Home » Articoli » Lyrics » Del jazz defunto e della critica asfittica

Del jazz defunto e della critica asfittica

By

View read count
L'articolo di Giorgio Rimondi che abbiamo recuperato per Déjà lu venne pubblicato sul numero 799, del gennaio-febbraio 2006, di "Ritmo," rivista di jazz fondata da Gianfranco Madini nel 1944. A parte lo stimolante approccio del testo di Rimondi, che ringraziamo per la disponibilità, vuole essere questo un modo per ricordare il glorioso periodico, che per molti decenni ha contribuito al dibattito sul jazz in Italia e che purtroppo dal 2007 ha sospeso la pubblicazione.

I lettori meno giovani ricorderanno il tormentone che affatica la ricezione jazzistica fin quasi dalla sua nascita, intendo il fatto per cui, nel corso della sua esistenza, questa musica è stata ripetutamente dichiarata morta. Successe alla metà degli anni quaranta, al tempo in cui i giganti del bebop ne modificarono la sintassi, ai primi sessanta, quando gli uomini del free ruppero gli argini della forma-standard, poi con Bitchess Brew e le prime contaminazioni rock, e ancora con certe esperienze elettroniche, e chissà quante altre volte ancora. Succede poi di regola quando scompare un grande interprete. È stato così con Charlie Parker, John Coltrane e anche Duke Ellington: "Il jazz è morto!" si affrettano a gridare i necrofili. E questa triste passione pare non esaurirsi mai.

Forse i lettori ricorderanno anche la famosa sentenza di Frank Zappa, che negli anni Ottanta, se la memoria non mi inganna, interrogato sulla morte del jazz rispose che no, il jazz non era ancora morto, ma certo cominciava a puzzare. Ma in quel caso egli alludeva al fatto, per certi aspetti incontestabile, che la routine jazzistica tende a irrigidirsi in un linguaggio codificato, poco aperto alle novità e ai cambiamenti. Basta riflettere un momento sull'organizzazione dei festival nostrani, su certe rassegne anche famose, sulla vita dei jazz club, e ognuno di noi potrà almeno in parte concordare con Zappa.

Ma in realtà è fin troppo facile rovesciare l'accusa: ogni musica, a iniziare da quella rock, corre questo pericolo, ogni musica può cioè morire ogniqualvolta i suoi interpreti si accomodano negli spazi del previsto e del prevedibile, ogniqualvolta recitano una parte che sanno (e sappiamo) a memoria. Ragione per cui non credo si possa parlare di una musica "morta" da opporre a una musica "viva," ma semmai di musicisti che riescono o non riescono a far vivere la musica che amano. Perché resta fuori di dubbio che la amano.

L'impressione, almeno la mia impressione, è che questa vera o presunta morte non sia e non sia mai stata un problema dei musicisti, ma semmai dei critici. E sarò ancora più esplicito: soprattutto dei critici bianchi. Chi abbia presente come si esprimono i musicisti, da Lester Bowie a Cecil Taylor, da Louis Armstrong a Duke Ellington, faticherà a trovare nelle loro dichiarazioni qualcosa che autorizzi a immaginare la morte del jazz. Certo fra loro si sono sviluppate polemiche forti, talvolta anche astiose, basti ricordare il duro atteggiamento assunto da Mingus verso le avanguardie della New Thing, o la proverbiale incomprensione di Armstrong per il lavoro di alcuni suoi colleghi. Ma si trattava sempre di questioni vitali, della messa in gioco del senso che assume l'operare artistico, e non di dispute funerarie. Si pensi poi alla critica jazzistica afroarnericana, sia quella più giovane e di cui fanno parte autori come Robert G. O'Meally, Farah Jasmine Griffin, Stanley Crouch, sia quella ormai storica rappresentata da personaggi, pur così lontani fra loro, come Amiri Baraka e Ralph Ellison, A.B. Spellman e Albert Murray.

Sia per gli uni che per gli altri la presunta morte del jazz non è in questione per il semplice motivo che il jazz non si evolve affatto in un senso lineare e progressivo, andando cioè da un'"origine" verso una "fine," come troppo spesso siamo portati a credere; anzi, non è nemmeno detto che si evolva. Semplicemente, il jazz "esiste". Non bisogna mai dimenticare le parole di Thelonious Monk: Dove va il jazz? Non lo so. Può darsi che vada dritto all'inferno. Non si può fare andare qualcosa da qualche parte. Semplicemente accade.

E se la vicenda jazzistica si distende in un arco temporale, questa non autorizza nessuno a pensarla nei termini evolutivi di un "prima" o un "dopo": il tempo jazzistico, anche in senso strettamente musicale, è diverso da quello dell'orologio, è fatto di continui ritorni e riprese, così come la sua vicenda non è "storica" nel senso che noi attribuiamo a questa termine, dove a una causa fa seguito un effetto, ma semmai ricorsiva. Ciò dipende prima di tutto da come sono andate le cose per il popolo afroamericano, che ha creato questa musica a partire da una condizione di schiavitù, dunque a partire dalla negazione coatta della propria umanità. Per un popolo cui è negata questa esigenza primaria, l'esistenza si configura come necessità di ripensare, continuamente, il proprio passato e la propria genealogia. Non per cercarvi il luogo di una verità, anche storica, negata (e ce ne sarebbe ragione in abbondanza), nemmeno per riportarlo in vita, questa passato (operazione nostalgica e patetica, nella quale inciampano i cosiddetti revivalisti), ma per trovare punti di collegamento significativi che consentano la costruzione di un'identità condivisa. Per questo i "grandi" del jazz per la comunità afroamericana non sono mai solo e semplicemente "il passato," poiché "non passano": sono sempre lì, insieme alla loro musica, disponibili ad essere ripresi e riutilizzati.

Eppure. Eppure il tormentone è riapparso, recentemente, nelle pagine dell'Almanacco Guanda 2005, intitolato La musica che abbiamo attraversato e curato da Ranieri Polese. 260 pagine di grande formato per consentire agli autori della casa editrice di ripensare il rapporto fra letteratura e musica negli ultimi decenni, a partire dalle loro esperienze. Fra gli interventi, quello di Geoff Dyer intitolato Dov'è e dove va il jazz. Dyer è noto al pubblico jazzistico per un fortunato libro di racconti, But Beautiful, tradotto in italiano come Natura morta con custodia di sax e ancora facilmente reperibile in libreria. Ed è noto anche come critico informato e fan sincero. II titolo del suo intervento è senz'altro promettente, poiché evita di porsi domande idealistiche circa l'identità del jazz cercando piuttosto di individuare il "luogo" possibile in cui esso vive, ovvero lo spazio, anche simbolico, che occupa. Ma la promessa poi non è mantenuta, e fin da subito l'autore si comporta come quelli che lanciano il sasso e nascondono la mano.

Dyer inizia riportando un vecchio parere di Philip Larkin: "Ora che Ellington e Armstrong se ne sono andati, il jazz e definitivamente morto": prima definendolo "musicalmente razzista" e poi aggiungendo che in fondo è condivisibile. Successivamente specifica che, in realtà, quello che è morto non e il jazz ma "il jazz propriamente detto," e appoggia il suo giudizio su una lunga e dotta serie di citazioni dirette e indirette, anche prese dalla letteratura, che è poi il suo mestiere.

Dyer è coIto, e abile, e sa scrivere. Ma inciampa in una serie di luoghi comuni che si manifestano come vere e proprie gaffes. Dalle sue pagine emerge infatti che in gioco sarebbe, addirittura, la "salvezza" del jazz: cioè a dire una delle più stupide e noiose questioni che un critico si possa porre. Ma vediamo meglio. A suo dire questa salvezza andrebbe cercata nella direzione indicata da musicisti come Don Cherry, nella direzione cioè della cosiddetta world music; consisterebbe comunque nel valicare i confini che "definiscono il jazz come tale," come fa il sassofonista norvegese Jan Garbarek; o si troverebbe prefigurata nell'eclettismo elettronico di musicisti come Nils Petter Molvaer, e magari chissà potrebbe realizzarsi nel progetto del trio australiano The Necks (a me purtroppo sconosciuto), la cui musica sarebbe così convincente che "bisognerebbe essere matti per pensare il contrario". A parte i gusti, di cui non si discute, e anche considerando che l'occasione editoriale gli impone di essere autobiografico, sarei disposto a scommettere che la profezia è sbagliata.

Ma non è questo il punto.

II punto è un altro. Se vogliamo, consiste nell'atteggiamento che Dyer assume e dunque nella posizione che fa propria, e da cui parla. Egli parla da appassionato e da conoscitore, mosso da un sincero intento di comprensione unito a un pathos, anche questa sincero, verso l'oggetto amato, che vorrebbe salvare ma non si capisce da cosa. Si comporta dunque come certe mamme, più italiane che inglesi, le quali scaricano la loro apprensione su figli che non sanno che farsene di quelle apprensioni, in quanta le ritengono insopportabilmente invasive. Quelle mamme, e quei critici, non hanno maturato alcuna consapevolezza dell'alterità del jazz, e quindi nemmeno dell'alterità tout court. Per cui trattano un soggetto come fosse un oggetto, il "loro" oggetto.

Ma che può farsene il mondo del jazz di una critica che decide quale debba essere il suo concetto di appartenenza, quali i suoi confini, quale il suo statuto, quali i parametri della sua evoluzione? Che può farsene il "campo" jazzistico di una critica che ancora pensa di poter disegnare una topologia del "lecito" e dell"'illecito," o anche solo del conveniente e del non conveniente? Niente. A meno che questa critica non riesca a ripensare la sua funzione, a ripensare il rapporto che essa intrattiene col jazz iniziando a considerarlo non un semplice "oggetto" (anche un oggetto culturale, dunque più che dignitoso), ma un vero e proprio "soggetto," qualcosa cioè dotato di una volitività, di un'alterità e di una necessità che non devono nulla alle nostre preoccupazioni, nemmeno a quelle motivate da sincero attaccamento. Come, fra parentesi, mi sembra stia facendo la miglior critica americana e afroamericana, e perché no?, anche quella francese. Stando a Dyer, però, quella inglese no.

Quella cosa che siamo abituati a chiamare "jazz" non ha mai atteso il nostro parere per vivere, manifestarsi e affascinarci, e oggi indubbiamente esistono le condizioni per comprenderlo. Per riflettere cioè sul fatto il jazz ha cambiato noi - noi ascoltatori, critici, musicisti - più di quanto noi abbiamo modificato lui. Per comprendere soprattutto la natura della relazione che lega le parti in gioco, che lega cioè il nostro desiderio verso il jazz al desiderio del jazz verso di noi, e che ci obbliga a scendere dal piedestallo di chi osserva con sguardo sovrano e giudicante, perché può accadere che sia il jazz a osservare e giudicare. Come scriveva Carlo Belli settant'anni fa, in un articolo poco noto ai jazzologi: C'è un tipo di musica che vi sta a sentire. Essa si svolge mentre vi guarda di sottecchi, giudicandovi. Bisogna essere abbastanza forti per non subire un certo disagio. [ ... ] Questo caso inverosimile è abbastanza frequente nel jazz detto 'Chicago Style.'

Cosa implica la consapevolezza di cui parla Belli? A mio parere implica prima di tutto che l'arte, quando è davvero tale, si manifesta come "urto" - come Stoss direbbe Martin Heidegger - che travolge l'orizzonte delle attese e ci impone di ripensare il nostro concetto di bellezza. La seconda riguarda il fatto che l'arte, e dunque il jazz in quanto arte, si presenta come enigma, e come tutti gli enigmi risponde ai nostri interrogativi con un altro interrogativo, che sta a noi decifrare.

Lo aveva capito Carlo Belli l'altro ieri, speriamo che domani lo capisca anche Geoff Dyer.

Tags

Comments


PREVIOUS / NEXT




Support All About Jazz

Get the Jazz Near You newsletter All About Jazz has been a pillar of jazz since 1995, championing it as an art form and, more importantly, supporting the musicians who make it. Our enduring commitment has made "AAJ" one of the most culturally important websites of its kind, read by hundreds of thousands of fans, musicians and industry figures every month.

Go Ad Free!

To maintain our platform while developing new means to foster jazz discovery and connectivity, we need your help. You can become a sustaining member for as little as $20 and in return, we'll immediately hide those pesky ads plus provide access to future articles for a full year. This winning combination vastly improves your AAJ experience and allow us to vigorously build on the pioneering work we first started in 1995. So enjoy an ad-free AAJ experience and help us remain a positive beacon for jazz by making a donation today.

More

Jazz article: The 4th of July
Jazz article: Sassy from SuperBlue

Popular

Read Record Store Day Black Friday 2025 Releases
Read Remembering Jack DeJohnette: Unlimited Imagination
Read Bruce Hornsby: Camp Meeting
Read Joni Jazz, Part 1
Read Baku Jazz Festival 2025: Part 1
Read Claude Debussy on So What
The Blue Note Portal
Claude Debussy on So What
Read Dave Anderson: Plays with Gusto
Read Vilnius Jazz Festival 2025

Get more of a good thing!

Our weekly newsletter highlights our top stories, our special offers, and upcoming jazz events near you.