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Franco D'Andrea passato e presente - L'intervista dei 70 anni
È appena stato pubblicato il suo ultimo lavoro in quartetto (Sorapis, El Gallo Rojo) e tra pochi giorni inizia il tour che celebra il suo compleanno.
Per l'occasione il grande pianista e compositore ci ha concesso questa lunga intervista in cui l'attualità si lega a ricordi - anche inediti - sulla sua carriera.
All About Jazz Italia: In occasione del tuo imminente compleanno, sei in procinto di effettuare un lungo tour italiano. Ce ne vuoi parlare?
Franco D'Andrea: È il tour dei miei settant'anni: la prima parte va dall'8 al 14 marzo, la seconda va dal 26 luglio al 7 di agosto. Il mio agente ha pensato bene di organizzare una cosa per tempo - ci lavoriamo da mesi - per riempire l'anno con una serie di concerti fra cui spiccano quelli col quartetto e col nuovo trio comprendente Mauro Ottolini al trombone e Daniele D'Agaro al clarinetto. È un trio che esiste da un anno ma non abbiamo ancora inciso ed è un po' il successore della formazione con Petrella e Bosso.
Il tipo di ricerca è simile e assomiglia alle cose che si ascoltano nel disco uscito per l'Espresso, guardando al colore degli anni venti e trenta per rivitalizzare.
È un'operazione in cui io credo molto: mentre vado avanti col quartetto guardando il futuro, qui rileggo il lontano passato del jazz per immaginare nuove cose da fare. Soprattutto m'immagino che questo trio sia una specie di hot five senza la tromba e il banjo. È un po' il front line del dixieland che ho in mente.
AAJ: Qual è il repertorio del trio?
F.D.: È un repertorio esteso dove c'è spazio per alcune mie composizioni ed il tratto unificante è questo colore legato al jungle style, agli hot five, all'estetica degli anni venti.
AAJ: E per quanto riguarda il quartetto?
F.D.: Quest'anno compie 15 anni. Abbiamo iniziato nel 1996 con Alex Rolle alla batteria, che purtroppo è mancato, e da sei anni c'è Zeno de Rossi. Nei concerti del tour il quartetto avrà come ospite Dave Douglas mentre al trio si unirà Han Bennink. Col solo quartetto abbiamo inciso in studio tempo fa ed è pubblicato dall'etichetta El Gallo Rojo. Il titolo è Sorapis, come la montagna delle Dolomiti.
AAJ: Com'è nata la collaborazione con Dave Douglas?
F.D.: Conosco Dave da un paio d'anni. Il primo incontro è avvenuto nella rassegna che si tiene a Merano, per la precisione nel workshop che dirigo. Dave Douglas era stato invitato col suo gruppo Brass Ecstasy, che a me piace molto, ed in una delle jam session notturne venne a suonare anche lui. Ci siamo conosciuti, abbiamo iniziato a confontarci e mi venne l'idea di invitarlo l'anno successivo come artista residente del seminario. Lo avevamo già fatto con Don Byron o Mike Manieri, ovvero ospiti che spiegavano la loro musica agli allievi e guidavano un loro gruppo con intenti anche didattici. Ero curiosissimo di ascoltare il lavoro di Dave e capivo che era un artista stimolante e di grande valore. Così s'è rivelato quest'anno a luglio quando ha partecipato al seminario e in quell'occasione abbiamo anche suonato assieme.
Anche lui era incuriosito dal mio lavoro con gli allievi e assisteva alle lezioni in cui spiegavo le combinazioni di intervalli che ho iniziato col Modern Art Trio.
AAJ: Interveniva?
F.D.: No, ma un giorno è stato buffo. Io usavo anche un gruppo e un giorno vedo lui seduto al posto del trombettista che mi dice: "Franco, oggi hai un nuovo trombettista," come se avesse fatto fuori l'altro. Era una bella dimostrazione d'interesse nei confronti del mio lavoro e pian piano abbiamo approfondito la conoscenza artistica e umana.
A questo punto è stato naturale invitarlo a far parte del mio nuovo tour: Dave non è solo un gran musicista ma una persona davvero in gamba. Lui ha accettato e quindi sarà l'ospite del quartetto.
AAJ: Suonerete le nuove composizioni?
F.D.: Dobbiamo decidere perché non avremo molto tempo per provare. Gli ho dato da ascoltare Half the Fun, il precedente disco del quartetto, ma lui conosce anche il lavoro del trio con Ottolini e D'Agaro. La musica del quartetto mi pare gli sia più congeniale e non credo che abbia tanto interesse a scavare nel passato come facciamo noi.
Nel trio verrà quindi Han Bennink che è invece votato a questa specie di splitting tra super antico e super moderno. Il trio con Bennink sarà sicuramente a Trento il 14 marzo.
AAJ: La scelta di Bennink è entusiasmante. Non avete mai suonato assieme?
F.D.: No mai, anche se ci conosciamo da tempo. La scelta nasce soprattutto per la sua lunga collaborazione con Daniele D'Agaro quando lui stava in Olanda. Recentemente si erano parlati e il batterista ha espresso il desiderio di unirsi a noi. Probabilmente faremo altre date in un periodo più tardo, verso l'autunno.
AAJ: Vorrei che mi parlassi un po' dei tuoi inizi. Negli anni cinquanta in Italia non esisteva alcuna didattica per il jazz. Imparavi dai dischi?
F.D.: Si, non c'era altro modo. Si poteva imparare qualcosa sulla tecnica dello strumento ma non sulla musica.
AAJ: A Merano c'era qualche musicista cui far riferimento?
F.D.: Quand'ero adolescente il più noto jazzman presente in città si chiamava Toti Codispoti e suonava la batteria. L'ho poi rivisto trent'anni dopo, quando s'era trasferito sul lago di Garda. Lui era un punto di riferimento ma a Merano passavano i musicisti dei night club che conoscevano bene il jazz. Quando arrivavano stabilivo dei contatti e imparavo delle cose. Non avevo ancora l'età per entrare nei club ma potevo farlo il pomeriggio durante le prove. Uno di questi locali era il Ca' De Bezzi, sotto i portici, dove suonava un ottimo pianista/fisarmonicista appassionato di Lennie Tristano, che aveva appreso il suo stile.
Un altro club era Il Perla dove passavano altri musicisti. Non potendo entrare mi piazzavo dove c'era la grata dello sfiatatoio e mi arrivava il suono: ho ancora impresso nella mente un clarinettista molto bravo che poteva essere perfino Hengel Gualdi.
Un terzo locale era così piccolo che poteva suonarci solo un bassista e un pianista, anch'egli appassionato di jazz, che andavo a trovare per capire qualcosa.
AAJ: In quegli anni nel piccolo mondo del jazz italiano imperava lo stile West Coast...
F.D.: Si, erano i dischi più facilmente disponibili, anche a Merano. Ne consegue che ho ascoltato prima Shorty Rogers di Bud Powell, oppure Pete Jolly o Hampton Hawes.
Erano belli i Contemporary e ben distribuiti... la mia fulminazione iniziale avvenne quand'ero ancora piccolo. A casa di un amico, che aveva un fratello appassionato, ascoltai un disco di Louis Armstrong con gli All Stars e rimasi fulminato. Se avessimo messo il disco sbagliato forse non mi sarei innamorato del jazz.
L'ho poi risentito molti anni dopo e mi resi conto che fu una delle cose più belle registrate da Armstrong negli anni cinquanta.
AAJ: Che brano era?
F.D.: Era una versione di "Basin Street Blues" con Trummy Young al trombone, Barney Bigard al clarinetto, Billy Kyle al pianoforte. Tra le varie versioni è quella che - ancora oggi- mi piace di più. Non è facile da trovare. L'ho avuta 15 anni fa grazie a Vittorio Castelli.
AAJ: La prima attrazione non è stata quindi per il pianoforte...
F.D.: Agli inizi ho suonato la tromba, il clarinetto, il soprano e solo ascoltando il jazz più moderno sono passato al pianoforte, per capire come suonavano i giri armonici, gli accordi alterati eccetera. Il piano l'avevo in casa e in questo fui aiutato da un trombettista altoatesino, Klaus Senoner, che mi teneva aggiornato sul jazz allora attuale. Nel frattempo m'ero legato ad una cerchia di amici che amavano questa musica e suonai con loro alcune volte, spesso la tromba e il clarinetto.
AAJ: Quando ti sei trasferito per gli studi a Bologna sapevi già suonare quindi...
F.D.: Neanche troppo direi, perché il pianoforte l'avevo preso in mano tardivamente. Avevo suonato di più la tromba o il clarinetto. La mia forza stava nell'aver suonato fin dall'inizio il jazz. Questo mi aveva dato l'impronta giusta, avevo assaporato quella famosa cosa chiamata swing... e questo mi è stato davvero utile. Sul pianoforte era veramente arduo farsi una tecnica ma ricordo perfettamente di non essermi concentrato solo su quella ma soprattutto sulla musica. In questa maniera riuscivo a muovermi con efficacia perché facevo le cose che amavo e imparavo con grande piacere. Questo mi ha consentito di bruciare le tappe.
AAJ: A Bologna suonavi ancora jazz tradizionale?
F.D.: No no. Ho iniziato subito a suonare jazz moderno però ho fatto anche un tour in Spagna con la Rheno Dixieland. Alla tromba c'era Franco Tolomei e Pupi Avati al clarinetto. Poi a Bologna ho conosciuto Lucio Dalla che aveva delle vedute molto vaste, e una collezione di dischi comprendente Monk ma anche di Don Ellis.
Hai capito? Erano le cose sperimentali dell'epoca e le ascoltavo a casa sua. Io ho sempre ammirazione per Lucio. Non è solo un grande della canzone italiana ma all'epoca, nel jazz, sapeva fare tutto, dal tradizionale al moderno. Con lui ho suonato nel mio primo festival importante, nel 1962 a Bled, in Slovedia. Era un posto elegante e c'era la residenza estiva del maresciallo Tito, quando esisteva ancora la Jugoslavia. Eravamo in quartetto e ricordo che nel nostro repertorio c'era anche un pezzo di Dolphy, "245".
AAJ: L'esperienza successiva fu a Roma con Nunzio Rotondo...
F.D.: Fu un bassista di Bologna, Maurizio Majorana, che nel 1963 mi raccomandò a Nunzio. Con lui ho iniziato la mia vera carriera professionale.
AAJ: Avevi già assimilato l'influenza di Bill Evans?
F.D.: Si ma prima di lui avevo apprezzato Oscar Peterson, Erroll Garner ed i pianisti californiani che si riferivano un po' a Bud Powell come Russ Freeman, Pete Jolly ed Hampton Hawes. Mi piacevano anche Bobby Timmons e Victor Feldman. Poi arrivò Bill Evans, già quand'ero a Merano, con Portrait in Jazz registrato in studio con La Faro e Motian, un disco che mi colpì parecchio.
A tutt'oggi penso che i primi dischi di Bill Evans restino i più belli... sarà per il trio formidabile che aveva ma anche per il modo più incisivo di suonare...
AAJ: C'era ancora Bud Powell nel suo stile...
F.D.: Infatti io lo percepivo chiaramente. Venendo da Russ Freeman il mio gusto andava da quella parte. Forse se Bill Evans non avesse avuto quell'influenza mi avrebbe colpito di meno...
AAJ:È stato difficile liberarsi dalla sua influenza?
F.D.: Non è stato mica facile! Gli altri influssi che avevo recepito mi avevano preparato a suonare sintesi più ampie ma devo ammettere che per un periodo la sua influenza è stata forte.
Poco dopo l'ascolto di Evans mi aveva anche colpito Herbie Hancock nel disco Miles In Europe ed il suo stile era davvero impressionante. Allo stesso modo avvenne per le cose di McCoy Tyner con John Coltrane. È stata la triade di pianisti che mi ha influenzato di più.
AAJ: Saltando in avanti nella tua carriera, è vero che il Perigeo fu un mezzo fallimento economico?
F.D.: Assolutamente si. Noi ci mettemmo tre anni per attrarre un po' di gente ma la popolarità durò un paio d'anni perché il gruppo si sciolse. La situazione all'epoca era problematica ed ai concerti non si era mai sicuri d'essera pagati.
Magari ti sentivi dire: "I vostri fans hanno spaccato le poltrone, i soldi chi ce li da?". In pratica andò quasi in rimessa, abbiamo guadagnato pochissimo rispetto a quello che si può immaginare...
AAJ: Pensare che qualcuno vi accusava di fare jazz-rock per motivi economici...
F.D.: Noi cercavamo nuove idee, che comprendevano anche l'uso dell'elettronica in un contesto jazz. Giovanni Tommaso era sì interessato alla svolta elettrica di Miles ma anche al progressive rock inglese, quello di Keith Tippett, Soft Machine eccetera.
Io, che venivo dall'esperienza del Modern Art Trio, cercavo misture che riguardassero anche la sperimentazione, che lo stesso Miles faceva in dischi come At Fillmore.
AAJ: Un'altra tappa importante della tua carriera sono stati i dischi Dialogues with Super Ego ed Es...
F.D.: Quelli hanno segnato l'inizio della mia seconda vita artistica, nel 1980.
AAJ: Come mai quei titoli chiaramente psicoanalitici?
F.D.: In realtà io ebbi veramente bisogno di andare da uno psicoanalista per un paio d'anni.
Avevo una gran confusione dopo quel primo periodo della mia vita stracolmo di emozioni, con cambiamenti anche molto marcati di stile, di ambienti frequentati. Non ero sicuro della direzione da prendere per la mia musica... se mai fosse nata una mia musica.
Ero in mezzo a un guado e l'ho attraversato proprio con Dialogues with Super Ego ed Es.
AAJ: La psicoanalisi ti aveva aiutato?
F.D.: Assolutamente si. Naturalmente devi trovare il terapeuta giusto. Il mio era un freudiano ortodosso quindi praticamente parlavo sempre io... però la cosa mi aiutò moltissimo. Ho fatto più chiarezza dentro di me e si sono aperti "i rubinetti del mio inconscio". Da quel momento inizia la mia musica.
AAJ: Tu hai dato e continui a dare ampio spazio a giovani musicisti. Quali solo le qualità che più apprezzi in ognuno di loro?
F.D.: Al dialogo diretto coi giovani sono abituato. I giovani li ho visti sempre da quando ho iniziato la mia attività didattica, subito dopo l'esperienza col Perigeo. Per quanto riguarda i miei gruppi, gradisco avere una sorta di mistura generazionale. In quello degli anni ottanta c'erano Tino Tracanna e Attilio Zanchi che erano molto giovani assieme a Gianni Cazzola che aveva già molta esperienza. Anche nel mio ultimo quartetto c'è Aldo Mella che ha qualche anno in più degli altri. Io sono un po' il grande vecchio e con me c'è uno che fa da trait d'union con i giovani e crea questo raccordo comunicativo tra me e loro. Mi piace che si confrontino background musicali diversi. Questo arricchisce moltissimo.
AAJ: Tra i molti incontri con jazzmen stranieri quale ricordi con maggior piacere?
F.D.: Mi viene subito in mente Gato Barbieri. È il primo musicista non italiano che ho incontrato con enormi capacità di comunicazione, impeto e feeling. Quando l'ho conosciuto, a Roma nel 1964, io avevo 23 anni e lui era una forza della natura. Suonava seguendo abbastanza Coltrane e poi sviluppò lo stile in modo personale. Lo si vede nei dischi con Don Cherry e poi con la svolta latina. C'è poi una lunga schiera di musicisti americani con cui ho suonato e diventa difficile selezionare tra i ricordi... nel mio periodo romano c'è ancora Steve Lacy che sperimentava in modo così profondo ed estremo che è difficile immaginare oltre. Cercava tutti i suoni fuori dalla normalità del sax soprano, una ricerca pervicace che lo portava a sperimentare cinguettii, triple note o cose molto effettate, in un ciclo di sperimentazione sbalorditivo.
Poi ricordo i grandi vecchi del jazz americano: Dexter Gordon, Johnny Griffin, Don Byas, Frank Rosolino... tutti musicisti con cui ho suonato o registrato dischi.
AAJ: Quali altri interessi coltivi oltre la musica?
F.D.: La montagna. Mi piace fare lunghe passeggiate e sci di fondo. Appena posso torno sempre in montagna, soprattutto in Val di Fiemme. Amo le Dolomiti che mi appaiono delle montagne fantasiose e mi piace sempre vederle da punti di vista diversi. Sono come sculture e girandoci intorno si scoprono sempre nuovi particolari.
AAJ: Vorrei concludere con un tuo punto di vista sulla parabola che ha percorso il jazz italiano. Pregi e difetti del jazz italiano di 50 anni fa e di oggi...
F.D.: Il jazz italiano è arrivato al livello attuale quasi di colpo. Nel giro di dieci anni il jazz italiano aveva recuperato tutte le cose per le quali era indietro rispetto al jazz europeo. Già negli anni ottanta/novanta avevamo un livello tale che i migliori musicisti potevano affrontare qualunque situazione in qualunque punto del globo. Oggi il jazz italiano presenta una varietà inconsueta in altri paesi europei. Un po' come il nostro territorio che va dalla montagna al mare, abbiamo quasi tutto.
Foto di Claudio Casanova
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