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Borotti e Li Calzi, direttori di Torino Jazz Festival

Borotti e Li Calzi, direttori di Torino Jazz Festival
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Il festival jazz di un grande centro come Torino sta cercando di configurare una propria identità, per diventare un evento che coinvolga concretamente il territorio e le associazioni culturali ivi operanti, così da formare un pubblico trasversale ma curioso e fedele, proponendo produzioni originali, incroci culturali e nomi stimolanti. A partire dall'edizione 2018 la direzione artistica del Torino Jazz Festival è stata affidata congiuntamente a due musicisti torinesi di diversa formazione: Diego Borotti e Giorgio Li Calzi. Anche per quest'anno appare essere confermata la linea della passata edizione, tentando di consolidarne le scelte di fondo. Per prima cosa viene definitivamente accantonata l'abnorme concentrazione gratuita del Primo Maggio in Piazza Castello, che fino al 2017 aveva costituito certo un'occasione di grande festa popolare, ma che nello stesso tempo era anche molto dispersiva, faticosa e soggetta ai capricci del meteo. Nell'intervista che segue abbiamo cercato di approfondire con Borotti e Li Calzi gli aspetti caratterizzanti del programma del festival torinese, che si aprirà il 26 aprile per chiudersi il 4 maggio.

All About Jazz: Rispetto all'edizione 2018, quali obiettivi e criteri avete mantenuto fermi quest'anno? Quali invece le novità?

Diego Borotti: Per la città di Torino l'edizione 2018 aveva inaugurato un nuovo format, di cui ricorderei tre tratti salienti. Innanzi tutto fare concerti a pagamento e al chiuso. Un biglietto popolare di 12 euro per un doppio concerto rappresenta un costo sostenibile e inaugura una sorta di dialogo tra il pubblico e la direzione misurabile in termini di affluenza e gradimento. Non credo tanto all'evento gigantesco in piazza e gratuito, che indirizza necessariamente la scelta artistica verso produzioni di una certa "massa sonora," prevedendo amplificazioni imponenti che non vanno d'accordo con ogni tipo di musica.

In secondo luogo l'intenzione di puntare sulla sezione Jazz ClHUB: ovvero la piattaforma dei quattordici jazz club cittadini, residenti e resistenti che, per la prima volta dal 1997, sono stati coinvolti in un grande festival internazionale con una programmazione degna dei palchi maggiori. Per fare solo alcuni nomi: Deborah J. Carter, Don Menza, Gilad Atzmon, Greg Cohen, Han Bennink, Don Moye, Peter Evans, Javier Girotto, Furio di Castri, Emanuele Cisi, John Etheridge, Flavio Boltro...

Terzo punto qualificante sono le produzioni originali. Senza forzare la sensibilità di musicisti internazionali e non, sin dalla passata edizione abbiamo teso ad incoraggiare le produzioni frutto di residenze artistiche che includessero musicisti italiani di valore e grandi nomi internazionali.

La principale novità di TJF 2019 è che la manifestazione si è dotata di un'anteprima di quattordici bellissimi concerti: TJF Piemonte, iniziato a metà marzo sino a ridosso dell'inizio del festival, ha cucito rapporti di collaborazione con jazz promoter piemontesi di valore e con il pubblico di tutta la regione. Si è creato così un nuovo e promettente network regionale del jazz, assieme a Piemonte Jazz e Fondazione Piemonte dal Vivo.

Giorgio Li Calzi: A un anno di distanza dal successo della passata edizione del TJF, la prima di un nuovo corso condiviso con Diego Borotti, e a dieci anni dall'organizzazione del festival CHAMOISic a Chamois, credo sia una scelta opportuna per un festival consolidare quanto è stato fatto nel passato facendo piccoli passi, semplicemente per non disperdere gli sforzi e non dovere necessariamente stupire. Un evento culturale, non intenzionalmente turistico ma che può anche portare turismo, non ha bisogno di fare il botto, ma deve diventare gradualmente un punto fermo e sicuro per la crescita di un territorio e di una comunità.

AAJ: Mi piacerebbe approfondire con voi il discorso sulle collaborazioni fra musicisti dell'area torinese ed altri esponenti nazionali o internazionali.

DB: Ho sempre avuto in mente una vecchia pratica di gioventù: quando trovavamo fondi sufficienti, tramite il lavoro delle associazioni culturali di musicisti che abbiamo costituito sin dai primi anni Ottanta, ospitavamo nelle nostre formazioni artisti più importanti italiani e stranieri. In questo modo ci è stato possibile imparare sul campo l'arte del jazz e dell'improvvisazione e alcuni di noi hanno messo in piedi collaborazioni in molti casi durature. Questo processo d'innesto funziona solo se i musicisti hanno già imbastito rapporti e collaborazioni internazionali su cui costruire i concerti che abbiamo messo in scena con grande interesse del pubblico.

GLC: Questa è la cifra più identificativa di TJF. Ci rivolgiamo ad eccellenti artisti torinesi o piemontesi e chiediamo loro con chi hanno suonato nel passato e vorrebbero suonare oggi. "Hai un sogno nel cassetto, un progetto particolare che ti piacerebbe realizzare prima o poi nella vita con un artista internazionale?" Cioè chiediamo ai nostri colleghi quello che vorremmo facesse con noi un festival della nostra città. Se la nostra comunità crescerà, cresceremo anche noi come artisti.

AAJ: La mappa delle sedi coinvolte mi pare più o meno invariata rispetto all'anno scorso, evitando l'appuntamento gratuito all'aperto in Piazza Castello.

GLC: Sappiamo tutti che ad aprile piove molto facilmente; anche se avessimo un festival milionario non è mai opportuno buttare via i soldi, perché un improvviso acquazzone può cancellare dai 100 ai 200.000 euro, tra costi tecnici, burocratici e artistici. Penso inoltre che la musica non debba necessariamente essere gratuita, specie quando il pubblico può scegliere di assistere a un concerto dal costo estremamente accessibile.

DB: Sì, nella sostanza le sedi sono le stesse con qualche nuova scena, come l'Auditorium del grattacielo di Intesa. All'aperto, in Piazza San Carlo, il 28 aprile nella giornata Unesco per la danza, sonorizzeremo la coreografia "The Nelken-Line" di Pina Bausch, con una grande marchin' band di trenta musicisti ed oltre cento danzatori.

AAJ: Le vostre competenze e ruoli sono distinti o collaborate nella decisione su ogni aspetto?

DB e GLC: Man mano che passa il tempo la nostra collaborazione s'interseca, pur avendo sensibilità musicali molto diverse e modalità di lavoro quasi opposte. Crediamo che un grande festival internazionale debba rappresentare le molte anime del jazz e che la nostra "diversità convergente" sia una garanzia.

AAJ: In particolare in quali sezioni si suddivide il programma 2019? Quali le proposte e i nomi di punta?

DB: Le quattro sezioni del programma sono CONCERT, JAZZ clHUB, SPECIAL e OPEN AIR. Certo i nomi risaputi di Joshua Redman, Enrico Pieranunzi, Randy Brecker ed Enrico Rava costituiscono un'ossatura robusta. Mi aspetterei sorprese gradevolissime anche dalla residenza artistica di Jon Balke con gli allievi ed i docenti delle eccellenti classi di archi del Conservatorio di Torino, da Arto Tuncboyaciyan in una produzione originale con lo SFOM Quartet, da Bugge Wesseltoft nel trio Rymden (prima data italiana di sempre), da Michael Portal Qintett con Flavio Boltro, ma anche da Han Bennink che suona con il gruppo CLG Ensemble, formato da diversamente abili che suonano con impeto performativo e non propedeutico.

GLC: Un'altra cifra che dà una forte identità al festival è quella di non cercare artisti che sono in tour, creando un festival fotocopia in cui il trombettista X suona a distanza di un giorno a Roma, Milano, Monaco e Londra. Cosa che generalmente va benissimo, perché ogni territorio ha un suo pubblico, ma ci piace anche l'idea di avere artisti che vengono a suonare al TJF in esclusiva italiana. Tra questi avremo John Paul Jones, bassista dei Led Zeppelin, da anni interessato all'improvvisazione, che suonerà con i Tres Coyotes per la prima volta in Italia. Oppure l'ensemble di Gavin Bryars, compositore e contrabbassista inglese che è proprio partito dal jazz per arrivare a dare un corpo minimalista e neoclassicista alle sue composizioni. Anche il grandissimo chitarrista norvegese Eivind Aarset, verrà apposta in Italia per il TJF con il suo gruppo d'impronta psichedelica. Credo sarà un concerto incredibile anche quello di Rymden, formato dalla ritmica dell'E.S.T. Trio con il piano di Bugge Wesseltoft... E ancora Sidsel Endresen con il super chitarrista Stian Westerhus, Fred Frith in solo, Peter Evans e Levy Lorenzo... Un modo assolutamente moderno ed europeo per rappresentare il jazz contemporaneo. Credo sia importante per un festival provare a rappresentare non solo quello che già si conosce del jazz, ma tutto quello che parte e che si sviluppa dal jazz, e quello che oggi rappresenta la fusione del linguaggio afro-americano con altre musiche e culture. D'altronde la fusione, la libertà e il dialogo sono sempre stati elementi base della musica più importante del Ventesimo secolo.

AAJ: Avete entambi una carriera poliedrica e interdisciplinare. Prima di Torino Jazz, avete collaborato in altre occasioni, sul palco come musicisti o nell'organizzazione di eventi?

DB: e GLC: Ci siamo incrociati più nella vita che nell'arte, a dire il vero, condividendo alcune campagne "sindacali" del passato. La piccolissima ma persistente traccia musicale che ci accomuna al TJF sono le musiche dei video-teaser del festival.

AAJ: In base alle edizioni passate, avete un'idea della composizione del pubblico del Festival? Quali le fasce d'età? Quale il rapporto fra torinesi e spettatori che provengono da altrove, fra veri appassionati di jazz e spettatori occasionali?

DB: Ci siamo accontentati per ora del "sold out" totale della passata edizione, ma abbiamo intenzione di programmare un'indagine demografica scientifica che fornisca strumenti sugli scopi ultimi del festival. Credo si possa dire che il pubblico anziano si mescola molto felicemente con quello giovane, che la maggior parte degli spettatori provenga dalla Città e dalla provincia, con un ottimo afflusso anche da tutta la regione e da quelle confinanti. Abbiamo la sensazione che il flusso da altre regioni e dall'estero sia in aumento ma, appunto, attendiamo notizie scientifiche nel prossimo futuro. Il numero di presenze del 2018, stimato in 22.000, direbbe che i veri appassionati sono una minoranza, seppur preziosa.

GLC: Una delle nostre missioni è quella di sdoganare il jazz dalla cifra autoreferenziale che si è creata specie in Italia negli ultimi decenni, e rendere più pop (pop inteso come concetto artistico) l'appeal di un jazz festival. In dieci anni di festival a Chamois, CHAMOISic, abbiamo constatato che il pubblico, quando si fida delle scelte di un festival, è molto più libero da sovrastrutture di quanto si possa immaginare. L'anno scorso al TJF il sold-out di tutti i concerti a pagamento ha dimostrato che il nostro pubblico ha accettato la sfida di scegliere un festival diverso dal solito.

AAJ: Nelle entrate del bilancio consuntivo 2018 quali sono state le percentuali dei finanziamenti pubblici, dei contributi degli sponsor privati e della vendita di biglietti?

DB e GLC: Il finanziamento dell'edizione passata ha pesato per circa l'8% su fondi comunali, per il 12% sui biglietti e, per il restante 80% su sponsor privati.

AAJ: Per il 2019 tutto resta invariato o si prevedono finanziamenti maggiori o minori da parte del Comune?

GLC: Abbiamo chiesto dall'anno scorso alla parte politica del Comune che un festival vincente come questo, cioè con un programma molto originale, con un grosso successo di pubblico e così impattante sul territorio, venisse premiato, e così è stato. È stato un piccolo grande sforzo che abbiamo molto apprezzato, ma che immaginiamo di ottimizzare al meglio il prossimo anno.

AAJ: Quali sono i festival, nazionali o internazionali, che ognuno di voi segue e ammira? E perché?

DB: Credo di aver suonato in tutti i maggiori festival europei e in qualcuno extra europeo, in Russia, Nord Africa, Asia. Mi piacciono i festival che mettono in campo produzioni originali e anche popolari senza scivolare nel puro e semplice ingaggio di una pop star che non si metta in gioco con il linguaggio del jazz. Amo inoltre i festival che non usano gli artisti locali solo come bassa manovalanza per riempire spazi vuoti, i festival che, senza dimenticare la cristallizzazione storica del jazz, guardano al futuro distinguendo un'invenzione da una "trovata," e anche i festival che, al ritiro della "piena" che ogni festival genera, lascino almeno un po' di limo fertile. Mi piace infine, come sta succedendo anche in Italia, che i festival si consorzino.

GLC: Ammiro in particolare il Punkt festival in Norvegia e il North Sea Jazz, che piace sia a me che a Diego perché rappresenta "tutto" il jazz e ogni anno ha anche un paio di scelte artistiche molto originali. In Italia prediligo Terraforma a Milano, Isole che parlano a Palau, diretto da Paolo Angeli e Time in Jazz di Paolo Fresu a Berchidda, nato in tempi non sospetti e che ha molto insegnato ai festival italiani.

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