmente pigri e poco critici, non ti pare che l'analisi di Adorno, sia pure di parte e con secondi fini (in quanto mirata indirettamente a stimolare l'avanguardia della musica colta), possa avere una parte di verità, soprattutto per chi crede in un'evoluzione consapevole e creativa del jazz?

Giorgio Gaslini: Adorno come è noto è stato esponente di primo piano della scuola filosofica di Francoforte (accanto a grandi pensatori quali Horkheimer, Benjamin, Marcuse, Fromm) orientata verso una teoria critica della società. Adorno portò, nel quadro di questa ricerca fatta di apporti pluridisciplinari, la sua conoscenza della musica, lui già allievo di Alban Berg, lui idolatra di Schönberg, quindi immerso nella scuola di Vienna e nel modo della serialità dodecafonica, vicino col suo apporto musicologico a Thomas Mann durante la stesura del libro capolavoro "Doctor Faust".

L'influenza delle teorie critiche di Adorno espresse con libri epocali ha investito intere generazioni di musicisti e compositori specie dagli anni Cinquanta in poi. Va da sé che la sua stigmatizzazione del jazz come musica "commerciale" ha tenuto lontano in Italia tre generazioni di compositori dal jazz.

Adorno del jazz aveva colto solo l'aspetto della bassa routine basata sull'elementare forma A-B-A, ovvero tema, improvvisazione e ripetizione finale del tema. Per "tema" naturalmente intendeva la canzone americana dei Musical e dei film di Hollywood.

Il Jazz oggi ha più di un secolo di evoluzione e nessuno mette più in discussione che si tratti di un importante fenomeno artistico del nostro tempo. Ma il jazz ha avuto ed ha molte anime e se si prende in considerazione soltanto quella sbrigativa dell'intrattenimento allora si dà adito a qualche giudizio critico pesante. Tuttavia un grande pensatore avrebbe l'obbligo di considerare il fenomeno nella sua totalità e complessità. Forse, ad esempio, può anche dimenticare che Schönberg e Gershwin in America siano stati amici con profonda stima reciproca?

AAJ: Se ci concediamo una sintesi un po' riduttiva, secondo te in cosa si differenzia maggiormente il jazz europeo degli ultimi cinquant'anni da quello americano? Ci sono caratteristiche esclusivamente e tipicamente europee?

G.G.: L'evoluzione della musica jazz nel corso del tempo dalle origini sino ad oggi si è svolta su due linee portanti: la genialità dei solisti (l'improvvisazione) e il genio dei compositori (la pagina scritta). Ellington aveva subito capito che inglobare l'improvvisazione nella forma compositiva era la grande soluzione. E così è stato. Come è stata importante per l'evoluzione la figura dell'autore-esecutore. L'autore-esecutore ha espresso idee-forza, che hanno influenzato a volte l'intero mondo del jazz. Dall'America l'ultima grande idea-forza evolutiva è stata quella di Ornette Coleman con il free jazz. Poi sino ad oggi, solo eccellenti solisti che hanno proposto riletture della storia.

In coincidenza con questo periodo di vuoto di idee-forza, ormai cinquant'anni, la ricerca di un manipolo di valentissimi europei (un'area circoscritta a Inghilterra, Olanda, Germania e Italia) ha sfociato nelle prassi della "improvvisazione collettiva" e individuale più recentemente connotandosi come "composizione istantanea". Le matrici di questo movimento sono specificamente quelle di una cultura musicale e in generale estetica risalenti ai grandi compositori del Novecento, ai pittori, ai poeti, ai filosofi, ai corsi storici e ideologici, all'esistenzialismo, al cinema europeo, al cabaret.

Questo enorme mare di energie-guida è del tutto differente dalla base di partenza del gesto musicale americano. A mio avviso, questo momento musicale europeo ha dato i segnali più importanti e innovativi al jazz degli ultimi decenni.

AAJ: In particolare, secondo la tua esperienza, il mondo del jazz italiano nel suo complesso (musicisti, organizzatori, pubblico, critici...) come è cambiato dagli anni Cinquanta ad oggi? Cosa e quanto in meglio, cosa in peggio?

G.G.: Il mondo del jazz italiano oggi si è assestato sulla piattaforma bebop con qualche guizzo solistico. In fondo, chi fa opinione critica e tira le fila del mercato è tendenzialmente reazionario. Forse i tempi politici non favoriscono segnali evolutivi. Tuttavia la storia non si cancella e per tanti di noi si evolve lo stesso.

AAJ: Nel panorama italiano, il lavoro di un altro musicista milanese, di cinque anni più giovane di te, Enrico Intra, anch'egli oscillante fra jazz e musica colta, presenta qualche analogia con la tua produzione. Fra di voi ci sono stati contatti di lavoro, incontri, espressioni di stima.... oppure le vostre vie non si sono mai incrociate?

G.G.: Intra è stato ed è un ottimo esponente dello stile cool jazz. A partire dagli anni Cinquanta, specie dopo il mio Tempo e Relazione il corso delle cose del jazz in Italia cambiò. Intra è stato ed è un musicista informato e interessato a tutte le mie opere anche con spirito di emulazione. Quindi non sono mancate occasioni di incontro e qualche anno fa anche qualche concerto in duo pianistico. È vero, è un po'di tempo che lui "oscilla" fra jazz e musica colta.

AAJ: Dopo "Il manifesto di Musica Totale" (1964) e il trattato "Musica Totale" (1975), nel 2001 per i tipi della Baldini&Castoldi hai pubblicato "Il tempo del Musicista Totale," che in parte riproponiamo su AAJ. In poche parole che caratteristiche deve possedere un musicista per essere "totale"?

G.G.: È l'apertura su tutta la musica e su tutte le musiche, una predisposizione della mente. È, nell'azione creativa o in quella interpretativa, una tendenza sincretica, l'esatto opposto della tendenza alla molteplicità eclettica, all'oscillazione tra un campo e l'altro.

AAJ: A che punto è la riedizione integrale su CD della tua discografia storica da parte della Soul Note?

G.G.: La Soul Note è recentemente stata acquistata dalla CAM che sta preparando un forte seguito dell'antologia integrale, attualmente già realizzata per il periodo dal 1948 al 1974. Proseguirà.

AAJ: Nel CD Gaslini sinfonico-Blues Symphony, edito nel 2008 da Velut Luna, in particolare in "Blues Symphony," "Moto velocetto perpetuo" e "Interno intorno," trovo un'ariosità narrativa tipicamente americana, quasi una tua personale sintesi di un percorso che da Charles Ives arriva a John Adams, attraverso Leonard Bernstein ed altri. Sei d'accordo?

G.G.: L'opera di Charles Ives è da molto tempo parte dei miei interessi musicali. Così quella di Bernstein (che ho anche incontrato personalmente). Adams mi diverte, mi sembra un autore molto avanti, "oltre" tutti i problemi delle ultime due generazioni di compositori "adorniani". Ives, Copland, Gershwin, Bernstein e Stravinsky sono miei compagni di viaggio amatissimi.

AAJ: Il tuo è un lavoro ancora in fieri, sia pure basato coerentemente su principi incrollabili. Quale bilancio, in estrema sintesi, puoi trarre oggi del tuo lavoro multiforme, soprattutto in funzione degli sviluppi che prevedi per il futuro?

G.G.: È sempre presente in me la dimensione del percorso. Quindi cerco di portare "avanti," sulla piattaforma del "già compiuto" ciò che è da compiere. Ho lavorato molto, in questi ultimi anni, sul versante sinfonico e cameristico parallelamente a quello del jazz e continuerò, spero, sino a che potrò, con questo tipo di "totalità".

AAJ: Per quanto riguarda la tua attività nell'immediato futuro, quali sono i tuoi progetti compositivi, concertistici, discografici?

G.G.: Lascio che le intuizioni prendano corpo dentro di me, poi ci lavoro per farle vivere. Ciò mi porta a parlarne, e chiedo scusa, soltanto quando sono oggettivamente e concretamente compiute.

AAJ: Anche Lawrence Butch Morris guarda al futuro per affrontare sempre nuove esperienze col suo sistema di Conduction. Quali autori della contemporaneità conosci ed ammiri? Quali esperienze attuali, afroamericane o europee o orientali, jazzistiche o "colte," senti vicine alla tua concezione musicale?

G.G.: Nel campo del jazz ciò che oggi proviene dall'America mi sembra multiforme e dispersivo, in assenza di una "idea forte" di riferimento. Di certo però c'è tanto virtuosismo e tanta maestria. L'Europa sembra aver concluso la grande stagione, dagli anni Cinquanta a oggi, che tanto ha dato all'evoluzione del linguaggio jazzistitico. Sono molto interessato tuttavia a due grandi "sopravvissuti" quali John Surman e Evan Parker.

Le oltre sessanta nazioni nelle quali ho tenuto concerti sono per me una miniera di arricchimento conoscitivo e di azione musicale. In particolare l'esperienza cinese, quella indiana, quella birmana e quella africana. Nel campo "colto" conclusa la grande stagione post-Weberniana e radicale sento il "sopravvissuto" Andriessen con interesse per il suo estroso e spesso riuscito sforzo di uscire dalla "gabbia" settoriale (sarà un caso, ma ha studiato anche il jazz in America). Dall'America sia Adams che Torke.

AAJ: Pensi che in futuro sarà ancora possibile parlare di jazz? Se sì, per quali motivi, per quali inalienabili elementi costitutivi?

G.G.: Lo sappiamo: il jazz è un linguaggio ancor ricco di possibilità evolutive. Ha più di un'anima. Quelle che nella sua storia sono state più frequentate sono quella dell'intrattenimento divertente, quella del lirismo e quella dell'impegno. Il Jazz, penso, continuerà su questi tre fronti, ma soltanto da un nuovo tipo di impegno potrà riacquistare significazione e ascolto.

Foto di Roberto Cifarelli (la quinta) e Luciano Rossetti (la prima, la sesta, l'ottava)

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