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Henry Threadgill & Zooid

Angelica

Teatro San Leonardo - Bologna - 6.5.2010

Era l'ottobre del 2008 quando Henry Threadgill capitò in Italia con gli Zooid ridisegnati secondo l'attuale line-up, riduzione di quella all'opera nei dischi gemelli Everybodys Mouth's a Book e Up Popped the Two Lips del 2001. Chi scrive ebbe la fortuna di assistere a due esibizioni del quintetto a distanza di pochi giorni una dall'altra: prima a Cormons, per Jazz & Wine, poi a Rovereto, sul palco dell'auditorium del Mart. L'impatto con i nuovi Zooid fu elettrizzante, per certi versi scioccante. E la sensazione che la musica di Threadgill fosse approdata a una nuova, perfetta, quadratura, ha poi trovato meravigliosa conferma in This Brings Us To, Volume 1, che ha messo fine a un silenzio discografico lungo otto, interminabili, anni (e che tra l'altro è stato registrato proprio alla fine del tour europeo dell'autunno 2008).

Mancava, giusto per chiudere il cerchio, un'ulteriore verifica live del dove e del come si fosse evoluto il concetto Zooid un anno e mezzo e un disco dopo il primo ascolto (aspettando, si spera con tutto il cuore, che venga mantenuta la tacita promessa racchiusa in quel Volume 1). Mancava fino a ieri, perchè Threadgill, fortunatamente, è tornato in Italia prima di quel che era lecito attendersi, impegnato in un tris di concerti culminati nell'appuntamento bolognese per l'edizione numero venti di Angelica. Con lui, sul palco del teatro San Leonardo, Liberty Ellman alla chitarra, José Davila al trombone e al basso tuba, Stomu Takeishi al basso acustico e Humberto Elliot Kavee alla batteria, ovvero gli Zooid nella forma quintetto stabile da quasi tre anni.

Una stabilità che ha giovato, perchè il concerto bolognese è andato oltre le già incredibili vette raggiunte in This Brings Us To, Volume 1 e nelle esibizioni del 2008. Difficile non svolazzare di superlativo in superlativo, come un'ape nel giardino dell'Eden, per descrivere quel che si è ascoltato. Musica di una densità a tratti insostenibile, eppure travolgente, squassante, potentissima, da togliere il fiato; di una complessità armonica e ritmica stupefacente, eppure di una freschezza inebriante. Insomma, musica di Threadgill, sviluppo perfettamente coerente della poetica del nostro. Ed è come se con i nuovi Zooid il sassofonista di Chicago sia giunto ad una purificazione della propria arte, una riduzione a puro divenire della materia sonora; come se i meccanismi segreti che l'hanno sempre sostenuta, fin dai tempi degli Air, passando per il Sextett e i Very Very Circus, siano stati portati in superficie, liberi da qualsiasi fronzolo o abbellimento.

Perfettamente coerente, si diceva, e perfettamente riconoscibile, soprattutto sotto il profilo ritmico e timbrico. A caratterizzare il sound del quintetto è l'asse formato da Ellman e Takeishi, che con il suo basso acustico, dalle spiccate doti chitarristiche, lavora a stretto contatto con le sei corde, acustiche pure loro, del compagno di sezione. Il compito dei due è quello di tessere un tappeto di incastri che mutano senza posa, togliendo appigli, spazzando via le certezze, e rendendo il fluire un gioco di contrappunti ad alto tasso d'instabilità (nel quale il beat resta però magicamente e assolutamente percepibile). Al gioco gioca anche la tuba di José Davila, una sorta di basso continuo, tutta spigolature e scarti, tellurica e gorgogliante; mentre la batteria di Elliot Kavee, paradossalmente, è la meno legata a incombenze ritmiche, libera di accentare, sottolineare, lavorare sulle sfumature. Quel che sorprende, in una dinamica complessiva che lascia ampio margine di manovra e libero arbitrio ai singoli interpreti, è quanto siano calati nella musica i quattro. D'altro canto, al pari di Ellington e Sun Ra, Mingus e Miles, una delle doti di Threadgill è sempre stata quella di saper scegliere gli esecutori delle proprie partiture; saperli scegliere e convertirli totalmente al credo, renderli "threadgilliani" fino al midollo. E in questo senso le espressioni compiaciute del nostro in risposta ai soli di Ellman e Takeishi sono la più eloquente delle testimonianze.

Infine lui, Threadgill, in stato di grazia, prodigo di interventi e soli come non capitava di vederlo da un pezzo. Impossibile confondere e non sciogliersi al suono di quel contralto, dal vibrato ancestrale e tragico. Più parsimonioso l'uso del flauto, dove il fraseggio si fa tagliente e perentorio. Il maestro vigila e osserva, sa farsi da parte, dirige e si compiace dei suoi Zooid. Come dargli torto?

Foto di Claudio Casanova.

Ulteriori immagini di questo concerto sono disponibili nella galleria immagini.

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