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Charles Tolliver: il ritorno della generazione perduta
Charles Tolliver appartiene a quella che a lungo è sembrata la generazione perduta. Musicisti nati all'aprirsi degli anni Quaranta che - se precoci, com'è stato senza dubbio il suo caso - furono ammirati nell'arengo internazionale dalla metà degli anni Sessanta eppure dopo i primi successi dovettero fare i conti con una trasformazione epocale dell'industria musicale. Non si tratta tanto dell'esplosione del jazz elettrico, avvenuta quasi contemporaneamente su più fronti stilistici (pensiamo a quanto diverse erano le proposte formulate, verso la fine degli anni Sessanta, da Miles Davis, Gary Burton, Don Ellis o Stan Getz), quanto della definitiva scoperta del pubblico giovanile da parte delle case discografiche, con un conseguente riassestamento delle logiche di mercato che comportò la chiusura in un angolo del jazz dopo un paio di decenni segnati, al contrario, da una grande disponibilità economica e un'altrettanto grande libertà artistica.> Da questa circostanza emersero nel corso degli anni Settanta varie strategie di sopravvivenza, tradotte in diversi filoni estetici: una "puristica" radicalizzazione dell'avanguardia che rifiutò polemicamente la logica di mercato; l'ammorbidimento delle ricerche elettroniche e la nascita della fusion; la risorgenza di un hard bop di tradizione, che finì col rappresentare, a metà del decennio, il modo "corretto" di intendere lo sviluppo del jazz. Ma alla nuova temperie storica è dovuto anche quello che potremmo chiamare lo "spirito dei tempi," un accentuato individualismo che colora ora in positivo, ora in negativo tutti i più caratteristici prodotti dell'epoca. In questa congerie di opzioni possibili (che solo ignorando le tendenze profonde presenti nell'epoca può essere scambiata per confusione stilistica) rischia di essere trascurata la scelta "meticcia," capace cioè di miscelare creativamente conservazione e avanguardia, fatta propria da molti rappresentanti della generazione cui si è fatto cenno.
Per Charles Tolliver, così come per musicisti del calibro di Woody Shaw, Jimmy Owens, Billy Harper, Gary Bartz, Larry Young, Bobby Hutcherson, Stanley Cowell, George Cables, Buster Williams, Joe Chambers, Billy Hart (l'elenco potrebbe continuare a lungo...), si trattava di rimanere agganciati alla gloriosa continuità del jazz senza rinnegare l'avventura del free, giunto a un momento di trapasso. Molti di loro avevano già aperto questa strada con diverse incisioni, soprattutto per l'etichetta Blue Note; ma ora bisognava proseguirla nelle mutate condizioni di mercato. La stessa Blue Note era virtualmente scomparsa, fagocitata da una multinazionale. Proprio Tolliver fu una vittima illustre di questo stato di cose: i primi brani a suo nome che conosciamo, registrati dal vivo nel 1965, hanno il tipico sound dell'etichetta (anche se furono pubblicati, molti anni dopo, dalla Impulse), ma il trombettista, che pure aveva esordito appunto con la storica casa newyorkese, al fianco di Jackie McLean, non fece in tempo a ottenere da essa un contratto.
Proprio le avverse condizioni spinsero buona parte di quei dotati trentenni a farsi più aggressivi. Se è vero che l'hard bop storico, "educato," come si è accennato riemerse in pieno a metà degli anni Settanta (con la nuova popolarità di Art Blakey, Max Roach, Horace Silver, Dizzy Gillespie, Dexter Gordon e tanti altri veterani), nella prima metà del decennio si era delineata una forma più ardita e aggiornata dello stesso stile; e Tolliver ne era stato fra i maggiori protagonisti. Non a caso la sua attività non si limitava a quella di brillantissimo solista, originale compositore, carismatico capogruppo, sofisticato arrangiatore (cioè, in una parola, di musicista), ma lo aveva portato anche a divenire organizzatore e produttore, fondando assieme al già citato Stanley Cowell, il suo pianista dell'epoca, l'etichetta Strata East, testimone e attrice di alcuni degli exploit più notevoli (e più trascurati) del periodo.
In questo il trombettista esprimeva in pieno le speranze "autonomistiche" di quel vivace periodo, legate com'è facile capire alla sottolineata tendenza verso l'individualismo; le etichette autogestite spuntavano in quegli anni come funghi, di qua e di là dell'Atlantico, e quasi sempre rappresentavano la risposta estetica, non solo commerciale, dei musicisti più consapevoli alle recenti chiusure dell'industria discografica. Nel catalogo della Strata East, oltre a molti esponenti della generazione dei trentenni, convivono significativamente musicisti free come Pharoah Sanders o Don Cherry e figure già legate alla tradizione come Clifford Jordan o Cecil Payne. In effetti, ascoltata nel suo insieme, la musica dell'etichetta (purtroppo da molti anni difficilmente reperibile) mostra la continuità presente, ben al di là delle definizioni di comodo, fra questi generi apparentemente diversi e implica dunque una "lettura" polemicamente ideologica dei recenti sviluppi del jazz. Qualcosa di simile è riconoscibile anche nella musica di Tolliver. La sua fedeltà alla tradizione è un melting pot di influenze che finisce col rappresentare un'istigazione alla libertà piuttosto che un richiamo alla disciplina; anche se, molto significativamente, egli sostiene che "se si eliminano l'improvvisazione e lo swing si perdono due dei principali elementi che permettono di essere considerati musicisti di jazz" (si noti come per lui, al contrario che per esponenti della nuova avanguardia come ad esempio i suoi contemporanei radicati a Chicago, il termine jazz abbia un valore fondante).
I suoi maggiori ispiratori sembrano essere John Coltrane e Max Roach. Del primo esplora l'ampio universo modale (seguendo quasi inevitabilmente le orme del trombettista più brillante del periodo, Freddie Hubbard, e affiancandosi all'altra luminosa rivelazione dello strumento, Woody Shaw), ma anche la furibonda e inesausta vitalità solistica, che lo spinge a improvvisazioni d'insolita durata e di sorprendente violenza espressiva, e la capacità di fondere la libertà armonica con una secca immediatezza melodica. Da Roach, con cui nel corso di quegli anni collaborò in più occasioni, Tolliver deriva in primo luogo l'interesse per i tempi irregolari, lungo i quali costruisce alcuni dei suoi temi più interessanti, e poi la capacità di dar vita a una dimensione epica del brano musicale che non sfocia mai nella declamazione retorica. In questo è importante la centralità che il trombettista assegna al ritmo, o meglio all'inventiva ritmica: "Sappiamo che cos'è il jazz," sostiene, "grazie al modo in cui suona il batterista. Sto molto attento alla scelta del batterista, e tutto ciò che scrivo deve avere al centro la batteria". Sono affermazioni che rischiano di far passare in secondo piano un'altra innovazione di gran peso, messa in luce in tutta la sua produzione: Tolliver è forse il trombettista che più si è dedicato alla formula del quartetto con pianoforte, contrabbasso e batteria, dunque senza altri fiati a dividere le responsabilità di una front line. Com'è noto, questa è una scelta azzardata non solo per i rischi di monotonia cui dà luogo (egli tra l'altro ben difficilmente fa uso di sordine per modificare il suono) ma per la relativa rigidità dello strumento, soprattutto se confrontata con la "voce" più comune nei quartetti con un solo fiato, il sassofono. Fin dal suo primo disco ufficiale, risalente al 1968, in cui quasi provocatoriamente la seconda facciata lo vede affiancato da Gary Bartz ma la prima è per quartetto, Tolliver si è sforzato di combattere queste limitazioni, costruendo un linguaggio di enorme varietà timbrica, ritmica e, si potrebbe dire, narrativa.
Ma il trombettista si è anche appassionato a quello che si può considerare l'estremo opposto del ventaglio sonoro jazzistico, la big band: formula con la quale dopo un non breve silenzio è tornato a firmare un album a proprio nome, "With Love", finalmente con la riemersa Blue Note, e con cui si presenta dal vivo a Milano. Anche questo interesse va storicizzato. All'aprirsi degli anni Settanta, quando egli realizzò i primi dischi con un'ampia formazione, le grandi orchestre erano considerate un relitto del passato. Naturalmente soffrivano in modo speciale per le nuove ristrettezze economiche; ma soprattutto sembrava che il loro linguaggio fosse stereotipato, che i necessari compromessi fra scrittura e improvvisazione impedissero di sviluppare al loro interno le innovazioni attraverso le quali si stava muovendo il jazz. C'erano, naturalmente, delle eccezioni, e anche molto stimolanti, prima fra tutte la Jazz Composer's Orchestra di Carla Bley e Michael Mantler, che però faceva vita grama. Altre formazioni erano più o meno clandestine: così l'eccellente Loud Minority di Frank Foster, o l'orchestra di Gil Evans, ancora lontana dalla celebrità, per non dire degli ensemble sperimentali "decentrati" come quelli di Muhal Richard Abrams a Chicago o di Horace Tapscott a Los Angeles.
Anche in questo ambito Tolliver scelse una strada stilisticamente "mista". Non rinnegava affatto il linguaggio della tradizione (il suo modello dichiarato era Ernie Wilkins), ma lo inseriva nella sintassi che aveva elaborato per il proprio gruppo. Il risultato è sottilmente trasgressivo, in una prospettiva che si potrebbe definire riformista anziché rivoluzionaria. D'altra parte Tolliver, con un'esperienza ridottissima, ottenne risultati paragonabili per pregnanza e originalità a quelli delle due big band che in quel periodo rappresentavano ai massimi livelli questa tendenza (benché molti osservatori le associassero, troppo superficialmente, alle orchestre più tradizionali): quella guidata da Thad Jones e Mel Lewis e la Big B-A-D Band di Clark Terry, nella quale - vedi caso - molti arrangiamenti erano firmati da Wilkins. In fondo però tutte le big band di quel periodo, coraggiosamente tese a contrastare la fine di un linguaggio, avevano qualcosa in comune che oggi (in un'epoca molto più favorevole al suono orchestrale) s'incontra assai di rado: la grande formazione non era intesa come mero artificio spettacolare, dove l'impatto dinamico ha la meglio su ogni altro parametro, ma alla stregua di un laboratorio di ricerche sonore. Per questo interessava tanto Tolliver, e per questo ritroviamo lo stesso sapore nella nuova formazione con cui si presenta a Milano, non per nulla segnata (oltre che da una gran quantità di giovani) da importanti solisti della sua stessa fascia d'età. A consolante conferma che quella che era parsa una generazione perduta si è da qualche tempo ritrovata.
Foto di Jimmy Katz (la prima e la quarta), Hans Speekenbrink (la seconda e la quinta) e Bruno Bollaert (la terza).
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