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Il jazz e la soggettività afroamericana
you don’t know your own.
James Baldwin
Da sempre la filosofia insiste su quella “cosa” che manifestandosi nella forma del cogito cartesiano determina ogni attività conoscitiva: il soggetto.
Variamente rappresentato come ciò che tutto conosce e da nessuno è conosciuto, che non appartiene al mondo ma ne rappresenta il limite, che è pensabile come funzione e non come sostanza, il soggetto si troverebbe costituito nella divaricazione che separa il fenomeno dal noumeno. O, meglio, quella stessa divaricazione, quello scarto nel cielo dell’ontologia, sarebbe, esso stesso, il soggetto.
Non si darebbe insomma una realtà come “pieno”, come un “tutto” antecedente la formazione del soggetto e senza relazione con l’accadere degli eventi. E proprio lo “scarto”, l’eccezione costitutiva della soggettività rappresenterebbe il solo spazio di libertà. Collocato nella giunzione/scarto fra l’universale e il particolare, nel luogo di una straniante indecidibilità ontologica, il soggetto si presenterebbe come qualcosa di insituabile e sottilmente inquietante, ovvero unheimlich.
Come spiega Freud in un saggio del 1919, l’aggettivo heimlich - dalla cui radice heim (casa) derivano i sostantivi Heimat (patria) e per l’appunto Un-heimliche - nella lingua tedesca assume significati diversi e talvolta contrastanti. Esso infatti significa tanto “domestico” e “noto” quanto “segreto” o “nascosto”. Tale ambivalenza si riverbera sul negativo un-heimlich, al punto che il termine risulta pressoché intraducibile. Reso in italiano con “il perturbante”, allude a un senso di pericolo collegato al nostro esistere, collegato cioè ai temi della casa e dell’abitare, alludendo a una casa popolata da fantasmi e dunque a un senso dell’abitare tutt’altro che pacificato [Cfr. Sigmund Freud, Il perturbante, tr. it. in Opere, vol. IX, Bollati Boringhieri 1989]. (Proprio come succede nei romanzi fantastici o dell’orrore, dove un fantasma inquieta la vita domestica, un morto si mette a camminare o improvvisamente una statua si anima).
In questo senso il perturbante segnala la condizione incerta e fluttuante del soggetto moderno, abitato da mille contraddizioni e incapace di cogliere il limite delle sue possibilità conoscitive.
Martin Heidegger, ad esempio, concepisce l’effetto di spaesamento che l’Unheimliche produce come elemento fondamentale per comprendere la condizione in cui viviamo, nella quale ci troviamo esposti a un’alterità irriducibile e irrimediabile che erode la nostra identità mentre la costituisce.
Jacques Lacan invece lo collega all’angoscia derivante dal processo della formazione soggettiva, durante il quale si produce un resto ineliminabile che egli chiama “oggetto a”. Nell’algebra lacaniana questo oggetto si costituisce attorno ad un vuoto o, per meglio dire, ha il compito di mantenere vuoto un posto che se si riempisse metterebbe in crisi la differenza fra soggetto e oggetto, farebbe cioè precipitare il primo nel secondo producendo un angoscioso effetto di indistinzione. Solo restando celato esso garantisce la tenuta della struttura, poiché quando emerge noi siamo posti di fronte all’orrore indicibile della nostra condizione, quella di esseri costretti a riconoscersi divisi e incompleti. Per spiegarsi meglio Lacan sente poi il bisogno di coniare un neologismo, “extimité”, che tenendo insieme “intimo” ed “esteriore” cerca di nominare l’“intima estraneità” che contraddistingue l’essere umano.
Per tutte queste ragioni l’Unheimliche è diventato un elemento centrale della riflessione sulla soggettività, che non possiamo più concepire come un’entità statica ma dobbiamo comprendere nella processualità del suo farsi. Psicoanalisi e filosofia, divise quasi su tutto, concordano infatti nel ritenere che l’indecidibilità propria della condizione soggettiva si risolva solo nel passaggio all’atto, nel momento di un “fare” in cui il soggetto accede a una forma di costituzione di sé: cessando di essere un puro “nome” e diventando quella contingenza attiva, quell’accadimento che fonda l’ordine ontologico stesso.
Si tratta di un semplice ma fondamentale passaggio: dal nome al verbo, dall’intransitivo al transitivo, dal “definito” a quell’“agente” in grado di farsi carico di un’etica, e di una politica, dell’evento. Almeno se è vero che l’etica implica un’apertura sul reale e un passaggio all’atto, una volta constatata l’impossibilità di risolvere la vita nello spazio della teoria; e la politica è la contingenza attraverso cui cerchiamo di riordinare lo spazio sociale, una volta che abbiamo deciso di con-vivere.
Forse sta qui, collocato fra etica ed estetica, il senso del “campo jazzistico” studiato da Alexandre Pierrepont in “Le champ jazzistique” [Parenthèses 2002], che consente alla soggettività afroamericana di costituirsi artisticamente e politicamente attraverso il jazz, musica che Max Roach ritiene essere la sola “democrazia realizzata”. Poiché la sua natura performativa e diveniente spiazza le nostre attese e apre alla possibilità che qualcosa nasca, che qualcosa abbia davvero luogo: “Io parlo del processo del verbo - scrive Amiri Baraka -, del fare del venire alla vita, del momento-in-cui. Ecco perché penso che vi sia un particolare valore nella musica viva, in fieri, che contempla il prodotto mentre si compie, lo ascolta venir fuori” [Cfr. Amiri Baraka, Sempre più nero, tr. it. Feltrinelli 1968].
Forse per questo il poeta Nathaniel Mackay, lavorando sul tema della soggettività afroamericana intitola un suo saggio “Other”: From Noun to Verb, ovvero “L’altro”: dal sostantivo al verbo [In Aa.Vv., Jazztoldtales. Jazz e fiction, Letteratura e jazz, a cura di Franco Minganti, Bacchilega 1997]. Il titolo di Mackay rovescia quello utilizzato da Baraka per descrivere l’appropriazione della musica nera da parte dei bianchi: Swing: From Verb to Noun, Lo swing: da verbo a sostantivo, compreso nello storico e ormai più che quarantennale Blues People.
Benny Goodman, il bianco “re dello swing”, si sa, pagava arrangiatori neri perché aggiustassero, migliorandola, la sua musica. Così la radicale proposta etica ed estetica della musica nera veniva trasformata nella sua rappresentazione edulcorata e mediata, per un uso spettacolare e consumistico.
From Noun to Verb diventa allora, insieme al desiderio di riappropriarsi dell’identità, un modo di nominare qualcosa che non sta fermo, che è in movimento, qualcosa che transita fra le forme (“dal sostantivo al verbo…”) e sfugge al mondo della fissità. Bisogna dunque rendersi conto che le cose non stanno ferme, che si muovono e cambiano, come peraltro ci insegna tutta la cultura afroamericana. E per afferrare il senso di tale movimento, sostiene Baraka, non si tratta di capire con l’intelletto, in modo logico e razionale (to understand), ma semmai di comprendere in modo patico ed empatico (to dig).
Si apre così una prospettiva nuova per conoscere il jazz (e la comunità da cui proviene), che lo oppone alla razionalità occidentale grazie alla sua capacità di sovvertire le categorie dell’estetica, ovvero di promuovere un movimento che, tenendo insieme il sensibile e l’intelligibile, scombina l’assetto della nostra percezione. Ma ciò che si muove, e muovendosi mostra di esserci anche se non ci fa piacere vederlo, è propriamente l’Unheimliche. Perciò il sostantivo che si muove verso la forma verbale, “from Noun to Verb”, scombina l’ordine del mondo (che è la nostra casa) sovvertendone gli assetti e costringendo a una diversa visione.
Ciò evidentemente riguarda la comunità afroamericana e la forme artistiche cui ha dato vita dopo la fine della schiavitù, ovvero il modo in cui ha avviato la propria soggettivazione. Sicché il fantasma dello schiavo, un tempo riconoscibile in quanto esteriorizzato e contestualizzato, col passare del tempo ha iniziato a muoversi, a cambiare di posto, fino a diventare il perturbante inquilino della coscienza bianca, la macchia oscura che inquieta l’unità della sua percezione. La presenza afroamericana si è così trasformata nell’elemento “estimo” della società americana, divenendo l’“Altro che non è del tutto Altro” cui allude Michel Leiris in quanto nato nel cuore stesso dell’occidente ma ad esso irriducibile. E in questo senso, in quanto invisibile-visibile sostegno dell’ideologia tardocapitalistica, la condizione della comunità afroamericana è paradigmatica e dunque estensibile a tutte le minoranze, a cominciare da quelle che popolano la postmoderna e complessa società multiculturale.
È questo che non capiscono i critici di Amiri Baraka, che non sanno cogliere i punti di forza del suo discorso a partire dal profetico Blues People, dove si anticipavano molti dei temi poi divenuti centrali nella critica postcoloniale, a cominciare dal sincretismo e dalla necessità di un approccio teorico adeguato a comprenderlo. Per questo è utile partire dalla soggettività afroamericana per capire il mondo in cui viviamo, e per apprezzare quelle espressioni artistiche che a quella soggettività danno esistenza e visibilità facendola “accadere”, in primis il jazz. Perché è nel processo delle sue manifestazioni che il soggetto accade, nel senso che prende vita e dà vita: prende vita dalle - e dà vita alle - forme artistiche, politiche, filosofiche che lo contraddistinguono.
Tenendo conto di ciò, invece di continuare a considerare il soggetto come un’entità chiusa dovremmo occuparci del movimento o processo della soggettivazione. Come ha mostrato Christian Béthune, infatti, proprio nel suo “accadere” la soggettività afroamericana si sottrae alle categorie che solitamente usiamo per interpretare il mondo [Cfr. Christian Béthune, Il jazz e l’Occidente, tr. it. in Aa.Vv., Amiri Baraka. Ritratto dell’artista in nero, a cura di Franco Minganti e Giorgio Rimondi, Bacchilega 2007]. Poiché essa si costruisce secondo un’altra logica, quella che non distingue il soggetto dall’oggetto e non ha paura della contraddizione, che si affida al signifying per difendersi dalla fissità referenziale della comunicazione, che inserisce nel cuore del discorso quegli elementi africani, magici e sottoculturali che captano diversamente l’accadere: “Quando la banda comincia a suonare - racconta un “filosofo” afroamericano, Louis Armstrong - tutti si mettono a ondeggiare da un lato all’altro della strada, specialmente quelli che si aggregano e seguono quelli che sono andati al funerale. […] Lo spirito li prende e loro lo seguono” [Riportato in Ishmael Reed, Mumbo Jumbo, tr. it. Shake 2003].
A noi potrà sembrare strano, ma per la soggettività afroamericana il sincretismo non è una fra le scelte possibili: è la precisa e consapevole risposta al dominio, alla violenza, al ricatto della cultura dominante, è un modo di sottrarsi, dislocandosi altrove, alle semplificazioni di chi crede di conoscerla.
Per questo la mitologia di Sun Ra - con il suo “metafisico filosofico surrealistico bop funk”, precisa Baraka - non è “l’arte folcloristica di un sognatore marginalizzato […], ma la sofisticata risposta politica a una cultura scientifico-tecnologica che egli sente come primitiva, distruttiva, ottenebrata” [Paul Youngquist, The Space Machine, in “African America Review”: Dedicated to Amiri Baraka, Summer 2003, vol. 37].
Per questo la musica di Monk è come una specie di conoscenza inconscia, ricorda Don Cherry, e l’armolodia non è uno stile musicale ma una filosofia di vita, afferma Ornette Coleman. Riconfigurando i rapporti e lo spazio sociale, proponendo il futuro non come proiezione astratta ma come luogo del qui-e-ora, rendendo visibile (e sensibile) il desiderio che anima la soggettività afroamericana, la Black Music diventa una minaccia per la razionalità occidentale - oltre che per l’ordine costituito.
La filosofia occidentale ci insegna invece che il soggetto - il soggetto dell’enunciazione, che si pensa automaticamente bianco, maschio ed eterosessuale - considera il mondo come l’“oggetto” del suo conoscere. Immagina cioè che il mondo sia l’esterno, l’oggettivabile che gli sta di fronte e di cui può avere coscienza e conoscenza. In questo modo il soggetto si tira fuori dal gioco, autoconsiderandosi l’ente che conta (cioè nomina e mette in sequenza le molteplici manifestazioni del mondo) ma che non può a sua volta essere contato. Anche perché, quando si conta, ciò che resta fuori è precisamente l’atto del contare.
Ma il soggetto che si pensa staccato dall’oggetto non vede l’aporia in cui tuttavia si trova, perché si pensa come un “integro”, come un “pieno”, un’entità a tutto tondo e priva di resti. Ma non è così, e ormai sappiamo che ogni processo di soggettivazione produce un resto ineliminabile. Ed è proprio quel resto che risulta perturbante nella formazione del soggetto, presentandosi come un’estraneità situata nel suo cuore, ovvero un’intimità che tuttavia sfugge al controllo della ragione perché non è contabile, non rientra nel conto.
Ma d’altra parte è proprio lì che qualcosa può accadere, dove si interrompe, insieme ai nostri strumenti cognitivi, lo stesso circuito del contabile. Dove non sappiamo più che fare, dove non ne sappiamo abbastanza. Dove tocchiamo i limiti della nostra potenza soggettiva e ci ritroviamo passivi di fronte all’insoluto, di fronte a qualcosa che non appare al nostro sguardo e che non ha nome. Perché non ci sono parole per dire quell’alterità che vive nella parte più intima di noi stessi.
Nell’ottica occidentale, e dunque logocentrica, che gli Stati Uniti hanno prima adottato per sé e poi imposto ad altri, è stato storicamente ovvio proiettare le proprie inquietudini sull’altro in quanto colorato e dunque facilmente riconoscibile. Ancor più ovvio poiché l’altro si muoveva dentro casa, quella casa dove lo si era portato nell’illusione di poterlo addomesticare. Ma ancora una volta il conto non torna. Poiché la soggettività afromericana, e i valori che rappresenta e di cui è portatrice, conta in un altro modo. Seguendo il proprio ritmo vitale essa infatti si apre all’evento senza pretesa di dominarlo, e accetta l’accadere senza inserirlo in uno schema conoscitivo.
Questa è la verità della soggettività afroamericana e della musica che ha prodotto, il jazz, esperienza estetica integrale che si sottrae al (falso) movimento della dialettica per affermare il suo diritto all’esistenza.
Per questo l’una e l’altro costituiscono l’intima estraneità che abita il mondo e la tradizione filosofica che vorrebbe spiegarlo, l’interno-esterno che fa saltare il conto: “Capire il jazz - scrive Béthune - significa dunque accettare […] di pensare ‘altrove’. Ovvero in un luogo in cui non è necessario premunirsi contro i danni mortiferi del divenire, dal momento che, situato fuori dal tempo (Zeitlos), questo luogo ignora la storia. Poiché infine è proprio per nascondere gli effetti catastrofici dello scorrere del tempo (instabilità, molteplicità, finitezza…), e delle singolarità che ne risultano, che fu forgiata l’arma della dialettica - altrimenti detta filosofia, o almeno quel che essenzialmente ne sussiste” [Christian Béthune, Il jazz e l’Occidente cit.].
L’armamentario dialettico-filosofico tradizionale non è in grado di rendere conto di una soggettività, come quella afromericana, che non è riassorbibile in una totalità né riconducibile a un sapere cumulativo, che si muove nell’accadere senza un sapere che lo com-prenda, che si affida a un “incondizionato” non finalizzato ad alcun telos, ad alcun progetto o compimento che non sia il suo stesso accadere: “Dove va il jazz? Non lo so - afferma un altro “filosofo”, Thelonious Monk -. Può darsi che vada dritto all’inferno. Non si può far andare qualcosa da qualche parte. Semplicemente accade”.
Dobbiamo allora dedurne che non ci sono mediazioni possibili? Prima di tutto non dobbiamo cadere nel tranello in cui talvolta cadono gli stessi afroamericani, quando si concentrano sull’istanza della rivendicazione. Senza nulla togliere alla necessità della rivendicazione, dobbiamo sapere che assolutizzando le posizioni facciamo un pessimo servizio a noi stessi, alla soggettività afroamericana e anche al jazz. Poiché non esiste soggettività che si realizzi in sé, senza la necessaria relazione con l’altro-da-sé. Non esiste soggettività senza resti, visto che, come il soggetto, anche il suo “altro” è sempre scisso.
La soggettività, ogni soggettività, si produce a partire da una divisione, una Spaltung come dicono i filosofi, ovvero una separazione che la segna nell’intimo, sicché la perdita è strettamente intrinseca e la soggettività è il frutto di una continua negoziazione. Supporre la differenza come puro antagonismo significa porla come simbolicamente già data, ovvero come un dato iscritto nel simbolico, e non come ciò che di fatto elude la presa della norma simbolica. Non dobbiamo credere in un’opposizione che definisce un’identità in contrasto con l’altra, cosicché il “nero” sarebbe ciò che il “bianco” non è, e viceversa, ma piuttosto supporre una sorta di perdita comune. A causa della quale nessuno dei due opposti è mai pienamente se stesso, e “bianco” e “nero” sono solo posizioni diverse per affrontare lo stesso problema.
D’altra parte, tutta la vicenda della letteratura postcoloniale è lì a dimostrarlo: l’“altro” - lo straniero, la donna, il migrante - è figura della mia stessa impossibilità non in quanto troppo lontano ma in quanto troppo vicino, conficcato nella mia più intima estraneità - nella mia più estranea intimità. Ma solo nel confronto con l’altro io posso capire me stesso: come ricordava Edmond Jabès, solo lo straniero mi consente di essere me stesso, facendo di me uno straniero.
Per questo occorre imparare a sopportare l’enigma di un elemento “estimo” che sovverte le forme e le identità mentre le costituisce, tenendole separate ma insieme, congiunte ma disgiunte. La grandezza di Kafka, scrivono Gilles Deleuze e Félix Guattari, sta nella capacità di usare la lingua come se fosse un’altra, una lingua “minore”, che scavando dentro l’alveo della maggiore si fa portatrice di una marginalità che ce la fa sentire come straniera, straniera in casa propria [Cfr. Gilles Deleuze e Félix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, tr. it. Quodlibet 1996].
Perché spesso la bellezza si nasconde nel cuore di ciò che ci è più familiare, familiare come quella lingua che crediamo di conoscere e di cui tuttavia la letteratura ci rivela la faccia nascosta. Per questo la fonte del piacere estetico non è collegata al Medesimo, che si manifesta sempre uguale a se stesso, e nemmeno al totalmente Altro, con cui non sapremmo misurarci, ma alla vibrante inquietudine che rende la bellezza un’esperienza sottilmente, e intimamente, estranea.
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