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Il "mio" Sessantotto... e oltre.
ByIl Sessantotto, come qualsiasi fenomeno socio-culturale, è stato anticipato da prodromi significativi e seguito da conseguenze e strascichi, che si sono proiettati nel decennio successivo, per poi affievolirsi progressivamente fino a rimanere, ai giorni nostri, un ricordo mitizzato e distorto. Per quanto riguarda la contestazione studentesca, già negli anni immediatamente precedenti si erano verificate sporadiche occupazioni di facoltà universitarie, mentre cominciava a dare evidenti segni di declino la Festa delle Matricole (che a Bologna, per esempio, fino alla metà degli anni Sessanta era un'istituzione accettata, un evento che per due giorni invadeva e monopolizzava il centro storico, riconoscendo ad una classe studentesca figlia della borghesia il privilegio di spadroneggiare).
Io, matricola della facoltà di Architettura a Firenze, nel novembre 1965 non riuscii comunque ad evitare una "smutandata" (le matricole, cosiddette "zanzare," legate in cordata con le brache in spalla, venivano schernite e portate in processione lungo le strade del centro). Un'altra volta invece con un paio di compagni di corso riuscii a scampare la cattura, calandomi dalla finestra dell'aula di disegno, al primo piano nella parte posteriore della facoltà, raggiungendo Via degli Alfani.
Questa rievocazione, tanto personale quanto esente da risvolti nostalgici, è servita solo a esemplificare quale fosse il clima che si respirava nella condizione universitaria presessantottina. Dal 1968 in poi, e mi risulta tuttora, simili manifestazioni della goliardia istituzionalizzata sono divenute inimmaginabili, per fortuna.
Non è questa la sede per approfondire le motivazioni, la partecipazione, gli aspetti positivi e negativi, il parziale fallimento e le ricadute del movimento studentesco del Sessantotto. Attraverso il filtro di una memoria e di un bilancio del tutto soggettivi, è però possibile intravedere qualche connessione fra quella situazione giovanile e la percezione che del jazz si aveva in Italia intorno a quegli anni. Si poteva ascoltare praticamente di tutto: a fianco dei maestri del jazz classico, che avevano ammaliato i giovani jazzfan del dopoguerra in un clima di revival, si esibivano i protagonisti del bop e del cool, ma cominciavano ad approdare nel nostro Paese, come nel resto d'Europa, anche gli esponenti del free, da molti rifiutato come antijazz.
La colonna sonora jazzistica del Sessantotto.
Fra il 1966 e il 1970, mentre Louis Armstrong e Lionel Hampton parteciparono al Festival di Sanremo fra lo sconcerto dei puristi e l'incomprensione dei più, transitarono in Italia le orchestre di Duke Ellington, Count Basie, Woody Herman e la Kenny Clarke - Francis Boland Big Band. Nelle rassegne e nei pochi festival nazionali erano presenti maestri delle correnti moderne: fra i tanti ricordo Lennie Tristano (così efficacemente rievocato da Franco Fayenz nel libro "Lennie Tristano: il profeta incompreso," edito da Stampa Alternativa), Phil Woods (rinato a nuova vita artistica con la European Rhythm Machine), Mal Waldron (che soggiornò a lungo a Bologna, dedicandole un paio di brani dai titoli espliciti: "Due torri" e "Song for Cicci," quest'ultimo dedicato a Cicci Foresti, organizzatore, insieme ad Alberto Alberti, dello storico Festival di Bologna).
Ovviamente trionfavano le regine del canto, Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan, e non mancavano nemmeno personaggi "anomali" come Erroll Garner, Lou Bennett, Dizzy Reece e Joe Harriott, o gli esponenti europei: Martial Solal, Tete Montoliu, Henry Texier, George Grunz, il promettente Jean Luc Ponty... A proposito di emergenti, cominciavano ad affacciarsi alla ribalta dei giovani estremamente interessanti, che già guardavano ad un connubio con la musica folk, pop e rock: in primis Keith Jarrett e Gary Burton, oltre a Charles Lloyd, richiestissimo prima di eclissarsi per molti anni. Non erano certo assenti i grossi nomi dell'avanguardia, sia americana (George Russell, Archie Shepp, Ornette Coleman, Cecil Taylor, Don Cherry, Paul Bley... fino al Detroit Free Jazz Group, dove militava il giovane Don Moye, unico del gruppo ad aver raggiunto la notorietà negli anni successivi), sia europea (John Tchicai, Gunter Hampel, Rolf Kühn, Han Bennink...).
Mi sembra opportuno rievocare più approfonditamente un paio di esperienze d'ascolto che furono per me particolarmente significative. Non potrò mai dimenticare una serie di set tenuti da Cecil Taylor a Bologna. Decentramento e partecipazione erano le parole d'ordine della politica culturale d'allora, per cui gli amministratori comunali e gli organizzatori della decima edizione del Festival del Jazz (all'interno del quale il 5 ottobre 1968 il pianista si era esibito in solo al Teatro Comunale) decisero di prolungare la presenza di Taylor in città, collocando un certo numero di suoi concerti gratuiti nelle sedi di vari quartieri. Di fronte a platee esigue, per lo più di pensionati ignari, il pianista riversò le sue performance torrenziali, di un paio d'ore ognuna, del tutto incurante della progressiva defezione dei più, che alla chetichella abbandonavano le sale frastornati e increduli. Si contavano sulla punta delle dita i pochi, quorum ego, che rimanevano fino agli applausi finali.
Dopo un paio di settimane, in occasione del mio compleanno, la "mia ragazza" (in seguito diventata mia moglie, che da alcuni anni mi accompagna a quasi tutti i concerti) pensò bene di regalarmi un LP singolare, inaugurando così quella preziosa discoteca che si sarebbe ampliata negli anni seguenti. Si trattava di Cecil Taylor Live at the Cafe Montmartre della Debut, inciso a Copenaghen nel novembre 1962 in trio con Jimmy Lyons e Arthur "Sonny" Murray, oggi disco raro da collezionisti.
La sera del 24 marzo 1969 invece assistetti al concerto del gruppo di Cannonball Adderley (comprendente il fratello Nat e un efficace Joe Zawinul) alla Sala Bossi del Conservatorio G.B. Martini di Bologna. L'estroversa musica del contraltista, le sue cadenzate e coinvolgenti introduzioni verbali ed ancor più la partecipazione entusiasta, come spettatrice, di Mary Lou Williams, che sedeva alle mie spalle in compagnia di un giovane di colore, mi fecero comprendere all'istante, e assai meglio di qualsiasi trattato, l'essenza del Soul Jazz, la sua natura in the tradition, la sua carica immediatamente comunicativa. Il contrasto con l'austero ed aulico aspetto della sala contribuì senza dubbio a rafforzare questa mia percezione dei caratteri del jazz di Cannonball.
Non si può ignorare inoltre che in quegli anni alcuni esponenti d'oltre Oceano stabilirono un continuativo e fruttuoso rapporto con il nostro Paese. Al soggiorno bolognese di Mal Waldron si è già accennato, ma si potrebbero ricordare anche Chet Baker, Tony Scott e tanti altri. L'ancora sconosciuto Gato Barbieri, già presente con il suo gruppo al festival felsineo del 1963 col nome di Lee Gato Barbieri, per sbarcare il lunario non disdegnava ingaggi al servizio di cantautori sulla cresta dell'onda, esattamente come capita tuttora per tanti validi jazzisti di casa nostra (come si sa è suo l'intermezzo al tenore al centro di "Sapore di sale" di Gino Paoli). Steve Lacy invece, fatta tappa a Roma, stava vivendo il suo periodo creativo più aperto e destrutturato, proponendo un'allucinata improvvisazione assoluta assieme ai sudafricani Louis Moholo e Johnny Dyani, e al giovane Enrico Rava.
Non è questa la sede per trattare in modo esauriente l'attività dei numerosi jazzisti italiani di quel periodo, ma fra le esperienze fondamentali della sperimentazione bisogna ricordare almeno il basilare New Feelings, del 1966, in cui l'attivissimo e già affermato Giorgio Gaslini guidava una sorta di all stars dei jazzisti free attivi in Italia e dintorni: Rava e Don Cherry alle trombe, Lacy, Barbieri e Gianni Bedori ai sax, Jean François Jenny Clark e Kent Carter ai contrabbassi, Aldo Romano e Franco Tonani alle batterie. Franco D'Andrea invece, calato dalla sua appartata Merano, dopo un'esperienza formativa dapprima a Bologna, poi a Roma, stava costituendo, assieme a Tonani e Bruno Tommaso, il Modern Art Trio, il cui splendido LP, inciso nel 1970, è stato pochi anni fa opportunamente riedito su Cd.
Un caso unico è rappresentato dal Gruppo Romano Free Jazz, formato da Giancarlo Schiaffini, Mario Schiano, Marcello Melis e Franco Pecori: l'improvvisazione che essi andavano sperimentando nel 1966-67 aveva un carattere del tutto underground, tanto che la loro prima edizione discografica vide la luce solo un decennio dopo. Assolutamente inediti erano i caratteri della loro musica: il privilegiare gli aspetti timbrici e rumoristici, il rifiuto di regolari cadenze ritmiche, di ancoraggi armonici o di risvolti melodici, il polistrumentismo e l'utilizzo anche di strumenti giocattolo o di materiali anomali, il ruolo assegnato al silenzio e alle pause, determinando così un percorso sonoro frammentato, privo di sviluppi narrativi orecchiabili. Per queste caratteristiche si può riconoscere nelle tracce del disco postumo uno dei primissimi esempi dell'improvvisazione radicale europea, forse precedente ed ancor più estremo di analoghe esperienze straniere, quali per esempio quella dell'inglese Spontaneous Music Ensemble di John Stevens e compagni.
Editoria e radio intorno al 1968
Ma un giovane che in quegli anni volesse avvicinarsi al jazz con una certa continuità aveva a disposizione altre opportunità di approfondimento oltre ai concerti e ai festival: in primo luogo la radio e i libri. Le tre stazioni radiofoniche nazionali, nei tempi in cui le radio private non esistevano ancora, offrivano vari appuntamenti settimanali, soprattutto nella fascia pomeridiana; i conduttori erano Marcello Rosa, Nunzio Rotondo, Renzo Nissim, Adriano Mazzoletti ed altri e la gamma degli stili proposti era piuttosto ampia, forse con una predilezione per il West Coast.
Quanto ai libri, fra i maggiormente reperibili possiamo ricordare il piccolo e divulgativo "Conoscere il jazz" di Arrigo Polillo (Mondadori, 1967), la gustosa rievocazione romanzata di M. Mezzrow e B. Wolfe, "I primi del jazz," (Longanesi, 1967), ed ovviamente il fondamentale "Il popolo del blues" di LeRoi Jones, edito da Einaudi nel fatidico 1968. Poi sarebbero arrivate alcune mirate opere di autori europei: "Il jazz dal mito all'avanguardia" e lo snello "Anatomia elementare del jazz" del nostro Franco Fayenz, editi da Sapere rispettivamente nel 1970 e 1971, il corposo "Free Jazz Black Power" di P. Carles - J.L. Comolli (Einaudi, 1971), il singolare "Jazz inchiesta: Italia" di Enrico Cogno (Cappelli, 1971). Altri libri importanti di W. Mauro, G. Cane, e J. E. Berendt sarebbero seguiti negli anni immediatamente successivi.
Non si può dimenticare inoltre il ruolo continuativo di informazione e critica sostenuto dalle riviste, delle quali la più nota, ma non l'unica, era il mensile Musica Jazz, che alla fine del 1968, edito da Messaggerie musicali e diretto da Arrigo Polillo, aveva già raggiunto il venticinquesimo anno di vita.
La fruizione del jazz nel postsessantotto.
Soffermatomi, con maggiore o minore attenzione, su alcune delle personalità e delle esperienze significative di quel periodo, è ora importante sottolineare che, qualunque fosse lo stile jazzistico, la fruizione del jazz intorno al '68 era ancora composta, tradizionalista: nei teatri, nelle sale o nei club ci si presentava di solito ben vestiti, in giacca e cravatta. In fondo il comportamento dei fan, entusiasta o tiepido che fosse, non era molto diverso da quello dei loro fratelli maggiori negli anni Cinquanta.
L'atteggiamento cambiò solo transitando negli anni Settanta: ad una contestazione politica per certi versi inaspritasi rispetto al movimento sessantottino, uscita dalle università e divenuta più radicale, corrispose un avvicinamento al jazz di stampo integralista. In ritardo quindi rispetto ai contenuti espressi da una certa frangia del free jazz nero-americano e da movimenti estremisti quali Le Pantere Nere.
La generazione italiana della contestazione postsessantottina prendeva in considerazione il jazz soprattutto in funzione dei suoi significati politici di protesta, lo vedeva perfino come un bene comune da ottenere di diritto, alla stregua di un servizio della collettività: ecco allora i frequenti «sfondamenti» per entrare gratuitamente ai concerti. Di conseguenza non si ascoltava con senso critico tutto il jazz, ma solo quello che, rivestendo certi connotati, era in grado di costituire l'eccitante colonna sonora di un rito di aggregazione, di un raduno, non privo di disomogeneità al suo interno, ma indubbiamente carico di grande vivacità, di valori problematici e di partecipazione.
Il ruolo di emblemi di questo movimento toccò, in seno al jazz, ad alcuni protagonisti indiscussi: il polistrumentista Sam Rivers, rivelatosi come personaggio carismatico al festival di Montreaux nel 1973, Archie Shepp, con i suoi gruppi agguerriti, comprendenti Dave Burrell e Charles Greenlee (che era l'arrangiatore e la vera eminenza grigia della formazione); Gato Barbieri, che aveva inaugurato la sua fortunata saga latino-americana contornandosi di musicisti del Sud America; McCoy Tyner, riemerso dal relativo oblio conseguente alla fine del sodalizio con Coltrane ed impostosi sia dal vivo che con alcuni dischi pregnanti; perfino l'ineffabile Sun Ra, con la sua rutilante Arkestra, ed anche Charles Mingus, tornato alla ribalta internazionale a capo di un nuovo, strepitoso gruppo, forte dei giovani Don Pullen e George Adams.
Altrettanto successo ottennero ovviamente gli artefici del jazz elettrico, in primo luogo Miles Davis e i suoi numerosi discepoli, fino alle originali declinazioni italiane del Perigeo e degli Area. In misura forse minore si prestò orecchio agli esponenti dell'avanguardia di Chicago, che rappresentavano un'evoluzione più sofisticata e critica del free, in un tentativo di più consapevole integrazione fra tradizione nera e decantato sperimentalismo.
Queste imponenti concentrazioni di pubblico giovanile trovarono la loro naturale ambientazione nei palazzi dello sport, capienti ma dall'acustica pessima, negli stadi, nei parchi o nelle piazze: penso per esempio a Piazza IV Novembre a Perugia nelle prime edizioni di Umbria Jazz, gremita di una folla variegata e vociante per assistere ai concerti gratuiti dei beniamini sopra ricordati. Fu proprio l'imprevista e debordante partecipazione di un pubblico giovanile, squattrinato e anarchico, a decretare nello stesso tempo il successo ed il collasso di Umbria Jazz, che dopo l'edizione del 1978 decise di chiudere i battenti. Quando riaprì, nel 1982, vi erano le condizioni per una formula rinnovata, con concerti a pagamento.
La vicenda del festival umbro è emblematica: passati i tempi della contestazione, degli sfondamenti e della gratuità (ma non dobbiamo dimenticare che ad un più ampio livello socio-politico sono stati i problematici "anni di piombo"), si era entrati negli anni Ottanta, che si sarebbero qualificati come gli anni del disimpegno, del riflusso nel privato e del trionfo del Postmoderno. L'ombra lunga del Sessantotto andava così definitivamente dileguandosi.
Foto di Mike McAndrew (Waldron)
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