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Il bardo sincopato. Ricordo di Attilio Bertolucci

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Superato da poco il decennale della morte, ricordiamo il poeta Attilio Bertolucci (Parma, 18 novembre 1911 - Roma, 14 giugno 2000), che ebbe non pochi contatti con il jazz. Lo stringato e lucido articolo che segue, a firma di Giorgio Rimondi che ringraziamo, venne pubblicato nell'estate 2005 sul vol. XIII di "The Mellophonium" - Periodico Saltuario di Cultura Musicale, fondato nel 1999 da Freddy Colt.

È noto che il poeta Attilio Bertolucci aveva simpatia per la musica sincopata, come ebbe modo di dichiarare in molte occasioni. Una simpatia - forse sarebbe meglio dire una passione coltivata fin dagli anni della gioventù - che lo spinse a inserire nella sua prima raccolta poetica, intitolata Sirio e pubblicata nel 1929, due liriche suggestive e a loro modo rivelatrici. La prima è una musicalissima riflessione in versi dedicata a vari Strumenti; la seconda, intitolata Saxofon, riunisce tre quartine di sapore vagamente pascoliano, ma con una finale inserzione modernista che suona omaggio allo spirito dei tempi:

E piange il saxofono

lamentoso e lontano

il torbido amore

di un negro hawaiano.

Ma forse meno noto è il fatto che egli abbia praticato per qualche tempo il mestiere del recensore, curando, fra il 1934 e il 1935, la rubrica Dischi del mensile "L'Italia Letteraria". Il suo interesse spaziava fra generi musicali diversi, forse anche per dovere professionale, e si esprimeva in uno stile ironico e frizzante, magari un po' saputo, non molto dissimile da quello dei numerosi e consumati scribacchini che riempivano le pagine delle riviste per signore e viveurs, al tempo delle femmes fatales e dei telefoni bianchi.

Tuttavia egli non tralasciava mai di rendere conto delle novità jazzistiche: lo faceva con spirito da consumato ascoltatore e, ovviamente, da letterato esperto e un po' frivolo: "Cab Calloway ci riporta Dinah abbastanza riconoscibile - scrive ad esempio -, ma ben diversa da quella dei Revellers. L'orchestrazione è geniale e Cab, com'è sua usanza, prende le parole e le riduce in una specie di poltiglia, stretto ignaro parente di Gertrude Stein". Oppure: "C'e un pezzo per il quale donerei tutto Rossini, tutto Mozart, tutto Weber, ed è Some of these days di Brooks, un fox-trott [sic] che potrebbe benissimo essere citato in Mimi Bluette per la sua venerabile età, se il nostro Guido [da Verona, scrittore di grido e autore di romanzi rosa, N.d.R.] fin d'allora non avesse preferito il tango, danza a quei tempi scandalosa e complicatissima".

In qualche occasione il giudizio di Bertolucci si piega a considerazioni più strettamente musicali, come ad esempio: "Ellington e Crosby non legano e il loro Saint Louis Blues (Brunswick) è lontano dal farci dimenticare quello del buon vecchio Armstrong (Parlophone)"; o ancora: "Ristampano dischi di Beiderbecke e Long [sic], pionieri del jazz hot. Hanno tutto il vigore e l'ingenuità dei primitivi. Long era italiano, come Venuti, come Rollini, tre dei più grandi suonatori di jazz del mondo. [...] È jazz leggero italiano, che scalda come certi nostri vini".

Ecco allora, per concludere, un passo sul quale vale la pena riflettere, pubblicato nell'aprile del 1934 e per molti aspetti in anticipo sui tempi:

Alcuni anni fa era di moda chiedere a uno che libro avrebbe portato con sé in un'isola deserta. Le signore scrittrici rispondevano in coro: la Bibbia. È probabile che le stesse signore scrittrici, a cui sarebbero da aggiungere alcuni scrittori anzianotti, che ci intendiamo, se si chiedesse loro che dischi prenderebbero con sé in una contingenza del genere, risponderebbero: la Nona Sinfonia. Noi, più modestamente, ci porteremmo quanti più dischi di Louis Armstrong potremmo: dall'indemoniato St. Louis Blues ai patetici St. James Infirmare e Dear Old Southland. Ci facciano il piacere di ascoltarli quei nostri musicisti che credono ancora che il Jazz sia Gershwin interpretato da Whiteman.

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