Home » Articoli » Interview » Francesco Forges, non chiamatelo "vocal coach"

Francesco Forges, non chiamatelo "vocal coach"

By

Sign in to view read count
All'omologazione vocale dei talent show contrappongo la biodiversità vocale basata sul concetto di singolarità, che poi è quello che muove l'interesse per un cantante e che ci permette di ascoltare voci uniche
Flautista, cantante, compositore, docente, Francesco Forges è un musicista fuori dagli schemi. Da più di vent'anni è coinvolto nella creazione e direzione di gruppi e progetti in cui la voce è protagonista. Ogni formazione è per lui un'occasione per sperimentare le suggestioni più diverse, dal jazz alla lirica, alla poesia, al teatro, alla coralità contemporanea, alla world music. Ma guai a chiamarlo "vocal coach..."

All About Jazz: Nel tuo profilo Facebook ti definisci "everything but a vocal coach." Un riferimento all'overdose di talent show da cui siamo sommersi o c'è dell'altro?

Francesco Forges: insegno da venticinque anni, indubbiamente il riferimento è la grande diffusione nell'ambito della docenza da una decina d'anni di questa figura nuova che si definisce "allenatore della voce." Addirittura c'è un tizio negli Stati Uniti che si definisce vocal coach di Stevie Wonder, immagino che non insegni a cantare ma che sia un allenatore di voci che già cantano, come avviene anche in Italia soprattutto nel mondo dei talent show. In ogni caso il mio riferimento è abbastanza polemico, il prossimo anno in primavera uscirà un mio piccolo saggio per Crac Edizioni dedicato anche a questo fenomeno.

AAJ: Chi ti ha iniziato alla musica e come hai cominciato la tua carriera di musicista?

FF: Ho iniziato da ragazzino, non vengo da una famiglia di musicisti anche se c'era un cugino di mia madre che era un compositore abbastanza noto, Vieri Tosatti. Ha scritto diverse opere tra cui anche "La Partita a Pugni" i cui protagonisti sono due pugili. Inizialmente con i miei primi gruppi ci ispiravamo alle formazioni del periodo considerate prog, la mia prima esperienza professionale è stata con gli Allegri Leprotti, una band ancor oggi considerata prog e che fa parte del movimento Rock in Opposition in cui suonavo il flauto e cantavo.

AAJ: Come hai deciso poi di dedicarti in prevalenza alla voce?

FF: il primo approccio è avvenuto intorno ai diciotto anni, a Milano, sono andato a un seminario con Maggie Nicols di cui seguivo già i concerti e quelli del Feminist Improvising Group, quell'esperienza fu anche l'occasione per incontrare alcuni musicisti che avrei poi rivisto nel corso degli anni. Dopo il diploma di conservatorio in flauto non sapevo bene cosa fare, ma proprio in quell'anno è esploso Bobby McFerrin e fu un'illuminazione, era qualcosa di completamente diverso rispetto ai cantanti europei che avevo ascoltato fino a quel momento.

AAJ: C'era un uso strumentale della voce che ti interessava?

FF: Si certamente ma da qualsiasi punto si voglia vedere quella di Bobby Mc Ferrin per il canto è stata una rivoluzione, per cui ho deciso la mia strada.

AAJ: Sei un artista eclettico, hai attraversato nel corso della tua lunga carriera molti generi musicali, jazz, rock, prog, world music, lirica, musica antica. Qual è il filo conduttore che hai seguito nel tuo percorso artistico?

FF: È abbastanza cambiato nel corso del tempo, in seguito a degli incontri, anche abbastanza casuali. Sicuramente non sono specializzato in niente che dal punto di vista professionale non è il massimo ma ho potuto così alimentare la mia curiosità di sperimentatore e di esecutore. Io comunque mi considero un musicista, non un cantante I cantanti sono un'altra cosa, e li ammiro molto. La voce per me è stato un mezzo per liberarmi dalle tante costrizioni che il flauto mi imponeva; mi ha dato qualche chance in più per sviluppare il mio mondo compositivo e improvvisativo.

AAJ: Quali sono stati gli ascolti musicali per te più significativi?

FF: La lista è lunghissima, continuo ad ascoltare tante voci anche nuove in tutti i campi. Ho ascoltato con curiosità Jacob Collier ultimamente ad esempio, è sicuramente un talento straordinario, anche se è molto giovane la sua via c'è già. Il suo curriculum parla chiaro, da bambino ha cantato le opere di Benjamin Britten, e poi ovviamente ha ascoltato Stevie Wonder ma anche i The Beach Boys a cui si ispira quando armonizza la voce con il suo strumento, infatti la canzone che da il titolo al suo album è "In My Room," bellissimo brano dei Beach Boys. Ma in Collier si sentono anche le influenze di Britten, compositore a cui anch'io sono molto legato.

AAJ: E gli incontri artistici che ti hanno cambiato la vita?

FF: Negli ultimi anni sicuramente Beñat Achiary, un vocalista basco che unisce in maniera molto netta, ma anche in modo separato, la musica tradizionale della sua zona all'improvvisazione e alla poesia. Ha una voce che non ha niente a che fare con il jazz ma è sicuramente il mio maestro, ci conosciamo personalmente da dieci anni, abbiamo diverse collaborazioni alle spalle tra cui anche un disco assieme (Desapartactions di One More Language). Lui ha cambiato completamente il mio modo di pensare, dal punto di vista musicale, didattico, artistico, nonostante abbia una visione e una storia completamente diversa dalla mia.

AAJ: E altri musicisti per te significativi?

FF: Ricordo il mio insegnante di flauto al conservatorio, Glauco Cambursano, che fu per più di quarant'anni primo flauto solista dell'Orchestra del Teatro alla Scala di Milano, una figura molto carismatica. Come spesso avviene in questi casi con lui ebbi un rapporto conflittuale anche perché all'epoca non era molto accettato il fatto che si potesse suonare jazz o "popular music" in conservatorio. Sono poi molto legato a Anna Lauvergnac, una cantante triestina con cui negli anni '90 assieme anche a Maurizio Nobili abbiamo avuto un trio vocale che si è esibito in vari festival anche se purtroppo non ha mai inciso un disco. Da loro ho imparato moltissimo sul jazz vocale, indirettamente è come se fossi andato a lezione dai loro maestri, da Sheila Jordan, Andy Bey, Mark Murphy e che oggi sono il mio mondo di riferimento nell'ambito del canto jazz. E poi Gianni Lenoci.

AAJ: Con Gianni Lenoci hai una collaborazione intensa che dura da molti anni, come vi siete incontrati?

FF: Ci siamo conosciuti a Matera, in occasione di un laboratorio molto interessante condotto da un altro musicista per me molto rilevante, Bruno Tommaso, l'orchestra Zétema. Ci siamo poi persi di vista e ci siamo ritrovati nel nuovo millennio tramite Internet e abbiamo dato seguito al progetto di formare un duo, che esisteva già all'epoca. È un duo che lavora sulle poesie e che prosegue la via intrapresa con Beñat Achiary, musicista che ho potuto incontrare tramite Lenoci.

AAJ: Vivi a Milano ma hai una visione "transculturale" della musica che porti avanti da almeno un paio di decenni, in particolare con il tuo progetto "One More Language" che coinvolge musicisti di tutto il mondo. Puoi raccontarci la tua visione di musica "globale"?

FF: "One More Language" è un progetto attivo ma in questo momento un po' dormiente. È un'unione di varie esperienze, dal coro Canto Sospeso di cui ho fatto parte e che esegue musica di tutto il mondo all'incontro con Shinobu Kikuchi, cantante e compositrice giapponese che è stata la mia socia in questo progetto fino al 2011. Ho incominciato a scrivere per voci e ad avere un rapporto più intenso con i testi poetici, "One More Language" è stata l'unione dell'esperienza del coro con quella del trio vocale e anche di tutte le musiche con cui ho avuto a che fare. Ho coinvolto musicisti, musiche ed esperienze per me importanti in un unico progetto con musiche di origini differenti, c'è l'influenza di Giovanna Marini, cantante, compositrice ed etnomusicologa con cui ho approfondito la musica di tradizione orale e il suo approccio estetico, anche se non l'ho mai cantata, o Francesca Breschi. Ma è presente anche l'improvvisazione, nel secondo disco ad esempio ci sono brani di Wayne Shorter.

AAJ: La tua ricerca artistica soprattutto negli ultimi tempi si fonda sulla voce, e in particolare sul rapporto tra musica, composizione e parola. Puoi dirci qualcosa di più su questo aspetto?

FF: Da sempre mi interessa la poesia e il suo rapporto con la musica, ho sempre musicato poesie anche per i gruppi vocali. Il filo conduttore nel duo con Gianni Lenoci e anche nel disco su Strayhorn è il testo poetico, che utilizzo come struttura del brano e per l'improvvisazione. Il testo è preesistente, in tutte le lingue, ognuna nel suo suono. Ho sempre cercato cantanti che cantassero nella loro lingua, ho chiamato Beñat Achiary ad esempio che ha cantato in spagnolo ma anche nella lingua della sua regione d'origine.

AAJ: Nei tuoi progetti sembri molto legato a una dimensione intima e segreta della musica, anche nelle produzioni più recenti, da "Micro Strayhorn" per Musica Cruda che indaga la figura di Billy Strayhorn leggendario e misterioso collaboratore di Duke Ellington fino alla tua ultima produzione "NEVEr" per Petit Label (FR)/Bunch Records (IT) in duo con Gianni Lenoci. È così?

FF: In merito al rapporto tra Strayhorn e Ellington li considero come se fossero Bach e Handel, è un mondo ormai lontanissimo, nessuno compone o suona più come l'orchestra di Ellington. Sicuramente ho indagato su Strayhorn -che rappresenta il lato oscuro di Ellington più che il suo braccio destro -in particolare, con la mia tesi di laurea in conservatorio che si intitola "Strayhorn e il mistero." Il fatto stesso che in maniera molto evidente lui si ispira all'impressionismo francese è interessante, il titolo della mia tesi si ispira a un saggio del filosofo Vladimir Jankélévitch che si intitola "Debussy e il mistero." È una dimensione non esplicita della musica, una sorta di minimalismo, che va applicata in quel contesto, dimensione che in Ellington invece è totalmente esplicita.

AAJ: Che idea ti sei fatto del mistero di Strayhorn?

FF: Una delle cose chi mi rende più felice è guardare i video in bianco e nero dell'orchestra di Duke Ellington dal vivo, specialmente la prima parte dei loro concerti riservata ai brani più sperimentali. C'è dentro di tutto, è una dimensione quasi primitiva con Ellington che urla, si dimena, musicisti straordinari, è qualcosa di oggi irriproducibile. Producevano a ciclo continuo, come Bach e Haendel. Strayhorn scriveva, non suonava quasi mai e ogni tanto piazzava i suoi colpi, dagli accordi sovrapposti alla Stravinsky, ispirati agli impressionisti, che ancora di più si sentono nei suoi dischi, abbastanza misconosciuti. C'è un disco in particolare del 1961, il mio anno di nascita, The Peaceful Side of Billy Strayhorn registrato a Parigi, in una o due notti in studio, perché di notte lo studio di registrazione costava meno, assieme a un quartetto d'archi e un quartetto di voci. Un'opera che mostra il lato più notturno di Strayhorn, una figura molto particolare, molto moderna. Con il mio disco ho fatto un'esplorazione accurata, una sorta di lettura al microscopio, mantenendo comunque la fedeltà al testo e ai temi e lavorando sulla parte armonica, a volte semplificandola. C'è anche una versione in programma per organico più ampio che però non ha ancora trovato un produttore.

AAJ: A quali progetti ti stai dedicando in questo periodo?

FF: Ho già citato il mio saggio di prossima uscita per la Crac Edizioni che molto probabilmente si chiamerà "Critica della Voce," affronterà temi diversi che hanno a che fare con la didattica della voce. Nasce in particolare dall'osservazione di quanto accade nei talent show, che, nonostante all'apparenza si basino sulla ricerca dell'X Factor, tendono a mostrare dei personaggi a cui corrispondono voci standardizzate. Io chiamo questo omologazione vocale a cui contrappongo la biodiversità vocale basata sul concetto di singolarità, che poi è quello che muove l'interesse per un cantante e che ci permette di ascoltare voci uniche. La tendenza è quella di creare un repertorio sempre uguale e questa cosa si riflette pesantemente nel mio lavoro di insegnante. Molti ragazzi anche quelli iscritti nei conservatori partecipano ai casting dei talent show. Io ho cercato di oppormi facendo un'analisi critica del fenomeno e opponendogli un mondo molto vario che trova soprattutto nella cosiddetta world music, purtroppo devo dire che anche nel jazz ho notato una certa standardizzazione, anche se non dovrebbe essere così. Oltre al saggio poi ci sono gli altri miei progetti, che rimangono sempre tutti aperti.

Foto: Fabio Volpi

< Previous
05:21

Comments

Tags


For the Love of Jazz
Get the Jazz Near You newsletter All About Jazz has been a pillar of jazz since 1995, championing it as an art form and, more importantly, supporting the musicians who create it. Our enduring commitment has made "AAJ" one of the most culturally important websites of its kind, read by hundreds of thousands of fans, musicians and industry figures every month.

You Can Help
To expand our coverage even further and develop new means to foster jazz discovery and connectivity we need your help. You can become a sustaining member for a modest $20 and in return, we'll immediately hide those pesky ads plus provide access to future articles for a full year. This winning combination will vastly improve your AAJ experience and allow us to vigorously build on the pioneering work we first started in 1995. So enjoy an ad-free AAJ experience and help us remain a positive beacon for jazz by making a donation today.

More

Popular

Get more of a good thing!

Our weekly newsletter highlights our top stories, our special offers, and upcoming jazz events near you.