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Dove vive il jazz - L'inevitabile unione di fatto fra jazz e spazio fisico.

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Il testo che segue ha visto la sua prima apparizione nel maggio 2008 all'interno de "I quaderni del jazz 08," pubblicato da Vicenza Jazz in occasione della tredicesima edizione del festival. L'attuale versione risulta da un opportuno ridimensionamento del testo originario. - L'articolo viene riproposto per gentile concessione dell'autore.

1. Jazz e architettura.

In ambito jazzistico non mi risulta che nel corso del Novecento si siano verificati casi rilevanti di un rapporto specifico, intenzionale ed efficace fra musica e architettura (intesa come disciplina, con la A maiuscola). È molto probabile tuttavia che da parte delle numerose istituzioni soprattutto americane (università, fondazioni, associazioni...) siano state pensate nuove costruzioni, o ristrutturazioni, da destinare in via prevalente al jazz.

Con l'ingresso nel ventunesimo secolo invece bisogna registrare la realizzazione di almeno un paio di soluzioni architettoniche ideate appositamente per le rappresentazioni jazzistiche: la nuova sede della Bimhuis ad Amsterdam e la Casa del Jazz a Roma, entrambe fortemente volute dalle rispettive amministrazioni comunali.

Quando, nella seconda metà degli anni Trenta, l'architetto Cesare Pascoletti, allievo di quel Marcello Piacentini che allora imperava nella Roma mussoliniana, progettò Villa Osio (su incarico di Arturo Osio, uno dei fondatori della Banca del Lavoro) non poteva certo immaginare che un giorno il suo edificio avrebbe ospitato un'istituzione pubblica esclusivamente finalizzata alla valorizzazione del jazz. Come non poteva prevedere che prima, negli anni Ottanta-Novanta, sarebbe passato nelle mani di Enrico Nicoletti, boss della "banda della Magliana," che avrebbe apportato alcune pesanti modifiche, per esempio aggiungendo delle aperture improprie nelle facciate principali.

Una volta confiscato il bene nel 1996, a tempo di record, fra la fine del 2001 ed il 21 aprile 2005 (data di inaugurazione della Casa del Jazz), il Comune ha proceduto alla nuova destinazione d'uso, alla progettazione, all'appalto e alla realizzazione dei lavori di ristrutturazione.

In particolare, la fase di ideazione del servizio da ospitare si è basata su un fervido lavoro collegiale. "I contatti furono molti ed intensi - afferma a tale proposito l'architetto Guido Ingrao, progettista dell'intervento - anche per la mancanza di analoghi modelli di riferimento. Il mondo dei jazzisti romani partecipò attivamente alla definizione del "prototipo," con una modalità di tipo quasi assembleare. Ricordo il contributo appassionato e costante di Stefano Di Battista, Danilo Rea e Roberto Gatto. Per quanto attiene le soluzioni tecnologiche ed il suono ebbe un ruolo apprezzabile Pasquale Minieri. Furono coinvolti nella definizione del modello anche importanti organizzatori dell'offerta jazzistica capitolina... La regìa e la sintesi di questa composita partecipazione venne affidata, oltre che al sottoscritto, all'esperienza di Luciano Linzi, delegato a tale compito dal Sindaco Veltroni". Linzi è tuttora il direttore artistico dell'istituzione.

Soprattutto per quanto riguarda il parco e le facciate della villa, il progetto di Ingrao ha teso a recuperare gli eleganti canoni stilistici ed architettonici proposti originariamente da Pascoletti. All'interno invece il nuovo uso pubblico e le nuove funzioni (in primo luogo l'auditorium multifunzionale di 150 posti) hanno reso necessaria una radicale ristrutturazione, suffragata da un adeguato studio sull'assetto distributivo, sull'impiantistica e le attrezzature.

Non molto diverse sono state le procedure che hanno portato alla realizzazione (in questo caso un nuovo edificio e non una ristrutturazione) della nuova sede del Bimhuis ad Amsterdam. Nel 1997 il Comune incaricò lo studio di architettura danese 3xNielsen di progettare, in un'area portuale direttamente affacciata sull'acqua, una struttura che accogliesse due istituzioni musicali collaterali: il Muziekgebow ed il Bimhuis.

L'edificio che ne è risultato, costato 52 milioni di euro, tutti a carico del Comune, presenta una linea architettonica che sembra aver decisamente superato i canoni del postmoderno per proporre piuttosto un articolato neo-razionalismo. Materiali leggeri, un vasto piano terra aperto e ampie vetrate al piano superiore permettono una compenetrazione, anche visiva, fra esterno ed interno. Nel 2005 si è giunti all'inaugurazione delle due istituzioni: nel febbraio il nuovo Bimhuis, il cui auditorium contiene al massimo 370 persone, e in giugno il Muziekgebow, suddiviso in due diverse sale, una di 735 posti e l'altra di 100.

2. La relazione fra jazz, pubblico e spazio fisico.

I due casi esposti costituiscono esempi tanto rari ed anomali di una precisa relazione fra jazz e architettura da non essere rappresentativi di una realtà diffusa, ma piuttosto la risultanza di felici contingenze storiche, economiche e culturali. Se però al termine "architettura" diamo il senso più generale ed onnicomprensivo di configurazione fisica, nonché di connotazione sociale, degli spazi in cui si svolgono le attività umane, e fra queste la produzione di jazz, allora il panorama delle considerazioni possibili si amplia a dismisura.

Nella sua storia ormai centenaria il jazz ha stabilito sempre uno strettissimo rapporto con i differenti spazi che l'hanno ospitato e con i diversi pubblici ai quali si è di volta in volta rivolto. Anzi, proprio da quel rapporto simbiotico ha trovato i motivi della propria funzione sociale, della propria ragione d'essere, ha ricevuto gli stimoli per sopravvivere ed evolversi in forme ed espressioni fortemente caratterizzate.

Significative, e fin troppo citate, furono a tale proposito le varie circostanze che favorirono il proliferare del jazz nella New Orleans d'inizio Novecento. Come pure, la straordinaria concentrazione di musicisti a New York, nel corso di vari decenni, si spiega con l'ampia offerta di occasioni e spazi, ufficiali o alternativi, in cui poter comunicare, apprendere, sperimentare, esibirsi ed incidere.

Analogamente, le capienti sale da ballo degli anni Trenta, le università, i club o i loft di varie città statunitensi, le caves parigine o i pub londinesi, i teatri, le chiese, le piazze, i palasport, i centri sociali autogestiti... hanno rappresentato di volta in volta i contenitori più congrui (o, se si vuole, le matrici fisiche) di stili e messaggi jazzistici sempre diversi, anche se fra loro strettamente intrecciati. In altre parole, la diaspora che ha portato il jazz da New Orleans ai più remoti angoli del mondo, a contatto con le più disparate culture e pronto a dialogare con esse, può essere vista come una progressiva invasione di (o una ospitalità da parte di) spazi sempre diversi.

In definitiva senza il trait d'union, più o meno complice e funzionale, dello spazio fisico, fra il musicista ed il pubblico non potrebbe scaturire alcuna relazione. Per di più la musica afroamericana, lungi dall'essere un linguaggio formale ed accademico, non può fare a meno di rivolgersi ad un preciso destinatario, di entrare in sintonia con esso e di vivere del suo partecipato consenso; anzi delle aspettative e della mentalità del suo pubblico il jazz è l'espressione diretta. Si pensi per esempio alle masse tumultuose, festose e danzanti a cui si indirizzavano le esuberanti orchestre dell'epoca Swing nelle lussuose ballroom, o al contrario, in tutt'altro tipo di locali, al pubblico numericamente irrisorio, compassato e un po' accigliato di certa sperimentazione radicale più o meno recente.

Risulta quindi evidente che non si può parlare di un luogo e di un pubblico ottimali in assoluto, ma piuttosto di un rapporto giusto, coerente, fra una specifica espressione jazzistica, il suo spazio ideale ed un suo pubblico, il più omogeneo possibile. Si può cioè individuare di volta in volta una sorta di equazione, di corrispondenza identitaria fra queste tre componenti, anche se a volte tale corrispondenza può venire disattesa dai fatti.

Con riferimento all'ultimo quarantennio ed alla condizione europea, in particolare a quella italiana, per constatare quanto sia variato nel tempo il modo di fruire il jazz vale la pena di rievocare la forte espansione del pubblico giovanile nella prima metà degli anni Settanta. La generazione della contestazione sessantottina prendeva in considerazione il jazz soprattutto in funzione dei suoi significati politici di protesta, lo vedeva perfino come un bene comune da ottenere di diritto, alla stregua di un servizio della collettività: ecco allora i frequenti «sfondamenti» per entrare gratuitamente ai concerti.

Di conseguenza non si ascoltava con senso critico tutto il jazz, ma solo quello che, rivestendo certi connotati, era in grado di costituire l'eccitante colonna sonora di un rito di aggregazione, di un raduno, non privo di disomogeneità al suo interno, ma indubbiamente carico di grande vivacità, di valori problematici e di partecipazione. Il ruolo di emblemi di questo movimento toccò, in seno al jazz, a protagonisti quali Sam Rivers, Archie Shepp, Gato Barbieri, McCoy Tyner, perfino Sun Ra ed anche Mingus, tornato alla ribalta internazionale a capo di un nuovo gruppo.

Un successo analogo ottennero ovviamente gli artefici del jazz elettrico, in primo luogo Miles Davis e i suoi numerosi discepoli; in misura forse minore si prestò orecchio agli esponenti dell'avanguardia di Chicago.

Queste imponenti concentrazioni di pubblico giovanile trovarono la loro naturale ambientazione nei palazzi dello sport, capienti ma dall'acustica pessima, o nelle piazze: penso per esempio a piazza IV Novembre di Perugia nelle prime edizioni di Umbria Jazz, gremita di una folla variegata e vociante. Né si mancò di utilizzare stadi e parchi.

L'enorme differenza fra la situazione appena ricordata e quella a cui siamo abituati ad assistere negli ultimi decenni non sta tanto nel fatto quantitativo (come Umbria Jazz tuttora insegna, l'affluenza di migliaia di persone si riscontra anche oggi, in occasione di eventi particolarmente spettacolari) e nemmeno nell'aspetto tecnologico (la qualità dell'amplificazione ora è nettamente migliorata rispetto ad allora), bensì nella sostanziale diversità fra le modalità di ascolto. Oggi alla componente socio-aggregativa, al senso di appartenenza a un gruppo sociale si è sostituita la prevalenza di un pubblico pacato ed «educato», forse più disincantato. Sicuramente un pubblico che, salvo rare eccezioni, è anagraficamente molto più anziano e che non si permetterebbe mai di criticare il costo del biglietto. Il che comporta un tipo di ascolto più neutrale, forse più critico ma anche meno partecipe, un po' appiattito, incapace di contestazioni o di esaltazioni, anche quando sarebbero opportune.

A queste mutate condizioni della fruizione corrispondono ovviamente proposte musicali differenti, anch'esse più «educate», tese cioè ad una attenta, consapevole strutturazione formale, facendo prevalere un decantato progetto mentale, una dimensione cameristica, rispetto alla diretta e viscerale espressione di sentimenti ed emozioni. Senza parlare delle diverse forme di revival, del persistere delle diafane ricerche dell'improvvisazione radicale, delle più svariate contaminazioni con varie espressioni della musica etnica, con l'elettronica o con la musica colta. In definitiva, l'attuale atteggiamento del pubblico e gli esiti della recente ricerca musicale non sono che lo specchio dei tempi, l'espressione di più generali mutamenti socio- culturali. Non è facile individuare in modo univoco i palcoscenici, gli spazi fisici di questa situazione in fieri, che sembrano presentarsi amorfi, indifferenziati, intercambiabili. Oggi è la funzione che di volta in volta definisce il contenitore, non l'inverso.

Fra le capitali europee che, sempre a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, hanno maggiormente contribuito alla creatività jazzistica, Londra dispiegava una rete articolata ed imponente di spazi in cui fare musica, a volte in zone urbanistiche marginali e in edifici fatiscenti. Club e pub, teatri di ogni dimensione, associazioni e centri culturali, locali underground e spesso autogestiti costituivano un vero e proprio sistema, che favoriva la mobilità del pubblico e la circolazione delle idee, accogliendo le sperimentazioni di musicisti di diverse provenienze, fra cui spiccava la comunità degli espatriati sudafricani.

All'esempio dei pub di Londra e delle caves parigine, più che al modello dei jazz club statunitensi, è da ricondurre la proliferazione delle osterie che ospitano jazz, verificatasi nelle città italiane a cominciare dagli anni Ottanta. Indubbiamente un fenomeno disomogeneo, mutevole da città a città e da una stagione all'altra, che si differenzia dal precedente storico, forse più sofisticato e mondano, di certi locali notturni degli anni Cinquanta e Sessanta.

Da un punto di vista qualitativo, l'offerta e il consumo jazzistico in osterie, birrerie e altri locali simili si presentano molto diversificate. Solo in rari casi, in presenza di una programmazione attuata con continuità e coerenza, essi riescono a qualificarsi come luoghi deputati al jazz, favorendo un caldo rapporto comunicativo fra i musicisti, prevalentemente giovani emergenti, ed il pubblico degli avventori. Un'indubbia influenza rivestono, in questi casi, la conformazione e la dimensione raccolta degli spazi, dall'acustica non sempre perfetta, ma capaci di stimolare la creatività dei jazzisti ed il confronto fra di loro.

Un'altra componente da prendere in considerazione, determinante nella relazione fra musica, spettatori e spazio fisico, è l'atteggiamento di quei jazzisti che pongono una particolare attenzione agli aspetti comunicativi della loro performance. Da un lato essi sembrano possedere un sesto senso nel captare il grado di ricettività di un pubblico più o meno eterogeneo, dall'altro sono capaci di utilizzare lo stesso contenitore del concerto come elemento integrante dell'espressione musicale.

Viene spontaneo ricordare a tale riguardo le interazioni con il contesto dell'esibizione (ambiente e oggetti) attuate da Han Bennink soprattutto nei decenni passati. In questo caso specifico il forte carattere ironico ed umoristico, la fantasia e la sfrenata gestualità non hanno mai contraddetto un'intrinseca qualità musicale, anzi l'hanno sempre avvalorata dandole quasi la dimensione di un evento dadaista, concreto e surreale allo stesso tempo. Resta il dubbio se nelle incursioni del percussionista olandese subentrasse un intento dissacratorio nei confronti di certe austere istituzioni dello spettacolo, o se al contrario si trattasse solo di un amorevole e complice atto provocatorio, con fini di estrosa comunicazione.

Su un piano diversamente poetico, anche le solo performance dell'indimenticabile Steve Lacy, personaggio di casa nel nostro Paese, musicista aperto a svariati interessi culturali, rappresentavano spesso una progressiva presa di contatto con la sede del concerto. Si configurava così un itinerario alla ricerca di anfratti fisici, di risonanze o di opacità acustiche, di suggerimenti da parte dell'ambiente, nel tentativo di impostare un equilibrio con esso e riuscire ad articolare un'improvvisazione in sintonia con la specifica atmosfera del luogo.

A tale proposito si potrebbero menzionare numerosi altri esempi pertinenti, soprattutto se si risale a manifestazioni tipiche di trenta'anni orsono: dai camuffamenti tribali e rituali dell'Art Ensemble of Chicago, al deambulare vociante, colorato e altrettanto rituale delle orchestre di Sun Ra, dalle invasioni di piazze o spazi più articolati da parte degli Urban Sax, che prevedevano una precisa regìa alla ricerca di un effetto multifonico, alla estroversione funambolica, attenta alle reazioni del pubblico, di uno strumentista virtuoso come Ernst Reijseger. Venendo alla più stretta attualità non si può fare a meno di citare le apparizioni della Shibusa Shirazu, larga formazione giapponese che propone un mirato gusto per l'eccesso e il Kitsch, dal frastornante, coinvolgente impatto sonoro, ed ancor più visivo.

3. Il jazz negli spazi storico-monumentali.

Già nelle considerazioni fin qui esposte serpeggiava un tema di notevole importanza, che ora è il caso di approfondire. Nella sua diffusione internazionale la musica afroamericana si è trovata ben presto ad avere contatti con l'Europa, vale a dire con una serie di nazioni di antica tradizione, dove molto spesso (è il caso soprattutto dell'Italia) ha incontrato il suo pubblico in luoghi storico-monumentali fortemente caratterizzati, di un fascino ineludibile e con un proprio glorioso passato. La casistica di questo tipo di ambientazione, all'aperto o al chiuso, è piuttosto ampia: dai millenari, petrosi ed avvolgenti teatri greci e romani al palladiano Teatro Olimpico di Vicenza, primo teatro coperto del mondo, dalle navate del vasto Duomo di Orvieto a raccolte sedi museali, dai solidi arengari o castelli medioevali a giardini e corti rinascimentali, da una serie infinita di teatri sette-ottocenteschi alle coeve sale affrescate e stuccate di palazzi nobiliari...

In occasione dei festival estivi, numerose cittadine lungo tutta la penisola, per lo più medio-piccole, allestiscono in angoli focali del centro storico le necessarie strutture provvisorie (il palco metallico, le casse acustiche, le sedie mobili...), che, per contrasto, mettono in risalto il contesto monumentale. Tutt'intorno i palazzi, le rocche, le chiese, sapientemente illuminati, costituiscono delle quinte naturali e suggestive, un catino più o meno adatto ad una corretta espansione del suono. In certi casi, inoltre, i musicisti e gli spettatori non sono del tutto isolati dal contesto cittadino (dai negozi, dai bar, dal traffico...) e con esso, nel bene e nel male, devono imparare a convivere.

Constatato che per motivi oggettivi è una peculiarità tipicamente italiana quella di ospitare il jazz in sedi storiche di pregio monumentale, ci si potrebbe domandare come i musicisti da un lato e il pubblico dall'altro recepiscano e vivano questo rapporto con il patrimonio architettonico e artistico che li circonda. Indubbiamente alcuni musicisti americani sono sensibili nei confronti della nostra cultura umanistica, che conoscono ed ammirano sinceramente, a volte avvertendo un senso di inferiorità, in quanto cresciuti in una nazione di cultura più giovane e di tipo pragmatico. Il loro atteggiamento in presenza di sedi concertistiche particolarmente ammirevoli è pertanto rispettoso e tutt'altro che indifferente. Penso ad esempio a un personaggio come Bill Dixon, che in gioventù ha fatto studi artistici e che, dagli anni Cinquanta ad oggi, ha sviluppato la sua attività in vari ambiti estetici, sempre con acuta sensibilità. In più d'una occasione Dixon mi ha rivelato il suo interesse a suonare in Italia in luoghi carichi di storia e di arte.

Nella maggior parte dei casi tuttavia mi pare che non si possa parlare di una particolare ricettività dei jazzmen nei confronti degli ambienti storici. Essi si limitano per lo più a riproporre la propria musica, in maniera più o meno convinta, condizionati dal rapporto con gli organizzatori, con l'amplificazione, col pubblico, piuttosto che dalle peculiarità artistiche della sede concertistica. Non dobbiamo dimenticare che durante i faticosi tour il rapporto dei jazzmen con le città ospitanti è spesso troppo veloce e superficiale per poter essere stimolanti: un incontro talmente fuggevole da non permettere loro di entrare in contatto con la cultura locale.

Per quanto riguarda una buona parte degli appassionati italiani, di diverse generazioni, bisogna considerare che è stata proprio una reazione al tipo di formazione ricevuta, al proprio background culturale, intriso di schemi letterari e accademici, a generare, negli anni giovanili, l'approccio al jazz. Avvicinarsi alla musica afroamericana ha significato abbracciare una cultura 'altra,' per contrapporsi alla cultura dei padri e ridimensionare l'ingombrante retaggio della storia. Ciò si è verificato in alcuni momenti storici più che in altri: sicuramente negli euforici anni della ricostruzione postbellica, come nel problematico periodo della contestazione giovanile. In teoria è quindi pensabile che certi jazzfan, più di altri, colgano uno stridente contrasto fra questo tipo di musica, energica espressione della contemporaneità, e l'occasionale contenitore architettonico, statica e preziosa testimonianza del passato. A tale proposito, ricorro alla mia esperienza personale, rievocando un paio di situazioni significative, che rimangono impresse come flash indelebili nella mia memoria.

La sera del 24 marzo 1969 ascoltai il gruppo di Cannonball Adderley (comprendente il fratello Nat e un efficace Zawinul) alla Sala Bossi del Conservatorio G.B. Martini di Bologna, vale a dire in una delle istituzioni consacrate della musica classica, le cui pareti erano tappezzate da decine e decine di ritratti di musicisti dei secoli passati. L'estroversa musica del contraltista, le sue cadenzate e coinvolgenti introduzioni verbali ed ancor più la partecipazione entusiasta di Mary Lou Williams, che sedeva alle mie spalle in compagnia di un giovane di colore, mi fecero comprendere all'istante e a fondo l'essenza del Soul Jazz, la sua natura in the tradition, immediatamente comunicativa nei confronti di una comunità di adepti. Proprio il contrasto con l'austera ed aulica atmosfera della sala contribuì senza alcun dubbio a rafforzare questa mia percezione dei caratteri del jazz di Cannonball.

Altra suggestione indimenticabile è quella avuta la sera del 24 luglio 1972 all'Arena di Verona, gremita di un pubblico eterogeneo, accorso da ogni parte d'Italia per assistere a un evento unico, una sfilata di stelle del jazz di differenti scuole: Ella Fitzgerald, Phil Woods con la European Rhythm Machine, l'orchestra di Maynard Ferguson, il gruppo di Max Roach, infine il redivivo Charles Mingus. La netta impressione che potei trarre da una simile esperienza (all'interno di quel mitico monumento, da sempre deputato all'opera lirica), fu quella di partecipare ad un rito collettivo, pieno di calore e di ordine, propiziato da una musica multiforme, che dentro di sé racchiudeva diverse anime. Sensazione che, con alcune varianti, da lì a poco avrei incontrato più volte nel corso degli anni Settanta, in occasione di quei raduni di Umbria Jazz, o di altri festival emergenti, sui quali mi sono già soffermato in precedenza.

Merita qualche considerazione specifica infine la collocazione, pluridecennale e di solito rivelatasi funzionale, di concerti jazz nei teatri storici sette-ottocenteschi, concentrati in gran numero nell'Italia centro-settentrionale. La loro acustica perfetta e la conformazione ellittica si sono dimostrate ideali anche per le esigenze sceniche e sonore del jazz, tenendo presente che è indispensabile calibrare adeguatamente l'amplificazione per evitare una fastidiosa sovraesposizione sonora (problema che in questi ultimi anni sembra definitivamente risolto, salvo rare, inspiegabili eccezioni).

In relazione all'inserimento del jazz negli straordinari teatri storici "all'italiana," mi tornano alla memoria alcuni eclatanti esempi di rapporto anomalo. Il primo di questi risale al 3 ottobre 1969: nel prestigioso Teatro Comunale di Bologna, opera di Antonio Galli Bibiena, il quartetto di Wolfgang Dauner aprì l'undicesima edizione del pionieristico Festival del Jazz felsineo con una sorta di happening, che prevedeva una serie di azioni-aggressioni nei confronti delle porte laterali del palcoscenico, dei microfoni, degli strumenti, del pubblico... La carica dissacratoria e provocatoria, che caratterizzò quella performance un po' greve e di dubbio gusto, era rivolta probabilmente proprio al contesto paludato del concerto: teatro, organizzatori e pubblico. Un approccio ben diverso dal tono di volta in volta festoso, surreale, ironico o autoironico dei già citati Bennink e Reijseger o di tanti altri improvvisatori.

La collocazione in un teatro storico si può rivelare talvolta inopportuna, o comunque problematica, soprattutto per alcune forme jazzistiche nate e sviluppatesi in specifici ambienti socio-culturali. Penso ad esempio al movimento MBase, sorto a Brooklyn negli anni Ottanta in una logica di quartiere metropolitano e con finalità di promozione culturale nei confronti dei giovani di colore. Tali esperienze musicali, che in patria trovano come palcoscenico naturale piazze, laboratori, scuole, centri sociali, discoteche, quando vengono proposte in tournée europee raramente vengono ospitate in spazi adeguati. A tale proposito si può ricordare, in un concerto pomeridiano di Verona Jazz '93, la coesistenza del tutto fallimentare verificatasi fra il Teatro Filarmonico (progettato da Francesco Bibiena) e il gruppo di Greg Osby, comprendente alcuni scatenati rappers.

Un esempio di singolare ricontestualizzazione del rapporto jazz-teatro storico, inizialmente disorientante, ma in definitiva efficace, è quello che fu attuato nella primavera del 1996 all'interno del Progetto Jazz del sistema teatrale cremonese. Anche in previsione di una ridotta affluenza di spettatori, in occasione di alcuni concerti tenuti al Teatro Ponchielli di Cremona (del Dave Douglas String Group, del settetto di Bobby Previte...), il pubblico venne fatto sedere nel retropalco; la sala con i palchi flebilmente illuminati faceva pertanto da sfondo alle spalle dei musicisti. Il risultato non fu solo un effetto suggestivo di ribaltamento della logica scenografica, ma soprattutto quello di rompere il tradizionale diaframma fisico fra platea e palcoscenico, rendendo più diretto e coinvolgente il rapporto fra audience e performer.

A cominciare dagli anni Novanta, Vicenza Jazz ci ha dato l'opportunità di ascoltare questa musica all'interno del Teatro Olimpico, capolavoro unico dell'architettura rinascimentale. La programmazione dei concerti è stata opportunamente oculata, prediligendo formazioni ridotte, performance in acustico o con l'amplificazione ridotta al minimo indispensabile ed espressioni stilistiche dai colori tenui. Al Teatro Olimpico è quindi giustamente prevalsa una dimensione cameristica; tuttavia personalmente (a conferma che l'impressione è sempre soggettiva, condizionata da varie componenti) spesso ho trovato la musica inesorabilmente sovrastata dalla straordinaria eleganza e ricchezza della scenografia di Palladio e Scamozzi. A volte ho colto estraneità, se non proprio contrapposizione, fra i due linguaggi estetici e con estrema fatica ho cercato di valutare oggettivamente la musica, astraendomi dalla percezione visiva. In felici occasioni al contrario l'improvvisazione jazzistica e l'apparato scenico mi sono sembrati dialogare, convivere amabilmente: penso in particolare a quel concerto dell'edizione 1998, in cui le distillate note del gran coda di John Lewis (non a caso il più classicheggiante dei pianisti jazz) si sono librate, quasi ad accarezzare le statue e le modanature del fondale.

Una correlazione intrecciata e problematica quindi, a volte perfino conflittuale, quella fra jazz di diverse tendenze, i luoghi in cui esso viene rappresentato ed il pubblico che vi assiste. D'altra parte tutte le considerazioni qui esposte risultano forse valide per il passato, dal momento che esse si basano sulla nostra esperienza acquisita, mentre il panorama degli ultimi anni si presenta estremamente vasto e variegato, in quanto lo stesso jazz spinge la sua ricerca in più direzioni contemporaneamente, esaltando la sua naturale propensione alla contaminazione con altre culture ed arricchendosi di sempre nuove possibilità tecnologiche. Assistiamo quindi a una sovrapposizione fra diversi generi musicali, a uno scambio di esperienze fra gli stessi operatori; il che comporta un ampliamento dei modi di comunicazione e degli spazi coinvolti, nonché una benefica osmosi fra i pubblici interessati.

Ciò potrebbe spingere di fatto a due reazioni psicologiche contrapposte: da un lato quella disorientante della perdita d'identità e di confini certi, col rischio di favorire per reazione il riemergere di quel conservatorismo che predilige rifugiarsi in forme di revival; dall'altro, se si comprende la necessità di un inarrestabile processo di evoluzione e lo si accetta, quella di una continua rifondazione culturale, sorretta da una consapevolezza autocritica e da una vitale disponibilità verso nuove esperienze.

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