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Intervista a David Tronzo (parte quarta)
ByBeh, è bastata un'ora e il pubblico era in delirio. E alla fine ci hanno detto "tornerete, vero?" e io ho risposto "Certo!," e due settimane dopo sono tornato per due concerti in "solo".
All About Jazz: Vorrei parlare con te di distribuzione e gestione della propria carriera...
David Tronzo: Ok, va bene! Insomma, a questo punto avrai capito che sia adesso, sia quando ero ad Amsterdam, e prima ancora quando ero a New York, mi sveglio ogni mattina con tre obiettivi in testa: primo, lavorare sulle proprie idee musicali, e così se ne vanno via un bel numero di ore a scrivere e suonare; secondo, passare 4 o 5 ore al telefono o di fronte al computer per ottenere degli ingaggi per la settimana ventura, per il mese successivo, eccetera: dietro l'angolo, o a Boston, o chissà dove. Questo vale per me e per tutti i musicisti che ho citato. Ed è durissima occuparsene da soli, e che io sappia nessuno di noi si concede il lusso di avere un manager. Terzo, pagare le bollette del giorno... e qui può anche andarti bene, così puoi dedicare l'intera giornata alla musica. E in quel caso lavori comunque 16 ore al giorno. Ogni giorno, per 7 giorni alla settimana. E ormai lo faccio da 30 anni - 16 ore di media, ogni giorno!
AAJ: Beh, allora un doppio grazie per essere qui con noi adesso [ride]
D.T.: ...[ride] Quel che voglio dire è che ogni musicista ha due pensieri fissi: "organizzare i propri concerti, e i propri dischi". Siamo sempre lì a dirci "oh, hai sentito di questo e di quello". J. A. dice "ora mollo tutto e metto in piedi la mia etichetta," e fa sul serio, Peter dice "Oh, non fa per me, comincerò ad insegnare." Altri dicono "mi sono stufato di fare il leader, meglio essere un sideman, è più facile. Altri penseranno al disco e io ne farò parte comunque." Questi ragazzi sono più visibili di noi, dato che qualche volta ti trovi a dire "oh, ti ho visto su questo o su quel disco." Io non sono apparso su un disco di chicchessia che avesse avuto una circolazione nazionale da... boh, credo che l'ultimo fosse di John Cale. Sì, proprio lui!
AAJ: Ma una volta in una intervista Bobby Previte ha affermato che le incertezze e le avversità proprie della scena musicale di New York, che è molto competitiva, sono anche i motivi che la rendono così interessante. Ha detto "questi Europei, con tutte le loro certezze, fanno solo cose noiose..."
D.T.: Innanzi tutto, non sono d'accordo con la sua visione del panorama musicale Europeo. Vedo un sacco di progetti che mi lasciano di stucco. Anche quando gli intenditori Europei restano tiepidi, io riesco comunque a trovare qualcosa di sorprendente. E so per esperienza che noi arriviamo da un background molto diverso. Sai, quando sono negli States sento di essere intimamente connesso a qualcosa che non saprei spiegare. È una consapevolezza che ritrovi in tutto ciò che sai, legata al perché faccio quel che faccio. Le cose che faccio si riflettono nel modo di vivere gli States, ed è per questo che la cosa ha senso. Ogni volta che viaggio mi ritrovo quasi a vivere un esperienza extracorporea. Per molti è una cosa troppo Americana, non abbastanza forte, non abbastanza intima...
AAJ: Non c'è swing...
D.T.: Ecco, esatto. E mi dico "se vivi in America sai esattamente di cosa si tratta! È perfetto!" Insomma, dopo un secolo di grandi musicisti Blues con le loro chitarre bottleneck, qualcuno è saltato su e ha detto "ok, ora cos'altro si può fare?" E a quel punto... Bingo! Perfetto! Tutto ha senso. Tutto qui, nient'altro. Come se qualcuno dicesse "dai, facciamo qualcosa di diverso." Quindi non sono d'accordo che la scena Newyorkese sia poi così competitiva, anche se ci sono un sacco di musicisti rispetto alle occasioni di lavoro. Quel che capita è che ci si aiuta a vicenda a lavorare e a imparare. È la miglior scuola, la miglior scuola di vita che si possa frequentare. E credo che ad un certo punto, e a me è già capitato, se non trovi più ingaggi a New York non ha più senso rimanerci. Tanto per rimanere in contatto con chiunque io desideri è sufficiente tornarci per una settimana ogni... tre mesi. E sto cominciando solo ora a capire che i miei soggiorni ad Amsterdam e a Copenhagen non sono state delle eccezioni; sono stati i primi momenti nei quali ho capito che era il caso di andare non dove c'erano 10.000 persone, ma piuttosto dove c'era qualcosa di nuovo, e non importa dove, non importa se nessuno ti conosce. Ma solo ora sono forte abbastanza da accettare questa idea. E nessuno può dirmi niente, non sono certo il solo. Lo hanno fatto gli Art Ensemble of Chicago. Lo ha fatto Don Moye, che si è trasferito a Lansing, nel Michigan.
Lester Bowie è andato a Lagos, in Nigeria. Don Moye a Montreal. Voglio dire, ma chi lo farebbe? Ti direbbero "ma che fai? Vai a New York!" invece loro ti risponderebbero "no, affatto, andiamo dove nessuno ci conosce per crescere." Sam Rivers, in Florida, ha dato vita ad una scena tutta nuova!
AAJ: Vero.
D.T.: Una scena tutta nuova! E certo è difficile - e il pubblico è molto... come dire, non che non mostri interesse, ma di certo rimane sorpreso. Sono andato in questo posto, la "Stonington Opera House". A 11 ore di auto da New York, al Nord. Undici ore! Su di un isola al largo delle coste del Maine, un fienile di più di un secolo fa trasformato in un teatro dell'opera. E ci ho fatto un concerto in duo con Matt Wilson, facendo il tutto esaurito. E fuori, pescatori di aragoste. Sì, con su gli stivali di gomma. Insomma, ci siamo esibiti in duo, io e Matt Wilson, e la nostra era una musica un po' strana. Beh, è bastata un'ora e il pubblico era in delirio. E alla fine ci hanno detto "tornerete, vero?" e io ho risposto "Certo!," e due settimane dopo sono tornato per due concerti in "solo". Finito il concerto hanno applaudito per cinque minuti, perché non era una cosa cui potessero assistere ogni giorno. E mi dicevo "ora mi mangeranno vivo..." [ride] E allora capii... e tra quelle persone c'era gente dell'età di mia madre, bambini e adolescenti. Insomma, realizzai che quella sarebbe stata la prossima cosa da fare nella vita. Vale a dire, andar fuori, da solo...
AAJ: L'evangelista...
D.T.: Esatto. In effetti Kenny me lo disse. Kenny Wolleson si girò verso di me, eravamo a Varsavia due estati fa, e mi disse "Questo è il tuo compito adesso... essere un missionario," così mi ha definito. E io son rimasto così, mica ti svegli la mattina e pensi "sono un missionario!". Però ad un certo punto mi sono detto "a New York non hanno più bisogno di me." Ci sono state 6 o 7 ondate di grandi chitarristi arrivati a New York. Molti di questi hanno firmato contratti e hanno intrapreso una carriera più di quanto abbia fatto io. Li ho visti arrivare tutti. Charlie Hunter è venuto a New York 3 o 4 anni dopo aver avuto successo con la Blue Note. Insomma mi sono detto "ma che ci faccio qui, è ridicolo. Devo andare altrove." E un promoter che incontrai a Grenoble mi disse "ti andrebbe di tornare a vivere in Europa?" E io, senza neanche pensarci un secondo "Certo!" Anche se non mi faccio illusioni. Capisco che non sarò mai parte di un sistema in cui ciò è sempre visto da fuori. Lo stesso accadrebbe se andassi nell'Iowa, o in altri posti. E Matt Wilson mi sta aiutando ad organizzare concerti nel Midwest, ad organizzare corsi e sto anche facendo questa cosa, nella quale non suono soltanto nei club.
AAJ: Adesso insegni? In scuole private?
D.T.: Certo. E mi faccio anche pubblicità, così che tutti lo sappiano... Ribot mi manda studenti da anni... gli dice "No, no, no, devi andare da Tronzo." Gli dice "se vuoi davvero capire di cosa si tratta, devi davvero conoscere Tronzo." Gli dice, apertamente, "io non sono un insegnante, Non so neanche quel che faccio, ma questo ragazzo sa come insegnarti ciò che sa fare!" Io gli insegno, e molti di loro fanno cose che io non so fare. Però ho imparato ad imparare perché ho dovuto capire ogni cosa di quel che facevo... e in ogni momento del tuo cammino ti vien voglia di mollare tutto. E mi rivedo nei miei studenti, che dicono "no, troppo difficile" ed io, "no, non lo è." Devi continuamente sforzarti e superare lo sconforto. E in tutto ciò prendo esempio da Matt Wilson, che è un ottimo insegnante, e imparo sia da lui sia da tutti questi ragazzi. Voglio dire, questi ragazzi sono molto, ma molto meglio di me.
AAJ: Insegni a suonare la slide guitar...?
D.T.: No, pochissimi vogliono imparare a suonare la slide. La guardano e...
AAJ: Ma voglio dire... e per questo mi rifaccio a quello che mi dicevi a Tivoli all'inizio dell'intervista, è come... insomma, stai esplorando nuovi territori...
D.T.: Sì
AAJ: ... e hai trovato la tua strada,
D.T.: Sì
AAJ: ...ed è stata molto dura.
D.T.: Il più delle volte, sì.
AAJ: ...e stressante.
D.T.: Molto
AAJ: Quindi, a prescindere dal fatto che tu abbia studenti che ti chiedono di insegnargli a suonare come te, quando tra vent'anni qualcuno studierà la musica di David Tronzo quale pensi sarà considerato il tuo segno distintivo? Così come oggi si capisce immediatamente "oh, questo è Mike Stern," o "questo è Pat Martino"... Cosa farà dire "lo riconosco, è David Tronzo"?
D.T.: Ci sono molti, moltissimi musicisti con i quali lavoro che non appena accenno qualcosa alla chitarra - e anche se sono nell'altra stanza o se neanche sanno che sono lì - dicono "c'è solo una persona che suona così!" Non c'è una cosa in particolare, è tutto l'insieme, il sound, il tocco: sai, anni fa in studio qualcuno mi disse "puoi provare a suonare in modo da non sembrare te?" e io "Farò del mio meglio. Come vorresti che io suonassi?" "Beh, tipo Elmore James." Io ci provavo e loro "No, lascia stare!" [ride] Ce ne voleva ancora, mi sembrava di essere sulla buona strada, ma loro "lascia perdere!" Insomma so solo una cosa: i migliori che ho sentito non hanno ancora un'espressione definita nel loro modo di suonare. Non hanno un loro fraseggio, è la slide che fa tutto, ma io non suono "con la slide," io suono "la slide guitar"... Insomma, posso fare ciò che voglio! Non esiste musica che io non possa suonare, se ho abbastanza tempo. Cioè non riesco a mettermi lì e suonare, che so, Bach su due piedi, ma so che posso farlo, e l'ho fatto.
AAJ: Quanto ti sei ispirato ad altri chitarristi...
D.T.: Nulla
AAJ: Oppure a pianisti, o a Monk, o ad altri...
D.T.: Innanzi tutto, sappi che ho vissuto vent'anni senza uno stereo, un mangianastri o un lettore CD. Non me ne sono mai portati dietro, non ne ho mai avuti in casa, insomma non ascoltavo alcuna musica registrata. Credo di avere una sessantina di CD, la maggior parte dei quali mi è stata data da qualcuno. Non ho dischi, a parte un paio di album di Sonny Rollins. Mio fratello, che è un bravissimo pittore, lui ha una grande collezione di dischi. Io sono cresciuto ascoltando la musica che sentivano i miei - Ellington, Mingus, Ornette, gli Art Ensemble, Blue Mitchell, Stanley Turrentine, Booker Little, tutti questi...
AAJ: Thelonious Monk?
D.T.: Anche lui. Ma non mi sono mai seduto ad ascoltare, dicevo "ah, i Led Zeppelin..." e li ascoltavo ancora, e ancora. Quando a 17 anni andai a vivere da solo, rimasi senza stereo, e questo diciamo fino a 5 anni fa. E compro solo dischi registrati in presa diretta, da altri Paesi. Mi piacciono le cose davvero grezze, dove senti i rumori, la gente parlottare, eccetera. Insomma, la vera world music, che davvero apprezzo. E ascolto ogni elemento della band, ogni strumento, ogni parte cantata, tutto, dovunque e comunque. Non per trascriverlo, ma per capire come l'ensemble è composto e come si muove... ecco perché mi piace lavorare con certi percussionisti: io non so suonare le percussioni, ma le conosco bene, quindi riesco ad ascoltare i percussionisti, tutto ciò che fanno. Come un produttore, ascolto il pezzo, faccio un ampio sorriso e dico "occhio alla grancassa, in quell ponte." E lui "la grancassa?" Sì, hanno cambiato l'EQ della grancassa. Ma non lo so, so solo che ho sentito un suono diverso. So quando picchia duro, so che ritmo suona, so che costruzione sta facendo e so perché fa quelle frequenze a seconda di quello che sente. Ed è pesante, perché puntualmente ti guardano e dicono "accidenti, non lasci passare nulla!" Perché ascolto l'intero ensemble e stranamente, anche se non sempre si nota, cerco di suonare l'intero ensemble con la chitarra. Mi piace chiamare la mia slide, il mio modo di suonare, la mia piccolo orchestra.
AAJ: [ride]
D.T.: Insomma per concludere, devo dire che Ornette, Monk e gli Art Ensemble mi hanno condizionato parecchio... così come i Led Zeppelin [ride]. E giusto un paio di autori Blues, ma non quelli che pensi. Non quelli che suonavano una slide... e neanche qualcuno famoso, ma anzi ragazzi davvero poco noti... anche se J.B. Hutto è stato uno di quelli che ho amato... un sacco. Ma Freddie Roulette...
AAJ: Freddie Roulette... ha fatto un disco con Charlie Musselwhite...
D.T.: Sì ne ha fatti un paio, e un disco "da solo," questo è quanto. Vive sulla West Coast. ... Ah, un'ultima cosa che ci tengo a dire è che non tengo solo concerti nei club. Sto cominciando anche a fare serate in casa: sai, quelle feste in case belle grandi, con 50, 100 invitati. Ci vediamo prima, faccio il mio concerto e poi ce la spassiamo! E questo per me è il massimo.
Foto di Claudio Casanova
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