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Christian McBride: Dritto al cuore

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Sono anni che apprezziamo e ammiriamo la versatilità di Christian McBride, ed è difficile credere che questo straordinario contrabbassista, nato a Philadelphia, abbia solo 37 anni. Padroneggia uno strumento che per molti è la pura essenza del Jazz, per quel senso di unità e controllo che infonde. Quel che questo (ormai ex-) allievo della Juillard School riesce a fare con l'archetto testimonia in modo semplice e delicato quanto elevate siano le vette del suo talento artistico.

Lasciate al contrabbassista il compito di mostrarvi la via verso la perfezione musicale. E ancora meglio, lasciatevi intrattenere piacevolmente ascoltando il suo gruppo straight-ahead, gli Inside Straight: Carl Allen alla batteria, Eric Reed (famoso side man di Wynton Marsalis) al piano, Steve Wilson (già nella Dave Holland Big Band) al sax e Warren Wolf Jr. al vibrafono, che completa questo impeccabile ensemble creato per il suo nuovo progetto in studio, Kind of Brown (Mack Avenue Records, 2009).

All About Jazz: Ho sentito qualche aneddoto riguardo alla scelta del nome della band, Inside Straight. Come lo hai scelto?

Christian McBride: [Ride] Ok... Una sera di due anni fa ero al Village Vanguard e mi son reso conto che erano 10 anni che non ci suonavo! E ogni jazzista che si rispetti dovrebbe suonare al Village Vanguard. Così chiesi a Lorraine Gordon, la proprietaria del club, se per lei andasse bene, e mi disse, "Certo che mi va, mi piacerebbe davvero che ti esibissi qui di nuovo, però sai che tipo di musica facciamo. La band con la quale suoni di solito [la Christian McBride Band] non va bene, non è la band per il Village Vanguard." Le dissi "Lo so, lo so, metterò insieme una band solo per questa esibizione." Così chiamai Steve Wilson, Warren Wolf, Eric Reed e Carl Allen e ci esibimmo, e fu una settimana così riuscita, dal punto di vista musicale, commerciale ed economico, che eravamo tutti al settimo cielo.

Tutti erano contenti, Lorraine era contenta e facemmo il tutto esaurito per sei sere di fila... A quel punto era chiaro, quella band doveva andare avanti, ogni membro voleva continuare a suonare con gli altri, gli spettatori ci chiedevano di andare avanti, e più di una casa discografica era interessata, addirittura ci dissero "guarda, sia che tu firmi con noi o no, tieni insieme questa band." Era una cosa più grande di noi. Non pensavo di riuscire a tener unita la band, perché ognuno aveva i suoi progetti, specialmente Eric Reed, Carl Allen e Steve Wilson.

Così passò quasi un anno prima che riuscissimo a suonare di nuovo insieme, ma alla fine riuscimmo a combinare alcune date, in occasione del Monterey Jazz Festival, subito prima di entrare in studio a registrare Kind of Brown. Lì a Monterey eravamo in cartellone come il Christian McBride Quintet. Ora, ogni band da cinque elementi è sempre chiamata quintetto: scontato, e abbastanza banale. È curioso per un musicista Jazz essere così creativo nel comporre e tanto banale nello scegliere il nome della band! Il quintetto di tizio qui, il trio di caio là... che noia. Che nome scegliere, quindi?

Eravamo seduti a pensare al nome della band, quando il mio manager ed io ci siamo guardati e lui mi ha detto "senti, facciamo scegliere al pubblico il nome della band." Così dal palco del Monterrey Jazz Festival chiedemmo al pubblico di scegliere il nome. Avrebbero dovuto mandare la loro proposta al mio sito web e la sera successiva avremmo annunciato il vincitore. Alla fine arrivarono quasi 3500 proposte in 24 ore! Ed erano troppe da esaminare in 24 ore. Avrei avuto bisogno di un sacco di gente per vagliarle tutte! Così ci volle circa una settimana per vederle tutte, ma finalmente decidemmo per Inside Straight. Fu una coppia a proporre quel nome, Debra e Doug Moody.

AAJ: E come mai avete scelto questo nome?

C. MB.: Era intrigante. Inside Straight. Ha quel non so che di audace, essendo un termine del poker. E descrive la band dal punto di vista musicale. Essere dentro lo stile straight ahead con un quintetto completamente acustico, così differente dalle band con le quali ho suonato per così tanti anni. Penso sia per questo che piace così tanto al pubblico. Tutti mi prendevano in giro; erano tutti così ansiosi di sentirmi suonare di nuovo jazz acustico straight ahead. Così mi sono detto "Un momento, la mia band non era mica una Rock band!"

Vero, ma la gente vuole ascoltare il vero straight ahead, quindi il nome Inside Straight era proprio azzeccato.

AAJ: Come mai c'è voluto così tanto per suonare di nuovo al Village Vanguard? Solo per il tipo di musica che suonavi con la Christian McBride Band, o c'è dell'altro?

C. MB.: Solo per quel motivo. Ma la cosa buffa è che non ho suonato proprio con nessuno al Vanguard in quei 10 anni: in quel lasso di tempo mi sono esibito con Benny Green, con Joshua Redman e con molte altre band che avrebbero potuto suonare al Village Vanguard, ma che semplicemente non l'hanno fatto. Non so perché. Ma penso che il motivo principale sia, come hai detto tu, il tipo di musica che suonavo con la Christian McBride Band. Ma ora è tutto sistemato, dato che la nostra banda è nata al Vanguard.

AAJ: C'è un club, magari non il migliore di tutti, ma uno dove tu ti sei trovato meglio che in qualunque altro, più a tuo agio? Non so, magari per la sintonia con il pubblico, o per il club in sé, magari per qualcosa legato alla storia del club...

C. MB.: Sì, ci sono un paio di club che penso siano davvero giusti. A Detroit c'è un posto chiamato Baker's Keyboard Lounge che è un club molto antico. Credo sia il terzo o il quarto club più antico del Paese. Aprì negli anni Trenta o Quaranta ed è veramente un gran club. Non lo hanno rimodernato granché nel corso degli anni, perciò conserva la sua atmosfera originaria, e chi lo frequenta è gente della vecchia scuola, veri appassionati di Jazz. Che ne conoscono la storia. Si trova in un quartiere abitato in prevalenza da persone di colore, ed è frequentato da un sacco di gente. Ed è uno dei posti dove più mi piace suonare, il Baker's.

Jazz at the Bistro a St. Louis è un altro dei miei preferiti. Mi piace il pubblico che reagisce alla musica, che partecipa, che urla e strepita. La maggior parte dei Jazz club non sono veri Jazz club, sono ristoranti dove si suona anche il Jazz, capisci? La musica è messa in secondo piano, è un accompagnamento alle portate, ed è davvero difficile trovare quel feeling in posti del genere, dove la gente va per mangiare, non necessariamente per ascoltare musica. Il Jazz at the Bistro invece è uno di quei posti dove la gente va prima di tutto per ascoltare la musica. Non lasciano che il cibo li distolga da quel che accade sul palco. Un altro che mi piace è il Yoshi's a Oakland, riesci sempre ad instaurare un bel rapporto con il pubblico, e questo è vero in molti posti nella Bay Area.

Ci sono poi molti locali validi qui a New York: Village Vanguard, Iridium, Dizzy's, Birdland, The Jazz Standard... sono tutti dei gran bei posti! Non c'è dubbio, qui a New York il pubblico è sempre fantastico!

AAJ: Per quanto riguarda la musica, ti sei mai detto "vorrei essere nato cinquant'anni fa"?

C. MB.: In realtà no. Penso ...(silenzio)... di essere stato molto fortunato ad aver suonato con molti della vecchia guardia. Ho passato molto tempo con persone come Ray Brown, Milt Jackson, Tommy Flanagan, Hank Jones, Roy Haynes, Billy Taylor, i veri padri fondatori del bebop, e quando stavi con loro e cominciavano a raccontarti i loro aneddoti, ti riportavano davvero indietro ai vecchi tempi; sembrava di viaggiare con una macchina del tempo, quando raccontavano le loro storie. Ma erano sempre molto attenti, e questa è una dote comune a molti musicisti maturi; oggi tendiamo a mitizzare il passato, ma loro ti rispondono "quei bei vecchi tempi di cui parli non erano poi quel granché." Certo, la musica era grande, ma c'erano un sacco di altre cose che non lo erano affatto, come la segregazione, il razzismo, le pessime condizioni in cui i musicisti si adattavano a viaggiare, così tutti ti confermeranno che spesso era dura.

Ti ripeteranno che "non vorresti davvero tornare indietro ad allora e rivivere tutto lo schifo che c'era al di là della musica, così voi ragazzi fareste meglio ad essere contenti di quel che avete oggi." E sono d'accordo, sono felice di vivere al giorno d'oggi.

AAJ: Ti ho chiesto il perché di Inside Straight ... ora ti chiedo il perché di Kind of Brown?

C. MB.: [Ride] Questa è meno semplice, non so dirti perché abbiamo scelto Kind of Brown. Forse solo perché suonava bene. [Ride] Una sera ero in un bar con Billy Childs e Jeff "Tain" Watts, ci stavamo divertendo, stavamo parlando e passando il tempo, e salta fuori la frase Kind of Brown. Non so di cosa stessimo parlando esattamente, ma mi sono detto "Mi piace... kind of brown... questa me la segno." Ecco come è successo. Ero sicuro che qualcuno sarebbe saltato su dicendo che volevo far riferimento a Miles Davis, il che è ridicolo, ma per fortuna pochi hanno fatto questa osservazione. Forse uno solo, da quando è uscito il disco. Forse un paio di persone hanno detto "come puoi fare una cosa simile, insultare Miles Davis?!". È solo un nome, a volte la gente esagera proprio.

AAJ: Come mai hai deciso di mettere insieme una band proprio con questi elementi? Perché hai scelto Carl Allen, Eric Reed, Steve Wilson e Warren Wolf?

C. MB.: Beh, sapendo che avrei suonato al Village Vanguard, che è il locale del Jazz straight-ahead e della musica creativa per antonomasia, ho voluto con me i migliori che la scena Newyorkese potesse offrire. Sai, Steve Wilson è di casa al Vanguard, è sempre lì ad esibirsi con qualcuno. E con Carl Allen il sodalizio dura da così tanto tempo che la scelta è stata ovvia. Eric Reed è un amico da 20 anni, ma abbiamo suonato insieme poche volte. Un'esibizione qui, una lì, ma nulla dove avessimo l'opportunità di allargarsi e suonare quanto avremmo voluto, perciò ero molto eccitato quando ho chiamato Eric.

E Warren, lui era un mio studente al Jazz Aspen Snowmass, la manifestazione estiva della quale sono direttore artistico da 10 anni. Lo conobbi nell'Estate del 2000, mi pare, ed era così incredibile, così avanti. Gli promisi, "Warren, un giorno o l'altro metterò in piedi una band e ti vorrò con me." Questo per dirti quanto era in gamba. C'è voluto un po' ma alla fine l'ho chiamato, e ovunque andiamo è sempre un successone, diventerà famosissimo molto presto.

AAJ: Come mai hai incluso un vibrafono in questa formazione?

C. MB.: In giro ci sono molti ottimi sassofonisti, e trombettisti, e percussionisti; troppi forse, specialmente percussionisti... Ma che suonino il vibrafono, sono davvero in pochi. E quei pochi sono eccezionali. Mi è sempre piaciuto il suono del vibrafono, dà quel non so che di leggero, di etereo al brano. Warren è uno dei migliori che io abbia mai sentito. E pensare che molti che lo sentono non sanno neanche di che strumento si tratti. Pensano che sia quello strumento che si suonava alle elementari (lo xilofono). No, non è la stessa cosa. [Ride]

AAJ: L'altro giorno stavo cercando di ricordare quando ti avessi ascoltato per la prima volta, sapendo chi fossi, e credo che il brano fosse "In a Hurry," dal disco Gettin' to It (Polygram Records/Verve, 1995).

C. MB.: Sai, è incredibile quanti ancora parlino del mio primo disco. Poco tempo fa ho rivisto il produttore di quel disco, e mi ha detto che l'album vende ancora bene, e siamo quasi a centomila copie in tutto il mondo, che per un disco di Jazz è davvero un successo. Ho un ottimo ricordo di quel mio primo CD, per molti versi è stato davvero speciale.

AAJ: Il successivo ricordo che ho di Christian McBride è la tua apparizione nel film Kansas City.

C. MB.: [Ride] già... Kansas City, che ricordi! Lavorare con Harry Belafonte, Robert Altman e tutta quella gente del cinema. Passammo circa tre settimane a Kansas City, e ho ottimi ricordi, e la cosa buffa era che ogni giorno si faceva il barbecue, e dopo di allora non ho più voluto vedere bistecche alla brace per un anno! Eravamo così pieni, tutti nella band erano pieni di gas dopo aver fatto quel film, non era affatto divertente. [Ride]

Già, sembra che molti spettatori non si ricordino la trama. Un mese fa mi ha chiamato Harry Belafonte. Credo che stia facendo un CD, il primo dopo tanti, tanti anni, e mi ha chiesto di suonare con lui, ma purtroppo non ho potuto, ero in Giappone. Ma ero così felice di risentirlo, pensavo si fosse dimenticato di me. [Ride]

AAJ: Quando decidi i pezzi da includere in un album, segui una strategia consolidata?

C. MB.: Non riesco ancora ad afferrare completamente l'intero concetto del comporre. Credo di fare un buon lavoro, ma è nulla in confronto a quello che riescono a fare personaggi come Chick Corea o Wayne Shorter o Pat Metheny, sono così fecondi, scrivono sempre cose nuove, specialmente Chick. Riesce a comporre una sinfonia in un'ora perché è così abituato ad essere creativo, si siede al piano e compone. È una dote che si acquisisce giorno dopo giorno, come ogni altra cosa, devi svilupparla e affinarla. Io non mi ci dedico abbastanza per riuscire a padroneggiarla appieno. Ma ci lavoro duramente. L'esperienza con questa nuova band mi ha praticamente costretto a scrivere nuovi pezzi, il che è un bene per me.

AAJ: Come decidi cosa vuoi registrare per un nuovo album?

C. MB.: Direi nello steso modo in cui decido la scaletta per un'esibizione. Mi piace aprire con un brano che abbia energia. Mi è sempre piaciuta l'energia pura. Sembra che i dischi di Jazz che prediligono un sound più morbido vendano meglio. Beh, cos'è meglio nel Jazz—25.000 copie? [Ride] Ma a me piace la musica swing, dura e pura. Mi piace mettere insieme diversi brani pieni di energia con altri più tranquilli, magari una ballad o una bossa nova, o un brano straight eighths, qualcosa che mi contraddistingua.

Una cosa che mi piace fare in ogni mio disco è suonare qualcosa con l'archetto. È un retaggio della mia educazione alla Juilliard, mi piace suonare spesso con l'archetto. Nel mio primo disco [Gettin' to It] ho fatto una versione di "Night Train"; nel mio secondo CD [Number Two Express (Polygram, 1996)] è stata la volta di "Little Sunflower," nella quale ho suonato diversi contrabbassi in overdubbing, facendo una specie di arrangiamento orchestrale; e in Kind of Brown mi sono cimentato in "Where Are You," suonando in duo insieme a Eric Reed. Perciò di solito organizzo un CD come se fosse una serata, dando all'ascoltatore una scelta variegata di brani da ascoltare.

AAJ: Se fossi costretto a scegliere tra elettrico e acustico, per quale propenderesti?

C. MB.: Oh, di certo sceglierei acustico. Il contrabbasso è la Madre Terra. Vale a dire lo strumento dal quale si origina tutta la musica, secondo me. Qualcuno una volta disse in un'intervista che "entra in risonanza con me, e mi sembra assolutamente vero". E aggiunse che "le percussioni sono i padri della musica, e il contrabbasso è la madre." Molte volte di una canzone ne percepisci per prima cosa il ritmo, senti un qualche motivo ritmico in testa, i piedi cominciano a muoversi, le mani anche, ti chiedi "e questo cos'è?" Sono le percussioni. Stai sentendo il ritmo; subito dopo cominci a percepire l'armonia, a sentire come andrà, e di solito comincia il contrabbasso. Non posso che essere d'accordo. Sceglierei il contrabbasso perché è di legno, è grande, è naturale, è organico, viene dalla Terra ed è Madre Natura.

AAJ: Nella tua scelta ci fu l'influenza della tua famiglia...

C. MB.: Suonano entrambi il contrabbasso. È grazie a mio padre che suono il contrabbasso. La prima volta che vidi suonare mio padre avevo sei o sette anni, e fu incredibile essere seduto tra il pubblico e vederlo suonare con quella leggenda del Latin Jazz chiamata Mongo Santamaria. Mi divertii un sacco. E dopo quel concerto divenni curioso, e dissi a mia madre che volevo un contrabbasso, ma non lo suonai per un paio d'anni; ad un certo punto, avrò avuto nove anni, mi appassionai allo strumento.

E la prima volta che presi in mano un basso elettrico pensai "ecco, questo è ciò che voglio fare per il resto dei miei giorni". Era così naturale. Sono stato fortunato a scoprire questa mia passione da piccolo. Ma poi mia madre vide che la faccenda si stava facendo molto seria, e capendo cosa desideravo decise di iscrivermi ad una scuola adatta per imparare a suonare. E così cominciai a suonare il contrabbasso. E cominciai a prendere lezioni private da una signora che faceva parte della Philadelphia Pops Orchestra, che mi introdusse alla musica classica e al contrabbasso classico, e mi innamorai anche di quello, anche se all'inizio non mi piaceva così tanto come il basso elettrico.

Certo, ad undici anni vorresti suonare solamente musica pop, rock o funk, o qualunque cosa si ascolti a quell'età. Ma imparai ad amare anche il contrabbasso classico, ed è qui che entra in scena il mio prozio. Mi fece imparare ad apprezzare Paul Chambers, Ron Carter, Charles Mingus, Buster Williams, Charlie Haden, Dave Holland... Lui ha avuto il merito di farmi conoscere le grandi leggende del contrabbasso.

E mi piace pensare che a mia volta ho un po' influenzato mio padre, perché non iniziò a suonare sul serio il contrabbasso se non quattro o cinque anni dopo di me. Ha suonato il basso elettrico per la maggior parte della sua carriera, e quando io cominciai con il contrabbasso, lui iniziò ad interessarsene, e ora lo suona anche lui.

AAJ: Pensi che le cose sarebbero andate diversamente se tuo padre fosse stato un postino o un avvocato, comunque appassionato di Jazz, ma non un musicista?

C. MB.: Chi lo sa? È una domanda difficile, perché la musica è una costante nella mia famiglia; il mio prozio è musicista; mio zio, il fratello di mia madre, ha lavorato per una radio molto famosa, e da che mi ricordo mi ha sempre portato a molti concerti dal vivo. Da quando avevo quattro anni, ho avuto la fortuna di vedere gente come Marvin Gaye, Wilson Pickett, Gladys Knight, The Whispers, The O'Jays, James Brown, ovviamente, quindi penso che in un modo o nell'altro sarei comunque finito nel mondo dello spettacolo.

AAJ: Hai detto "James Brown, ovviamente," cosa ha rappresentato per te?

C. MB.: [Sospira] Chiunque l'abbia visto almeno una volta sa cosa intendo. [Ride] Chiunque abbia mai avuto modo di vivere la sua musica può rispondere. James Brown sapeva trascinare le persone più di chiunque altro della sua generazione, anzi di qualunque generazione.

Non vorrei sembrare troppo profondo o addirittura sciocco, ma credo che in ognuno di noi esista un ritmo, comune e primordiale, sentendo il quale non si può far altro che ballare; penso che James Brown abbia capito quale fosse. Non esiste un suo pezzo che non ti faccia venir voglia di ballarlo. Si può obiettare che la sua musica qualche volta è ripetitiva, che sembri sempre la stessa, derivata da se stessa. Ma bisogna ammettere che se hai bisogno di musica che ti dia la carica, quella di James Brown non ti deluderà mai.

La prima volta che ho visto James Brown esibirsi dal vivo avevo sette anni. Era un vecchio programma televisivo intitolato The Midnight Special, e mi ha segnato per sempre perché non avevo mai visto nessuno esibirsi con quell'intensità, e sì che ne avevo visti di artisti R&B, molti dei migliori della Motown. Ma vedere James Brown esibirsi con la sua band, gridando, ballando in quel modo... Era una cosa... me ne stavo lì seduto davanti alla TV con la bocca spalancata pensando "oh mio Dio, ma come fa?!" Insomma, mi aveva segnato per sempre. La prima volta che lo vidi dal vivo, avrò avuto 10 anni, alla Academy of Music di Philadelphia, mi ricordo che ero lì nel pubblico, spaventato, prima che salisse sul palco. Non mi ero mai sentito così eccitato per un concerto prima di allora. Per un evento sportivo, una partita di basket, o di baseball, sì, sei eccitato, fai il tifo per la tua squadra, ma per un concerto, ero semplicemente nervoso. Mi ricordo che pensavo "Non so se davvero voglio restar qui." Era troppo intenso, ecco tutto.

Anche prima che James Brown salisse sul palco, la tensione tra il pubblico era tale che la potevi tagliare con il coltello. Ero seduto al mio posto come... pietrificato. Ma di certo è stata una delle notti più memorabili di tutta la mia vita, ero così vicino a questo invasato che si scatenava sul palco. E pensare che allora era già sulla cinquantina. Impazzivano tutti per Michael Jackson, riposi in pace... Anche Michael era una grande, ma vedendo James Brown era chiaro da chi Michael avesse preso spunto, quindi Michael non mi sembrava più così speciale come altri pensavano. Certo, ha fatto grandi cose, ma James Brown era il maestro.

AAJ: Come ti sei sentito quando hai suonato con James Brown? Nervoso come quella volta a dieci anni?

C. MB.: No, è buffo ma quando finalmente sono riuscito a suonare con lui non ero per niente nervoso. Ho sempre creduto che ci fosse stato una specie di intervento divino quando abbiamo avuto l'occasione di lavorare insieme. Sono stato davvero fortunato ad avere un rapporto personale così stretto con James Brown quando abbiamo lavorato insieme. Quando si presentò l'occasione, il concerto all'Hollywood Bowl, certo, ero agitato, ma sapevo di avere un lavoro da fare, e non ero così nervoso come quella volta da bambino. Sentivo di avere un rapporto così stretto con lui e con la sua musica, che non ero affatto agitato. Forse avrei dovuto esserlo, ma non lo ero.

AAJ: Hai citato Michael Jackson, cosa ha significato per te, come musicista, la sua scomparsa così improvvisa e prematura?

C. MB.: Sai, non ho mai invidiato Michael. Da quando era piccolo ha sempre avuto i riflettori puntati su di lui. Non ha mai potuto uscire e far quello che voleva come un qualunque signor Nessuno senza che qualcuno lo tampinasse, con un obiettivo puntato su di lui. Non riesco neanche ad immaginare cosa fosse avere un padre così oppressivo, che controlla tutta la tua vita, cosa provasse ad avere un tale successo, così piccolo eppure senza una vita propria. Mi ha sempre fatto una gran pena. Certo, era un grande artista, e ci ha lasciato delle esibizioni memorabili, ma non sono mai riuscito a dimenticare quel che c'era dietro. Avrei voluto che abbandonasse le scene per godersi una vita normale, ma immagino che non gli fosse possibile.

E quando è morto, un secondo dopo, è cominciato lo squallido teatrino. E si è verificato ciò che speravo non accadesse. La frenesia dei media, il dottore omicida, il fatto che l'avessero fatto apposta, suo padre che si rendeva ridicolo rilasciando tutte quelle interviste... Non avrebbero dovuto fare tutto questo baccano, ma come si dice, "questa è l'America."

AAJ: Tornando alla tua musica e alla Christian McBride Band, per qualcosa come otto anni il lato "elettrico" ha prevalso su quello acustico.

C. MB.: Innanzi tutto, devo dire che non l'ho mai pensata come una electric band, dato che la maggior parte del tempo ci ho suonato il contrabbasso. Però in effetti era una band con diverse anime; poteva fare molte altre cose oltre a suonare Jazz straight-ahead acustico. E anche quando suonavamo Jazz straight-ahead c'era sempre un'ombra di elettrico dopo un po,' specialmente quando suonavamo dal vivo pezzi come "Boogie Woogie Waltz," il volume saliva, e si dice che una persona si ricordi solamente l'ultima cosa che ascolta. Perciò quando suoni un brano simile per quasi un quarto d'ora, tutta con strumenti elettrici, il pubblico si è già dimenticato che prima avevi suonato qualcosa come cinque pezzi acustici. Dico questo per dire che non l'ho mai pensata in termini di electric band, ma era divertente suonare con quella band, perché è l'unica band nella quale ho suonato di tutto.

Suonavamo straight-ahead, fusion, funk, ...anche classica se avessimo voluto, era una band a 360 gradi. E non ho mai suonato in una band simile, a parte la Five Peace Band, con la quale sono andato in tour con Chick Corea e John McLaughlin. Quella fu la band che più si avvicinava alla mia idea di perfezione, nel senso di una band alla quale ho sempre sognato di appartenere e con la quale andare dovunque e comunque. È stato anche uno dei motivi che hanno portato alla nascita degli Inside Straight: infatti dopo aver suonato con Chick Corea e John, non sentivo il bisogno di tornare al passato, dovevo fare qualcos'altro.

AAJ: Hai intenzione di ricomporre quella band?

C. MB.: Oh, certo, torneremo. Puoi contarci. Non so quando, ma torneremo. Siamo tutti così impegnati, specialmente Ron Blake. Le cose sono proprio cambiate da quando fa parte della Saturday Night Live Band, perché é impegnato ogni Sabato, e se vai in giro a suonare Jazz, non puoi non lavorare al Sabato. Quindi ho passato un sacco di tempo a cercare sassofonisti che lo sostituissero, e dopo un po' è diventato un problema. Comunque prima o poi torneremo insieme, puoi contarci.

AAJ: So che sei stato molto impegnato in studio, prima di cominciare il tour con gli Inside Straight. Hai collaborato con Dee Dee Bridgewater e altri ancora. Raccontami qualcosa di queste esperienze.

C. MB.: Già, ho avuto numerose collaborazioni. Ho lavorato molto con Angelique Kidjo. Il sodalizio con Angelique è molto stretto e risale a circa due anni fa. Ci esibimmo entrambi all'inaugurazione del Muhammad Ali Center a Louisville, Kentucky. Ed è stato uno degli eventi più grandiosi ai quali io abbia partecipato. C'erano tutti! Tutti i grandi pugili, Lennox Lewis, Evander Holyfield, George Foreman, tutti i grandi commentatori sportivi. Ha suonato James Taylor e io ho suonato con Herbie Hancock.

È stato un evento straordinario; allora ho detto ad Angelique Kidjo che ero un suo grande fan. E mia moglie, Melissa, che adora Angelique, mi disse, "Vai a parlarle, fatti dare il suo numero, voglio che lavoriate insieme." Mi sono detto "ha già una band, e non sto facendo nulla che abbia a che fare con la world music," ma alla fine ho fatto un rap con lei—e le piace James Brown [Ride]. Ha un'energia così smisurata che ti stanchi solo a guardarla, mentre si esibisce. Voglio dire, passa un quarto d'ora con lei e ti sembra di aver corso i cento metri: quella è l'energia che la sua musica sprigiona.

Quest'anno abbiamo lavorato molto insieme. Ha duettato con me nel il mio nuovo progetto Conversations with Christian; ho fatto un pezzo per il suo nuovo CD, che dovrebbe uscire a breve; e poi un altro progetto con lei, una cosa che lei ha fatto per Starbucks, due brani, e abbiamo suonato insieme, insomma è una delle persone con cui ho lavorato di più quest'anno. E poi Dee Dee Bridgewater, James Carter; ho suonato nel CD appena uscito di Melissa Walker... Sì, posso dire di aver passato un bel po' di tempo in studio, quest'anno.

AAJ: Dimmi qualcosa riguardo Conversations with Christian, come sta andando?

C. MB.: Va alla grande. Si tratta di un podcast mensile che andrà avanti per tutto l'anno. Il primo è uscito nel Febbraio 2009, e ogni mese si aggiunge un nuovo duetto; e a Febbraio tutti i duetti verranno raccolti in un CD, così come li ho registrati. I podcast contengono una clip del brano e una mia intervista agli ospiti, mentre nel CD metterò la performance completa. Sta davvero andando benissimo. Un sogno, non pensavo che così tanti avrebbero accettato di farlo. Questa è la cosa che mi ha stupito di più. Sting, George Duke, Dee Dee Bridgewater, Hank Jones, Dr. Billy Taylor, Eddie Palmieri, Chick Corea, Roy Hargrove, Russell Malone, Ron Blake, Angelique Kidjo, come ho già detto, Regina Carter. È stato incredibile registrare duetti con tutti questi artisti e intervistarli, parlare con loro. Ed è anche parte di un programma radiofonico al quale lavoro per la radio Sirius XM. Già, mi sto abituando a questa formula di suonare e intervistare. Colpa del mio manager—riesce a sfruttare qualunque buona idea mi venga, ma va bene così. Sono felice che qualcuno lo faccia [Ride].

AAJ: Come ti è venuta l'idea di fare Conversations with Christian?

C. MB.: Non so. Tutte queste cose sono saltate fuori insieme. Le Conversations, il programma alla radio, tutti nello stesso momento. Io e il mio manager stavamo pensando a delle cose da fare e l'idea è saltata fuori... in realtà so come è cominciata... Da cinque anni sono direttore esecutivo del National Jazz Museum ad Harlem, e uno degli eventi gratuiti che ospitiamo e' Harlem Speaks, nel quale intervistiamo musicisti famosi, principalmente da Harlem. Ecco come tutto è cominciato, intervistavamo musicisti di Harlem, e molti non li conoscevano; li avevano sentiti suonare, ma non ne conoscevano la vita, persone come Jimmy "The Preacher" Robinson. La serie diventò così famosa che il mio manager mi disse "sai, dovresti fare la stessa cosa in un programma alla radio tutto tuo." E poi diventò "beh, perché non fai un intero album di duetti?" E la cosa andò fuori controllo. Faccio ancora gli Harlem Speaks quando sono in città, e registro ancora il mio programma radiofonico... sì, sto lavorando su un sacco di cose, e va bene così.

AAJ: E come va con il Jazz Museum di Harlem?

C. MB.: Va molto, molto, molto bene. Ci trasferiremo in una nuova sede probabilmente nel 2012, ci hanno dato uno spazio proprio di fronte all'Apollo Theater, e divideremo gli uffici con il Dipartimento del Turismo di New York, per cui ci sarà un bel po' di traffico nell'edificio, e davvero non vediamo l'ora.

Ti racconto come è nato... Leonard Garment è stato avvocato alla Casa Bianca sotto la presidenza Nixon. È un grande appassionato di Jazz, cresciuto a New York, che suonava il sax da adolescente. Ora è in pensione, e voleva istituire un museo. È un Newyorkese DOC, e si è reso conto che a New York c'è un museo per quasi ogni arte, a parte il Jazz. Ci sono musei con una sezione dedicata al Jazz, ma non uno totalmente dedicato al Jazz, così ha radunato qualcuno dei suoi amici avvocati a Washington con le tasche gonfie e hanno intrapreso il progetto per istituire un museo del Jazz.

Va da sé che ad un certo punto devi coinvolgere dei musicisti che ti aiutino, non bastano i soldi di ricchi finanziatori, ci vuole qualcuno dell'ambiente che ti aiuti a mettere insieme il tutto. Credo fosse il 1999 o il 2000, Leonard conosceva Loren Schoenberg, che è un apprezzato storico, scrittore e docente di Jazz, oltre che sassofonista, qui a New York, con il quale ho lavorato anche al Jazz Aspen Snowmass ogni Estate. Erano un paio d'anni che Loren era coinvolto nel progetto del museo, quando mi disse, "sai, l'immagine del museo ne guadagnerebbe molto, se tu entrassi a far parte del progetto, come mio condirettore."

E pensai "ne sarei onorato, ho sempre amato Harlem, mi ricorda Philadelphia, dove sono cresciuto."

E ad Harlem, come molti altri posti in questo Paese, in particolare dove vivono le persone di colore, c'è bisogno che la cultura sia viva e presente; una volta era così, poi l'hanno sradicata per portarla in centro. Per i musicisti è stato sicuramente meglio, migliori ingaggi, migliori sistemazioni, ma non certo per il quartiere, che si è trovato spogliato della propria cultura. Quindi sono felice che ci sia una casa per il Jazz ad Harlem.

Ormai lavoro con loro da circa sei anni, e ho degli ottimi ricordi; abbiamo organizzato molte grandi iniziative, come Jazz for Curious Readers, dove invitiamo uno scrittore a raccontare ciò che sta scrivendo. Oppure Jazz for Curious Listeners, dove scegliamo un'artista e ne suoniamo i dischi per gli ascoltatori; sono eventi gratuiti e il pubblico è sempre numeroso. E praticamente Harlem Speaks è stato il programma che ha fatto decollare il museo. Insomma, ci sono un sacco di cose interessanti, che si possono trovare sul sito del museo, www.jazzmuseumofharlem.org.

AAJ: Non pensi che programmi sul Jazz dovrebbero essere trasmessi più di quanto si faccia oggi?

C. MB.: Oh, certo! Sfortunatamente, come dicevo prima quando si parlava della storia di Michael Jackson, la frenesia dei media... Questa è l'America, dove la gente adora ed è affascinata da questo tipo di notizie spazzatura. Sanno che sono porcherie, ma gli piacciono lo stesso. [Ride]. Con questo voglio dire che certo, ci vorrebbe più Jazz in giro, ma poi la gente ne sarebbe spiazzata, perché sarebbe come mangiare cibo genuino. Perché dovremmo fare una cosa così assurda come mangiar sano? Perché dovremmo fare esercizio ogni giorno, anche se sappiamo che ci fa bene e che ne abbiamo bisogno? Intendiamoci, mi ci metto anche io, sono Americano anche io, ma mi sforzo di non guardare troppo i telegiornali. E non guardo né American Idol né Cougar Town, e non ho mai guardato Sex and the City. È solo escapismo e va benissimo, qualche volta ci può stare, ma mi pare che molti ci abbiano fatto un'abitudine, come mangiare al fast food tutti i giorni. Il Jazz è una musica forte, seria, importante e culturale, e non la sentirai sulle radio commerciali, non la vedrai in televisione perché è troppo seria.Anche quelli che tentano di alleggerire il Jazz, come Roy Hargrove e Chick Corea, che provano a renderla orecchiabile anche ai non appassionati, non li sentirai facilmente. È dura sentirli nei circuiti commerciali, è così e basta. Ma comunque sono convinto che la musica sopravviverà alla spazzatura. Tutto ciò che è fatto seriamente, con maestria, sopravvivierà nel tempo. Sfortunatamente rimarrà una musica per pochi, ma almeno non morirà. In molti hanno predetto la morte del Jazz, da cinquant'anni a questa parte, ma non è ancora morto, né penso che morirà.

AAJ: Molti continuano ad accusare il Jazz di essere troppo intellettuale. E poi credo che la gente sia cambiata. Vivo il Jazz diversamente da come lo viveva mio padre.

C. MB.: È il rovescio della medaglia, perché specialmente tra gli addetti ai lavori si pensa che più è intellettuale, più è cerebrale; più è esoterico, più è acclamato come musica di alto livello e creativa. Come se suonare il Blues fosse qualcosa di superato, che impedisce alla musica di progredire. Io non sono assolutamente d'accordo, perché se ad esempio ascolti le band di Count Basie, o Duke Ellington, mi vieni a dire che è musica superata? Che chiunque voglia suonare quel tipo di musica vuole impedire che la musica progredisca? Non penso proprio.

Credo sia un pessimo modo per dire alla gente che il Jazz intellettuale è il tipo di musica che si dovrebbe imparare ad apprezzare. Ecco perché la gente pensa che il Jazz sia troppo intellettuale e quindi si rifiuta di ascoltarlo: sono gli addetti ai lavori, inconsciamente, a farlo credere. "Ecco, per essere davvero serio, per dire davvero qualcosa, come artista davvero creativo, non puoi solo fare un po' di swing, far sentir bene chi ti ascolta, è già stato fatto, devi fare qualcosa di diverso." Non serve il tempo, non servono i cambi di chiave, non serve la melodia, basta far qualcosa di strano. [Ride]

Credo che in effetti ci sia qualche musicista che talvolta, ma solo talvolta, ha fatto musica troppo intellettuale, allontanando un po' di gente dalla loro musica. Ma la stragrande maggioranza dei musicisti non sono così, si vogliono divertire quando suonano.

Per questo mi sono sempre piaciuti Herbie Hancock e Chick Corea: riescono a suonare musica molto libera ed esoterica, ma la presentano in modo tale da essere accettata da un pubblico molto ampio. Tentano di coinvolgere più gente possibile, non hanno la pretesa di essere esclusivi. Vogliono persone che esplorino la loro musica. Come dire "può sembrarvi un po' out, ma fidatevi, fatevi accompagnare." Non hanno la puzza sotto il naso del tipo "sì, ora eseguirò della musica creativa, se vi piace bene, altrimenti siete comunque troppo ottusi per capire quel che faccio." Artisti del genere non mi sono mai piaciuti.

AAJ: Ho sempre pensato che Louis Armstrong sia stato fondamentale per il Jazz, più di quanto certi vogliano ammettere.

C. MB.: Beh, lui è il padre del Jazz. Anche nel Jazz più moderno si sente l'influenza dei suoi dischi. Tutta la moderna improvvisazione è nata da Pops. È vergognoso che ci sia ancora chi non voglia ammetterlo, dopo tutti questi anni. Ed è lo stesso per Duke Ellington. Qualunque big band moderna ti piaccia, puoi star sicuro che non c'è un accordo moderno, o che considereresti tale, che Ellington non abbia già suonato in un qualche momento della sua carriera.

AAJ: Beh, forse chi dice che Duke Ellington non vale granché non ha mai ascoltato dischi come Money Jungle, (Blue Note, 1962).

C. MB.: Sai, è interessante quello che mi dicevi tempo fa su tuo padre, perché è proprio quello che mi è successo con il mio prozio. Suonava sempre brani di Louis Armstrong, e subito dopo altri di Pharoah Sanders; poi qualcosa di Sun Ra e subito dopo i Platters! O qualcosa dei Weather Report, e poi di Charlie Parker... e dicevo "è pazzesco! Cose così diverse!" Ma poi capii che erano tutti frutti dello stesso albero. Ci ho messo un po' per capire cos'era cosa, come questo venisse da quello, e come quello fosse legato a quell'altro. Ma alla fine ho capito. Era comunque bellissimo che tuo padre suonasse in così tanti stili solo per te.

Quando ero alle superiori, c'era un grande negozio di dischi dove andavamo sempre, e il ragazzo che comprava i dischi per il negozio era anche un DJ. Era davvero esperto. Ci andavo una volta a settimana. Una volta gli ho detto " Craig, cosa mi compro questa settimana?" "Comprati Moanin' (Blue Note, 1958), di Art Blakey and the Jazz Messengers." Io ho chiamato il mio prozio e gli ho chiesto "Com'è questo Moanin'?" "Ti piacerà un sacco!" "Ok, grazie."

Insomma, avevo chi mi potesse dare ottimi consigli e far conoscere molta buona musica. E questa è una cosa del mio prozio che apprezzo moltissimo. Ovviamente c'erano cose che non gli piacevano. Penso fosse più un tipo da McCoy Tyner che da Herbie Hancock, ma non mi ha mai detto "lascia perdere Herbie Hancock." Ed è qualcosa che capita, specie parlando di musicisti meno recenti. "Bah, Herbie non suona mica Jazz, è un pianista funk, non vale la pena ascoltarlo!" Come si fa a dire una cosa simile? Specialmente dopo aver sentito brani come "The Sorcerer" [da Speak like a Child (Blue Note, 1968)], o la colonna sonora di 'Round Midnight (Columbia, 1987). O cose come "Elvin Jones non sa suonare, meglio ascoltare Tony Williams!" È incredibile come ragioni certa gente: invece che ammettere "c'è chi suona diversamente," ti dicono "non ascoltarlo, non sa suonare, è un tipo strano," e cose del genere.

Insomma, per fortuna il mio prozio non si è mai comportato così con me. Mi ha sempre insegnato ad essere aperto a tutti i tipi di musica. Riesco a capire chi sappia il fatto suo e chi no—parlo di musicisti. Per quanto posso, cerco di essere aperto. E sono felice che lo sia anche tu, c'è bisogno di gente così!

AAJ: (ride) Pensi mai al passato?

C. MB.: Beh, dipende a chi lo chiedi, 20 anni fa era ieri [ride]. Parlando ancora di DJ, c'è una DJ alla WBGO, si chiama Sheila Anderson, che qualche tempo fa mi disse, "È difficile capacitarmi del fatto che sei a New York da 20 anni," perché avevo 17 anni quando mi sono trasferito e ho cominciato a lavorare in città. E continuò "Molti ti considerano ancora un ragazzo." Ed io "No, non sono più un ragazzo, grazie," e lei "Sì, lo so, ma nell'ambiente del Jazz sono tutti così anziani, e quindi... non è facile accettare il fatto che tu non sia più un ragazzo." Sai, non so se ciò mi fa piacere o meno [ride].

Per rispondere alla tua domanda, se mi guardo indietro. [Silenzio] Certo, mi piace ricordare i miei esordi a New York. Ma non lo faccio con nostalgia, come a dire "eh già, i bei vecchi tempi ormai sono finiti, vorrei che potessero tornare." Sono realista. Le cose cambiano, bisogna vivere la propria vita, vivere il presente. È l'unica cosa che davvero ti appartiene, il presente. È piacevole ripensare ai vecchi tempi e riderne, ma preferisco vivere il presente preparandomi per quello che mi aspetta, ecco tutto.

AAJ: C'è qualche esibizione, o qualche disco che non hai voluto fare, ma che poi col tempo ti ha fatto pensare "oh, avrei dovuto dire di sì"?

C. MB.: Ora ti racconto... è la prima volta che lo racconto durante un'intervista. In effetti dal punto di vista professionale ho un solo grande rimpianto.

Ero preso tra due fuochi, non sapevo cosa fare e ho preso una decisione, e a non son sicuro di aver preso quella giusta. Nel 1996 Horace Silver firmò un contratto con la Impulse! Records. Stavano per cominciare una grande campagna per lanciare Horace e la sua nuova band; avrebbe composto nuovi brani e sarebbe tornato a fare tournée.

Inutile dire quanto io fossi lusingato, eccitato ed onorato per il fatto di suonare e di incidere con il grande Horace Silver. Cosa poteva esserci di meglio? La cosa particolare, insolita, era che voleva provare per quattro giorni, e poi registrare per altri quattro giorni. E questo è molto insolito, perché il budget che di solito si ha non permette di provare così a lungo; puoi fare una prova, due se va bene. Se va bene ti concedono due prove, e poi hai tre giorni in studio. Ma la Impulse! era stata molto generosa con il budget, e Horace se lo meritava; avrebbe dovuto poter provare tanto quanto volesse.

Successe però che due giorni dopo la chiamata di Horace Silver, mi chiamò Dave Brubeck. "Christian, mi daranno il premio alla carriera alla prossima cerimonia dei Grammy Awards, e vogliono che mi esibisca, e vorrei che tu suonassi con me." Pensai "Accidenti, questa è la mia settimana fortunata. Horace Silver e Dave Brubeck a due giorni di distanza. È incredibile!" Però se avessi suonato con Dave Brubeck alla cerimonia dei Grammys mi sarei perso il primo giorno di prove con Horace Silver.

Tra me pensavo, beh, ci saranno quattro giorni di prove, e poi quattro per registrare, e so già la musica, mi sono già esercitato ed ho provato, non penso che Horace mi farà dei problemi se perdo una prova. Chiamai Horace, e gli dissi, "Signor Silver, volevo dirle che mi ha chiamato Brubeck, vorrebbe che suonassi con lui ai Grammys, ma per farlo non potrò partecipare al primo giorno delle prove." E Horace disse, "Mi dispiace, ma se perdi anche solo un giorno di prove non se ne fa nulla." Allora io, "Davvero? Ma, Signor Silver, è soltanto un giorno!" "So di essere un po' severo, ma mi spiace, sai, sono della vecchia scuola, devo aver tempo per affiatarmi con i membri della band. Diventerei davvero molto inquieto se qualcuno perdesse una prova. So che suonerai alla grande, che tu faccia la prova o meno, non è quello il punto, ma ho proprio bisogno di tutti i quattro giorni per potermi sentire a mio agio prima di registrare." Così pensai "Oh, accidenti..."

Così chiamai Brubeck e gli raccontai cosa era successo. E mi disse, "Non è che puoi parlare con Horace e fargli cambiare idea? Vorrei tanto che tu suonassi con me. Con noi suoneranno anche Roy Hargrove e Joshua Redman. Christian, mi piaci molto e voglio davvero che suoni con me, sarebbe un onore. Vedi se riesci a parlare con Horace." Ero in un bel guaio, perché era chiaro che Horace non avrebbe cambiato idea. Lo richiamai e mi fece, "Mi dispiace Christian, niente da fare. O fai le quattro prove, o sei fuori dal disco." Non sapevo più che fare. Passai la notte in bianco scervellandomi per trovare una soluzione. Non volevo deludere Dave Brubeck, ma d'altro canto non volevo rinunciare al disco con Horace Silver... insomma, non sapevo che pesci prendere.

Pensavo, "magari riesco a trovare un volo che mi porti a Los Angeles e poi mi riporti a New York in tempo per la prova." Mi dicevo, "Ok, i Grammys sono alle otto, ora di New York, cioè alle cinque ora di Los Angeles..." e mi facevo i conti. Potrei trovare un volo diciamo alle 10 per Los Angeles, ed essere di ritorno a New York alle sei del mattino. Sì, ecco, ecco cosa farò.

Allora chiamai il mio agente e gli chiesi di organizzarmi i voli in modo da poter tornare a New York in tempo. Purtroppo era tutto pieno, e non c'era modo di tornare in tempo a New York. Così presi la decisione della quale francamente mi sono pentito: suonai ai Grammy Awards con Dave Brubeck e Horace Silver trovò un altro contrabbassista per il suo disco.

Ora ti chiederai perché me ne sono pentito: il mio agente di allora, sai come sono gli agenti, non gli importa granché l'arte, loro la vedono sempre dal punto di vista commerciale, i soldi, le luci della ribalta e la celebrità... il mio agente, dicevo, mi fece, "Christian, devi assolutamente esserci ai Grammys, milioni di persone ti vedranno il televisione, diventerai una star, e magari riuscirai anche ad avere dei contratti..." Quando sono al Jazz Aspen Snowmass, o quando parlo con giovani musicisti in cerca di consigli, racconto sempre questa storia, perché capiscano cosa è davvero importante.

Ovviamente dovevo arrivarci, e pensare, "la gente mica guarda i Grammys per vedere me, li guarda per Dave Brubeck." Ci esibiremo per un paio di minuti, non credo di poter fare chissà quale impressione in due minuti. Non farò neanche un assolo. Non solo, ma quando quella sera i Grammys andarono in onda ci fu una specie di disguido con il produttore, e sullo schermo comparve la scritta "Omaggio speciale a Dave Brubeck, con Roy Hargrove e Joshua Redman." Insomma, non mi avevano neppure citato! [Ride] Nessuno sapeva chi fosse quel contrabbassista che suonava con Dave Brubeck. Così non solo il mio nome non comparve in questo accidenti di "milioni di persone mi vedranno, è un'offerta che non posso rifiutare," ma finì che neanche feci il disco con Horace Silver, e non ebbi altre occasioni di suonare con lui.

Parlai con lui, mi incontrai con lui qualche volta dopo di allora, ma non riuscii mai a suonare con Horace Silver. Suonai un milione di volte con Dave Brubeck dopo quella edizione dei Grammys, e sono contento del grande rapporto avuto con lui per tutti questi anni: mi ha nominato primo direttore artistico della sua scuola. Ma non ho mai potuto suonare con Horace Silver, ed è una cosa della quale mi pento davvero moltissimo. Ah già... (ride), per aggiungere il danno alla beffa, quando ho raccontato l'accaduto al manager di Dave Brubeck, mi ha detto "avresti dovuto suonare con Horace!" [Ride].

Insomma, una risposta un po' articolata alla tua domanda, c'è qualche disco nel quale non hai mai suonato e che, guardando indietro ti sei detto... "accidenti!..." Sì, il disco di Horace Silver. [Ride]. Si intitolava The Hardbop Grandpop (Impulse!, 1996).

AAJ: Già, è terribile. Allora, chi sei tu, oggi?

C. MB.: Chi sono oggi... [Silenzio] Sono uno che spera di essere meglio di ieri, ma non ancora bravo come sarà domani.

AAJ: Bene... e parlando di musica, qual è la cosa più importante per Christian McBride?

C. MB.: Non so... è una questione di feeling... Devi provare qualcosa mentre suoni. Sai, anche i non musicisti sentono se sei onesto o meno. Sentono quando sei fedele alla tua arte. Magari non sanno spiegare ciò che fai in termini musicali, ma lo sentono. Come dicevo prima quando parlavo di programmi televisivi, di come sia la cultura Americana, e delle persone appassionate di cultura di massa, sanno che è spazzatura. Gli piace, la guardano, ma sanno che sono porcherie.

Per quanto mi riguarda, quello che mi importa della musica è il poter sentire l'onestà e la bravura di chi suona. Questo è ciò cui tengo di più. Ascoltando un disco pop, riesco a capire se è un tentativo di far musica o piuttosto di far soldi. Per me la differenza è chiara. Si riesce a capire se l'artista tenta di far musica, o solo di diventare famoso. E mi piace chi fa musica.

AAJ: E in generale che tipo sei?

C. MB.: Sono una persona emotiva, che dà molta importanza a quel che prova. Ho provato a bilanciare meglio il mio lato emotivo e quello razionale, perché talvolta dovrei essere un po' più razionale, ma non riesco a far meglio di un 80% emotivo e 20% razionale. Se mi trovo in un luogo che non conosco, sento se è un posto tranquillo o meno, magari qualcuno più razionale direbbe, "Beh, guardando le statistiche sulla delinquenza eccetera eccetera..." Mentre io sento se va bene o meno. Ed è lo stesso nelle relazioni. Cose del tipo, "Sai, ho sentito dire che quella persona è bla, bla, bla..." mi importano poco, ho un sesto senso per capire le persone. Mi importa poco dei "si dice," cerco sempre di incontrare le persone in campo neutro, senza preconcetti. È una questione di sensazioni. Che sia musica, o la vita in generale, per me è la stessa cosa, dipende da quel che sento. Se ho un feeling positivo lo seguo, non importa cosa mi dice la ragione.

AAJ: E qual è la cosa alla quale tieni di più nella tua vita?

C. MB.: Non c'è una cosa in particolare, mi piace il potermi alzare ogni mattina senza magari ripetere gli errori del passato e avendo almeno la possibilità di far meglio; di rimediare ai miei errori; e di rendere le persone felici con la musica.

La vita è un dono. Ci penso spesso, perché ormai molti dei musicisti che mi sono stati amici, come Ray Borwn, James Brown, mio zio, il fratello di mia madre, non ci sono più. Penso spesso a cosa sia l'aldilà. Cosa succede dopo? E mi dico, "invece di pensare a quello, pensa a cosa puoi fare finché sei ancora qui!" E quindi son contento della vita in generale. Penso a quel che posso fare finché sono in tempo. E sfortunatamente non riuscirò a fare tutto ciò che vorrei, perché conosco molte persone, sono stato in molti posti e ci sono molte cose che vorrei davvero fare; ci proverò davvero a farle e spero di farle tutte, perché ho grandi progetti. [Ride]

AAJ: Pensi che il Jazz si stia ancora evolvendo?

C. MB.: Sì, continua ad evolversi. C'è sempre qualcuno che farà progredire la musica. Qualcuno che farà il suo dovere e farà avanzare la musica nella giusta direzione. Non puoi farlo se non sai. Ci sono molti musicisti che pensano, "Non ascolterò le cose già fatte, per non farmi condizionare inconsciamente imitandole," ma questo non è vero. Devi conoscere la storia per andare avanti. Non farai crescere nulla senza conoscere chi ti ha preceduto. Non devi suonarlo, ma almeno devi capire cosa è stato fatto prima che arrivassi tu. Altrimenti secondo me ti stai solo prendendo in giro credendo di far progredire la musica: devi avere il senso della storia.

AAJ: Sei uno di quei musicisti che vanno in giro tutto il tempo canticchiando?

C. MB.: Sì. E dando i pugni sul tavolo. Sì, sono io [Ride].

AAJ: Che differenza c'è tra il pubblico Americano ed Europeo, per quanto riguarda il Jazz?

C. MB.: Beh, dipende da dove ti trovi. La mia esperienza è che alcune città dell'Europa Occidentale sono davvero giuste. Te lo dissi la prima volta che ci siamo incontrati, che Barcellona è una delle mie città preferite. Mi ricorda molto New York. L'ultima volta che ci sono stato mi sono molto divertito, andare in tutti quei club, e stare con i musicisti, e quei ragazzi che suonavano, per divertirsi. Un grande sound, suonando duramente e con sentimento. E la stessa cosa la ritrovo anche in molti posti nell'Europa dell'Est; in Romania, in Russia, ci mettono l'anima, sai? È la versione Europea di Harlem. Ci si mettono, e si divertono un mondo! Anche certi posti in Germania sono così. Lo senti che vogliono ascoltare della musica che li colpisca.

Come dicevo prima, mi piace il pubblico che risponde; che fa chiasso. Mi piace il pubblico che grida, strepita e magari ti urla delle oscenità. Questo mi piace. Non riesco a sopportare il pubblico che sta seduto, ti guarda e ti razionalizza, tentando di codificare quello che fai. Intanto sentilo, poi dopo avrai tempo di processarlo. Non c'è bisogno di farlo mentre uno suona, sentilo e basta. Mi piace il pubblico che urla così tanto da restare senza voce!

AAJ: Qual è il tuo primo ricordo di qualcosa di Jazz, a parte tuo padre sul palco?

C. MB.: Avevo otto anni, e vidi Dizzy Gillespie esibirsi al Jazz Festival di Atlantic City. Mio padre suonava con Mongo [Santamaria] quella stessa sera, ma io vidi Dizzy, e di nuovo, fu così divertente. Bastava guardarlo sul palco, come si divertiva con il pubblico, e con la band. Dizzy sorrideva sempre, e sul palco si comportava in modo buffo. Davvero, mi divertii un sacco.

E alla fine del concerto, come dicevo, mio padre si doveva esibire con Mongo, e quindi mi portò dietro le quinte ed incontrai Dizzy. C'era una fila di persone che aspettava di incontrarlo, e Dizzy era seduto sulla sua sedia, e questa signora si fece avanti per chiedergli l'autografo, dicendo, "Signor Gillespie, lei è uno dei miei eroi, è un vero onore incontrarla." Ricordo che Dizzy Gillespie le afferrò il sedere, mettendole la mano dietro, e disse, "Sì, bellezza, ed io sono un tuo fan!" Dizzy comincià a ridere davvero forte! La donna era così scioccata che non riusciva neanche ad arrabbiarsi, e Dizzy rideva... e io pensai, "è davvero un tipo!" Il suo soprannome è proprio azzeccato.

AAJ: Parlami di te come insegnante.

C. MB.: Quando ero alle superiori... sai, sono cresciuto a Philadelphia, che non è così distante da New York, e quindi molti musicisti venivano spesso a Philadelphia. Artisti come Bobby Watson, Kenny Barron, Walter Davis Jr., Red Rodney, Ron Carter, Branford Marsalis, Terence Blanchard, Max Roach, Donald Harrison, Dr. Billy Taylor, Grover Washington Jr... Insomma, ho avuto la fortuna di passare molto tempo con questi musicisti, perché venivano a Philadelphia e tenevano seminari, lezioni e cose del genere nella scuola che frequentavo io. Potevamo stare con questi grandi musicisti che ci dedicavano il loro tempo libero, e sapevamo quanto poco ne avessero, quindi eravamo sempre molto grati del fatto che lo spendessero per preparare questi seminari e queste lezioni per noi. So quanto fosse importante, e quindi promisi a me stesso che se mai fossi stato nei loro panni, potendo dedicare un po' del mio tempo per ispirare dei musicisti più giovani come loro ispirarono me, lo avrei fatto, senza dubbio. La prima occasione di mantenere quella promessa mi capitò a metà degli anni Novanta, quando il Berklee College of Music mi invitò a tenere una serie di lezioni.

Feci sei cicli di lezioni durante quell'anno scolastico. E loro dissero: scegli tu l'argomento, ed organizzati come credi sia meglio; e per me fu la prima volta. Ed ero spaventato, perché metà degli studenti erano più vecchi di me! Così pensai, ehi, ma che ci sto a fare qua, ma sembrava che a qualcuno piacesse ciò che insegnavo, e mi fecero tornare varie volte per tenere seminari e lezioni, cose così. E poco tempo dopo mi chiesero di partecipare al Jazz Aspen come ospite per l'Estate, giusto un paio di giorni, poi penso che gli piacque quel che feci e mi chiesero se mi interessava diventare stabilmente il loro direttore artistico. E io dissi, certo! Sono ormai 10 anni che lo faccio.

E come dicevo prima quando Dave Brubeck aprì il Brubeck Institute, mi chiese di diventarne il direttore artistico, e di aiutarlo ad organizzare il piano di studi; mi hanno coinvolto in molte attività educazionali, e sono onorato che così tanti mi abbiano chiesto di farlo, perché è una cosa che adoro fare. E specialmente se si tratta di Jazz non deve essere una cosa nozionistica, del tipo stare alla lavagna e pontificare "Louis Armstrong è nato nell'anno tale e bla bla bla..."

Insegnare a dei giovani musicisti vuol dire spiegare, ispirarli, spronarli a lavorare duramente, non puoi solo metterti a muso duro e dirgli "Fai pratica!"—sanno già di doverlo fare! Devi ispirarli, e li ispiri raccontandogli aneddoti. Gli mostri accordi che sai che non hanno mai sentito prima, gli fai ascoltare dischi che probabilmente non conoscono, e vedi i loro volti illuminarsi. E rispondi alle loro domande; ecco come li coinvolgi. Hanno già altri insegnanti che li fanno studiare sui libri, non è il mio metodo. Mi piace insegnare raccontando le mie esperienze, e mi pare che sia molto efficace.

AAJ: La tua carriera è fatta di molteplici attività, indossi diversi cappelli. In quale ti trovi più a tuo agio, come persona e come musicista?

C. MB.: È un tutto unico. In una recente intervista, Herbie Hancock raccontava la sua filosofia Buddista. Io non sono Buddista, ma ne condivido molti insegnamenti, come quello che dice che siamo un tutt'uno con l'Universo: Herbie spiegava che aveva sempre pensato a se stesso come ad un musicista innanzi tutto. Ma ad un certo punto si accorse che prima di tutto era una persona. Herbie diceva che era molte cose, ed essere musicista era solo una voce della lista. Diceva, "Sono un amico, un figlio, un vicino, un padre, un mentore, un musicista."

Quindi essere musicista è una cosa ma è anche un tutt'uno con tutte quelle cose. Quindi tutti i diversi cappelli che indosso sono in realtà un grande borsalino.

AAJ: Pensi che il contrabbasso sia sottovalutato?

C. MB.: No, penso che questo sia un mito da sfatare. I leader di svariate band suonavano il contrabbasso, da John Kirby negli anni Trenta a Charles Mingus, naturalmente, poi Ray Brown, Jaco Pastorius e, cambiando genere musicale, Marcus Miller, Esperanza Spalding, Dave Holland, Bootsy Collins.

Penso ci siano molti leader di band che suonano il contrabbasso, e lavorano duramente portando un significativo contributo tanto quanto chi suona la tromba o il pianoforte. John Patitucci ha al suo attivo molti progetti fantastici. Sì, ci sono dei contrabbassisti molto bravi che sono anche ottimi leader.

AAJ: Hai citato Esperanza Spalding. Non ci sono così tante musiciste Jazz. In effetti il Jazz è da sempre una forma d'arte principalmente maschile, almeno come musicisti. Come la vedi, da addetto ai lavori?

C. MB.: Mettiamola così: se guardiamo i musicisti, sono loro quelli che vanno in scena. Poi ci sono i rappresentanti delle case discografiche, i giornalisti, le riviste ed i giornali, i promoter: un sacco di persone dietro le quinte. Considerando i musicisti, siamo troppo pochi per poter essere sessisti o razzisti. Una volta ero in compagnia di Branford Marsalis e lui mi disse, "Guarda, se incontrassi una donna che suoni come McCoy Tyner, vorrei che suonasse con me. Poco importerebbe l'essere donna." Qualunque musicista sarebbe d'accordo, la pensiamo tutto allo stesso modo. Non penso che una donna debba ricevere un trattamento di favore, o avere più occasioni solo perché è una donna, così come non credo che un musicista Jazz di colore debba avere più opportunità solo perché è di colore.

L'importante è far bene il proprio lavoro. Che uno tenti di usare il sesso, l'età o l'orientamento sessuale come una scusa per non far meglio il proprio lavoro, rende comunque le cose complicate per tutti.

Mi ricordo ad esempio di un sassofonista, non vale la pena neanche dirti chi fosse, che mi assillò a lungo, "Christian, voglio suonare nella tua band, voglio suonare nella tua band!" Ma suonava davvero male. Uno dei peggiori sassofonisti che avessi mai sentito. E gli dissi, senza giri di parole, "No, non vai bene neppure per suonare nell'Esercito della Salvezza. Non sei pronto." Anche se lui sosteneva il contrario.

Devo dargli atto della sua tenacia. Così una volta, durante una serata a New York, lo feci suonare e fu terribile, e i ragazzi della band mi ripresero. "Perché lo hai fatto suonare, sapevi che sarebbe stato un disastro." Così gli dissi, "Devi farne ancora di strada, quindi piantala di seccarmi!" E alla fine mi disse, "Scommetto che se fossi di colore mi lasceresti suonare." C'è voluto del bello e del buono per non tirargli un pugno in faccia! Gli ho detto, "Lascia che ti dica una cosa, pensi che non prenderei Chris Potter o Brad Mehldau? Guarda, ringrazia il cielo che non ti faccio ingoiare tutti i denti per aver detto una cosa del genere."

Ecco, quando parlavo di persone che cercano solo scuse, mi riferivo a individui del genere. Sai, alla fine ha mollato il sax e ho sentito che è diventato un avvocato. Comunque è pieno di gente del genere, e non solo nella musica. Oh, sono nero... oh, sono una donna... oh, sono gay... oh, sono figlio unico... c'è sempre una scusa per non migliorarsi!

AAJ: C'è mai stata un'occasione nella quale ti sei detto, "Accidenti, ma guarda con chi sto suonando!"

C. MB.: Oh sì, mi è successo molte volte. Come quando mi esibii con Sonny Rollins e Roy Haynes, sapendo che era stato Roy Haynes a raccomandarmi a Sonny, "Hey, devi chiamare Christian McBride per questa serata." Sapere che Roy Haynes aveva fatto questo per me mi aveva quasi commosso. O quando a 18 anni ero stato per due anni e mezzo nella band di Freddie Hubbard. O ancora la volta che ero in studio con Joe Henderson, Herbie Hancock, Jack DeJohnette, Benny Carter, Hank Jones... Io che registro con loro? Incredibile. Perché perdono tempo con un poppante?! [ride] Sì, mi capita spesso.

Discografia Selezionata

Christian McBride & Inside Straight, Kind of Brown (Mack Avenue Records, 2009)

Pat Metheny, Day Trip (Nonesuch, 2008)

Christian McBride, Live at Tonic (Ropeadope, 2006)

Chick Corea - Steve Gadd - Christian McBride, Super Trio (Stretch/Universal Japan, 2006)

Diana Krall, The Girl in the Other Room (Verve, 2004)

Christian McBride, Vertical Vision (Warner, 2003)

B.W.B., Groovin'

Ray Brown - Jay Clayton - Christian McBride, Super Bass 2 (Telarc, 2001)

Uri Caine - Christian McBride - Ahmir Thompson, The Philadelphia Experiment (Ropeadope, 2001)

Christian McBride, Sci-Fi (Verve, 2000)

John Scofield, Works for Me (Verve, 2000)

Christian McBride, A Family Affair (Verve, 1998)

Christian McBride - Nicholas Payton - Mark Whitfield, Fingerpainting: The Music of Herbie Hancock (Verve, 1997)

Ray Brown - Jay Clayton - Christian McBride, Super Bass (Telarc, 1997)

McCoy Tyner, What the World Needs Now: The Music of Burt Bacharach (Verve, 1997)

Chick Corea & Friends, Remembering Bud Powell (Stretch, 1997)

Joe Henderson, Joe Henderson Big Band (Verve, 1996)

Various Artists, Original Soundtrack: Kansas City (Verve, 1996)

Cedar Walton, Composer (Astor Place, 1996)

Christian McBride, Number Two Express (Verve, 1995)

Stephen Scott - Roy Hargrove - Christian McBride, Parker's Mood (Verve, 1995)

Jimmy Smith, Damn! (Verve, 1995)

Joe Henderson, Double Rainbow:The Music of Antonio Carlos Jobim (Verve, 1995)

Christian McBride, Gettin' To It (Verve, 1995)

Roy Haynes, Te Vou! (Dreyfus, 1994)

Foto di Claudio Casanova, Goio Villanueva, Bruce Moore, Insky, John Kelman, JazzBoo.

Traduzione di Stefano Commodaro

Articolo riprodotto per gentile concessione di All About Jazz USA

Visita il sito di Christian McBride.

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