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Brad Mehldau
Arena Civica, 17.07.2008
C'era una volta un giovane pianista dal tocco delizioso e dotato di una musicalità straordinaria. Era la metà degli anni '90. Keith Jarrett stava attraversando un momento di buio artistico e personale, e il mondo del jazz era alla ricerca di un nuovo personaggio. Fu così che nacque il fenomeno Brad Mehldau. Un giovane americano, nato in Europa, molto padrone del linguaggio jazzistico, che impreziosiva con echi tardo-romantici. Aveva un carattere scostante, un'aria tormentata. Ricordo di averlo visto interrompere, al festival di Clusone, un concerto dopo soli quaranta minuti perché disturbato dai rumori provenienti da un vicino bar. Capricci da star, certo. Ma anche segni di un'esigenza di concentrazione molto forte, di un rapporto intenso con la propria musica.
Si parlò anche, all'epoca, di una certa familiarità con sostanze proibite. Insomma, c'erano tutti gli ingredienti per fare di lui una stella. Tutti gli elementi per inserirlo in quel filone di artisti, veri e dunque necessariamente anche maledetti, di cui è pieno l'album di famiglia del jazz. Si scomodarono paragoni importanti. Il succitato Keith Jarrett (in realtà stilisticamente molto distante da Mehldau), Bill Evans, Lennie Tristano.
Da allora sono passati molti anni, ed alcune centinaia di concerti. Il Brad Mehldau che abbiamo ascoltato in questa serata milanese (con Larry Grenadier al contrabbasso e Jeff Ballard alla batteria) suona sempre magnificamente, ma nel bene e nel male è assai distante dai tormenti d'artista di cui sopra. Abbiamo avuto l'impressione, piuttosto, di trovarci di fronte al classico concerto di routine. Molto ben confezionato, ma anche privo di momenti significativi. Gli echi di Lennie Tristano e Bill Evans hanno ceduto il passo al ben più accessibile e commerciale Esbjorn Svensson. Loop di derivazione rock (l'amore di Mehldau per i Radiohead o per Paul Simon è cosa nota) sviluppati all'infinito con frasi fluide, intervalli brevi, armonie non troppo complesse, qualche passaggio sulle ottave fatto più per impressionare la platea che per autentica esigenza espressiva.
Uniche eccezioni, il pressato del terzo brano, sviluppato armonicamente in modo molto interessante, e la coda del brano che ha concluso il programma regolare del concerto. Non a caso, un momento di solo piano. Ambito nel quale il musicista è nudo di fronte a se stesso ed al pubblico, e non può quindi cercare scorciatoie o facili vie d'uscita. Frammenti di musica vera, di arte vera, all'interno di un concerto ai confini con il piano bar. Passateci il termine blasfemo. E' un piano bar di gran lusso, di ottima fattura. Il trio è una macchina da musica perfetta. Ma è una macchina, appunto. L'emozione è distante, altrove.
Chiusura di concerto con ben tre bis, quasi a sottolineare ulteriormente il profondo cambiamento rispetto al passato. Il Mehldau di qualche anno fa ne avrebbe concesso solo uno, e di malavoglia.
Foto di Roberto Cifarelli
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