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Enrico Rava, narratore formidabile

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"Enrico è un narratore formidabile". Ha ragione Stefano Bollani nelle note introduttive all'ultimo libro del trombettista, "Incontri con musicisti straordinari" (Feltrinelli 2011). Con lui anche un'intervista diventa in un colloquio a tutto campo, dove le riflessioni si legano ai ricordi e alle valutazioni sulla musica e sulla vita.

Un'intervista non è mai la trascrizione stenografica di domande e risposte. A maggior ragione non può esserlo con Enrico Rava (anche solo per motivi di spazio), ma abbiamo cercato di mantenere la spontaneità del discorsi e la forza, intatta e avvincente, della sua passione per il jazz. Che guarda spesso con gli occhi di quand'era ragazzo, come se non fosse parte anche lui, da tempo, di quel mondo di musicisti straordinari. L'abbiamo verificato di persona in questa intervista condotta a ridosso del suo ennesimo tour degli Stati Uniti (17-26 febbraio 2012).

All About Jazz: Ho iniziato a leggere il tuo ultimo libro, "Incontri con musicisti straordinari", e l'ho trovato così avvincente che l'ho letto tutto d'un fiato. Com'è nata l'idea?

Enrico Rava: L'idea è nata in casa Feltrinelli. Mi hanno chiamato proponendomi di scrivere un libro per la stessa collana che ha già pubblicato quelli di Wynton Marsalis ("Come il Jazz può cambiarti la vita) e di Paolo Fresu ("Musica Dentro") ed ho accettato. La cosa mi è sembrata divertente anche perché l'altro libro che avevo pubblicato per Minimum Fax, "Note Necessarie", nasceva da un'intervista con Alberto Riva che era stata trasformata in un'autobiografia ma non non l'avevo scritta io. Questo è invece scritto interamente da me e devo dire che mi sono divertito un sacco...

AAJ: Quanto tempo hai impiegato?

E.R.: Più o meno sette mesi, ovviamente non lavorando tutto il tempo... quando avevo delle serate libere mi ci dedicavo anche se le prime 150 pagine mi hanno appassionato e le ho scritte di getto.

AAJ: Le storie e gli aneddoti sono davvero piacevoli ma la cosa più interessante è forse il ritratto psicologico di tanti musicisti, che porta alla luce quegli aspetti personali che il pubblico non vede. Ce ne sono altri che non sono entrati nel libro?

E.R.: Ho tenuto assolutamente fuori la mia "vita privata," le mie storie, i miei amori... va però detto che questo libro è la punta di un iceberg perché gli ultimi trent'anni li ho molto sintetizzati altrimenti sarebbe venuto fuori un libro di mille pagine... forse per questo motivo ho in mente di scrivere ancora sulle mie vicende biografiche e ho sviluppato anche le trame di alcuni racconti... Mi piace molto scrivere e l'ho fatto parecchio in passato, tra cui articoli, prefazioni e persino una seconda di copertina per un libro di Julio Cortazar... diciamo che mi preparo per quando non ce la farò più a suonare...

AAJ: All'inizio del libro scrivi che il musicista non è un mestiere per vecchi. È insolito affrontare così di petto la questione dell'età perché di regola è una cosa che la gente nasconde...

E.R.: Può nasconderlo finchè vuole ma si vede lo stesso... e chi si maschera non fa che peggiorare. Penso a quelle donne rifatte che sarebbero delle bellissime anziane e invece diventano orrende. Io avevo una zia che è vissuta fino a 97 anni ed era splendida, una bella signora della sua età. Adesso anche gli uomini si tingono i capelli, anche un sacco di musicisti, il più delle volte con risultati penosi... purtroppo è un periodo in cui conta molto apparire...

Poi oltre all'aspetto fisico c'è il make up musicale, ovvero creare una musica che è solo tecnica e nient'altro. Io sono appena arrivato da Parigi e qualche giorno fa ho partecipato al blindfolfd test di "Jazz Magazine" dove tra i tanti trombettisti che mi hanno fatto ascoltare c'era Peter Evans, uno di cui si parla molto in questo momento. Ha una tecnica pazzesca, da far impallidire Marsalis, ma fa una versione di "Stardust" che secondo me è orripilante... sembra una macchina e non capisco che senso abbia. Una nota di Chet, di Bix o di Miles valgono l'opera omnia di questi superdotati...

AAJ: In "Incontri con musicisti straordinari" ricordi il tuo periodo romano. Hai conosciuto Umberto Cesari e Nunzio Rotondo?

E.R.: Umberto Cesari assolutamente no. Ho sentito delle sue cose su disco ma devo dire che non mi hanno entusiasmato, visto che ne ho sentito parlare come la versione italiana di Art Tatum... molto bravo certamente ma non mi ha "ucciso".

Nunzio invece lo conoscevo benissimo ed è stato uno dei trombettisti che agli inizi mi hanno influenzato... aveva uno dei più bei suoni di tromba che abbia mai sentito. Purtroppo il suo periodo d'oro è stato verso la fine degli anni quaranta, ovvero l'epoca in cui suonò al Festival di Parigi. Io avevo dieci anni ma me l'anno hanno raccontato: inizialmente fu accolto con derisione - i francesi non credevano che avessimo jazzisti di livello internazionale e in più non erano particolarmente ben disposti nei nostri riguardi - ma quando suonò quel suo magico brano "Stelle Filanti" li ha stesi. È un peccato che già dai primi anni cinquanta abbia smesso di suonare in giro: aveva dei programmi in RAI e si chiuse per anni in quegli studi a registrare le sue trasmissioni.

AAJ: Si dice che fosse un po' bizzarro....

E.R.: Si. Se doveva uscire da una stanza camminava all'indietro perché era molto superstizioso e pensava che questo gli portasse fortuna. Era totalmente avulso da ciò che succedeva e ricordo un fatto degli anni settanta quando Coltrane era ormai morto. Lo incontrai e mi disse: "Aho, ho ascoltato un nuovo batterista davvero gagliardo... si chiama Elvin Iones". Lo pronunciava proprio così, con la lettera I al posto della J. Era rimasto fermo alle sue cose e alle sue storie. Andava in giro per Roma con una cartelletta dove teneva la lettera che gli aveva scritto Sonny Rollins anni prima, la foto sua con Gillespie, quella con Armstrong e Nini Rosso e le mostrava a tutti, quasi fossero dei feticci...

Bisogna però dire che ad di là di questo è stato un grande artista, il primo jazzman italiano a tempo pieno. Poco dopo siamo venuti io e Franco D'Andrea mentre tutti gli altri - anche i grandi come Basso, Valdambrini o Piana - lavoravano nelle orchestre di musica leggera, negli studi d'incisione come turnisti o nelle balere.

AAJ: Qual è il segreto per restare creativi?

E.R.: Beh, tanto per iniziare bisogna esserlo... comunque se vogliamo parlare di me io direi la passione. In me è addirittura aumentata da quando ho iniziato all'età di 18 anni. Tra i miei coetanei sono pochissimi quelli che continuano ad essere curiosi... uno è sicuramente Franco D'Andrea e l'altro è Dino Piana che all'età di 82 anni ha la passione e l'apertura mentale di un ragazzino. Quando improvvisa, ed è stato di recente ospite del mio quintetto dialogando con Petrella, è estremamente creativo e sorprendente. Suonare con lui è sempre un piacere immenso.

In generale io non suono frequentemente con miei coetanei perché in genere si sono cristallizzati in quello che facevano quand'erano al massimo della loro efficienza e tendono a esaltare quel passato. Molti hanno nostalgia per gli anni settanta che per me sono stati un periodo orrendo. Erano gli anni di piombo ed in musica era difficilissimo fare un concerto in un teatro. Con la storia della creatività al potere come minimo uno doveva suonare in cima a un campanile e l'altro a cavallo di un asino... una sorta di dada di ritorno. Si giocava a fare i surrealisti decenni dopo.

AAJ: Nessuna nostalgia dunque?

E.R.: Avrei voluto esserci nel periodo in cui i grandi che hanno inventato questa musica erano ancora vivi e attivi. Da un lato son contento perché ormai sarei già... (ride) però mi dispiace molto di non aver ascoltato Clifford Brown dal vivo, di non essere stato nella 52ma strada di New York a sentire Bird, Bud Powell e tutti gli altri, oppure anni dopo Booker Little e altri grandi. Allora nel jazz le cose si tramandavano in maniera diretta, non c'era la Berklee.

E prima ancora, quando il jazz era la musica popolare ma allo stesso tempo aveva un altissimo livello artistico e creativo. Pensiamo che Duke Ellington faceva anche le serate da ballo, la gente ballava con la sua musica...

AAJ: Ha avuto una speciale accoglienza il tuo progetto We Want Michael sulle musiche di Michael Jackson presentato al Parco della Musica di Roma con l'organico Jazz Lab. Ce ne vuoi parlare? Uscirà un disco?

E.R.: Si, Eicher lo vuol far uscire prima dell'estate...

AAJ: Davvero lo pubblichi con l'ECM?

E.R.: Piuttosto strano non è vero? Anch'io sono rimasto sorpreso. Lavorando con l'ECM l'ho proposto a loro e, aspettandomi un rifiuto vista la diversità estetica, ero pronto a trovare altre soluzioni. Ho mandato la registrazione del concerto di maggio e un attimo dopo mi è giunta la mail con la decisione di Eicher di pubblicare il disco, che raccoglie la musica di due concerti.

Per quanto riguarda Michael Jackson io lo conoscevo superficialmente ma un paio di mesi dopo la sua morte, tornando a casa da un tour ho trovato mia moglie che guardava un DVD del concerto di Bucarest che faceva parte della tournée Dangerous. Mi sono fermato a guardare un attimo e sono rimasto così, col cappotto addosso, fino alla fine. Ero incantato e non potevo staccarmi dallo schermo. Da lì ho iniziato ad approfondire: viaggi in macchina con Michael Jackson a manetta tutto il giorno e ho scoperto cose straordinarie. Le sue ultime cose sono meravigliose e stanno alla sua opera generale come il White Album sta ai Beatles.

Poi ho avuto la fortuna di trovare la persona giusta per realizzare questo progetto ovvero Mauro Ottolini che ha un passato funkeggiante ed è stato bravissimo. Io ho scelto i pezzi, gli ho detto che non volevo per niente jazzificare la cosa ma lasciarla il più possibile vicino all'originale. Non c'è un cantante, abbiamo vari spazi solistici ma i suoni e i ritmi sono quelli.

AAJ: Quali sono i dischi che metteresti al vertice della tua attività?

E.R.: Uno che mi piace moltissimo è Quartet della ECM con Roswell Rudd, poi ce n'è uno della Japo che in CD si trova solo in Giappone e si chiama Quotation Marks. Mi piacciono ancora molto Easy Living, The Words and The Days e l'ultimo Tribe, sempre per la ECM. Di recente, per puro caso, ho riascoltato Rava Plays Rava, inciso anni fa per la Philology con Bollani e mi pare riuscito molto bene. .

AAJ: Ce n'è qualcuno che preferiresti non aver realizzato?

E.R.: Direi String Band, che secondo me è decisamemente brutto. Un altro che non mi piace si chiama Pupa o Crisalide. Era stato realizzato con degli scarti di due registrazioni, una fatta a New York e l'altra a Buenos Aires, dalle quali era uscito Quotation Marks. Era un periodo in cui avevo bisogno di soldi, la RCA mi aveva proposto di fare un disco e abbiamo usato quel materiale... è comunque vero che non sempre le valutazioni coincidono e alcuni critici mi hanno detto di apprezzarlo o che String Band è uno dei miei dischi più belli.

AAJ: È cambiato il tuo rapporto con gli standard nel corso degli anni?

E.R.: No, a me piace suonarli tanto adesso quanto mi piaceva una volta. Non lo faccio molto di frequente proprio perché li amo molto e rischierei di "consumarli". Sono i brani con cui sono cresciuto che ho ascoltato milioni di volte da ragazzo, ancor prima di cominciare a suonare. Li ho assimilati così tanto, li ho talmente dentro, che con loro mi sento come a casa. Grazie all'esperienza che viene dal free jazz il mio approccio con loro è estremamente libero. Li ho talmente interiorizzati che non sto a pensare né agli accordi né alla forma e ovviamente non li eseguiamo come si faceva negli anni Cinquanta Li suoniamo in un modo molto aperto. Ci sono standard che sono un po' delle gabbie e col loro giro armonico devi stare molto attento. Altri invece portano a situazioni più libere e creative.

AAJ: Per esempio?

E.R.: "My Funny Valentine" è uno di questi. È una ballad che avrò suonato migliaia di volte ed ogni volta mi emoziona, ogni volta la suono diversamente. Questa è la grande lezione di Miles Davis, che col famoso concerto del 1964 al Lincoln Center, ci ha detto che cosa si può fare con un brano come quello. Mentre l'approccio di Chet è sempre stato molto tenero ma non va da nessuna parte, Miles crea una tensione quasi insopportabile, ne fa un racconto dalla fortissima drammaturgia.

Un altro brano è "Just Friends" e qui vorrei citare la versione di Wynton Marsalis che è esemplare perchè affronta il brano in un modo a cui non aveva pensato nessuno.

Di fronte a Marsalis mi metto sull'attenti con la bandiera che sventola perché da un certo momento in poi tutti i nuovi trombettisti hanno dovuto fare i conti con quello che lui ha scoperto che si può fare con lo strumento. Poi magari preferisco due note di Chet ma da un altro punto di vista Marsalis è straordinario, con lui lo strumento ha fatto realmente dei passi avanti. C'è un disco di Wynton che mi piace moltissimo, forse l'unico, e si chiama Live at the House of Tribes dove invece di proporre uno dei soliti progetti, interpreta degli standard e lo fa magnificamente. A volte quando sono a casa metto su quel disco e ci suono insieme.

AAJ: Una collaborazione che dura da tantissimo e che è sempre fresca è quella con Aldo Romano. Inner Smile è un disco bellissimo...

E.R.: Grazie. Come dicevamo prima è la passione che ci sostiene. Non so quale sia il meccanismo che mantiene questo però con Aldo ci sentiamo regolarmente ed è uno dei pochissimi musicisti che frequento fuori del palcoscenico. Con gli altri, anche per età e interessi diversi, ci frequentiamo solo nelle occasioni di lavoro, dove siamo come fratelli, ma fuori dal palcoscenico ognuno ha la sua vita privata. Poi mi sento spesso con Dino Piana e con due batteristi torinesi: Franco Mondini, figura storica del jazz torinese, e Giancarlo Coriasso.

AAJ: Che consigli dai ai giovani che entrano nei tuoi gruppi?

E.R.: Quando entrano nei miei gruppi vuol dire che sono super musicisti in cui ho fiducia al mille per cento e hanno quindi la massima libertà all'interno di quella che è la mia visione della musica. Li ho scelti proprio perchè c'è questa visione condivisa. Tra noi non c'è neanche bisogno di parlare, basta un accenno, un suggerimento e loro reagiscono nel modo giusto, che è tale perché è il modo loro, anche se può essere il contrario di quello che mi aspettavo o che avrei desiderato.

Diverso è per i musicisti che vengono ai miei seminari. Io non dò mai consigli ma a volte qualcuno mi chiede se facendo il musicista di jazz si può vivere e quanto si guadagna. La mia risposta è sempre la stessa: se ti fai questa domanda lascia perdere. Uno sceglie la musica perché non ne può fare a meno, sei già pagato dal fatto di suonare. Se insieme a questo premio ti va anche bene economicamente tanto meglio, fai conto di aver vinto alla lotteria.

P.S. - Si segnala la recente intervista ad Enrico Rava fatta da Ian Patterson per le nostre pagine in inglese: "Enrico Rava: to Be Free or Not to Be Free".

Foto di Claudio Casanova.


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