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Autunno indi[e]pendente
Nell'universo indie c'è sempre un grande fermento, un movimento di idee, di entusiasmi, di trasmutazioni che contagia, spinge comunque in avanti - ma non mancano le riflessioni verso il passato - e si trova a fare i conti con un mercato discografico che rischia in certi casi di mimare il mondo delle major. Tante uscite, troppe, spesso interessanti, ancor più spesso interessanti a metà e poi via, come un mucchio di foglie d'autunno che vola e si disperde. Le giornate si accorciano terribilmente, ma facciamo luce sulle più significative uscite del periodo.
Con A Million Microphones [Touch&Go - 2006 - distr. Wide] tornano i Supersystem, evoluzione dall'alto tasso ritmico degli ottimi El Guapo. La loro musica è ora una fusione niente male di pop sintetico [profondamente debitore sia nei confronti della new wave che delle sirene plastiche degli anni Ottanta] e punk-funk, un connubio che diventa materia pulsante e danzante.
Si può così tuffarsi negli spasmi esotici di un pezzo azzeccatissimo come "The Lake" o nelle spire di "Eagle Fleeing Eyries", ma anche abbandonare freni e calligrafie per episodi più legati a un'estetica scura e clubbish che farà felice più di qualche nostalgico di quelle sonorità. Grazie all'ottima produzione - attentissima a ogni dettaglio - e alla collaborazione con Jonathan Krenik, i Supersystem spingono la loro visione della forma canzone in una densa vernice abrasiva e non si può negare che la cosa, anche se legata forse ad un ascolto squisitamente emotivo e energetico, funzioni a meraviglia!
Beh, il gioco si fa duro? Vi va di giocare? Reduci da una notevole attività dal vivo che li ha portati a suonare anche in un'azzeccata collaborazione con Anthony Braxton, i Wolf Eyes trovano nel breve e folgorante Human Animal [Sub Pop - 2006 - Audioglobe] il passaggio segreto per la porta degli inferi sonori! Un suono davvero oltre, duro, inconciliato, metallurgico prima che metal, siderurgico prima che siderale. Qui si fa sul serio, altro che "fare casino"! Qui ci si immerge davvero in un'esperienza emotiva che non lascia spazio ai dubbi e che riassume con schiantante concisione una vasta serie di esperienze sperimentali degli ultimi quarant'anni.
Basterebbe l'iniziale "A Million Years", con i suoi sibili, il sax e le urla stridenti, le frequenze che oscillano a rendere insatabile ciò che già è tutt'altro che rassicurante. Ma anche l'incedere ritmico della scurissima "Rationed Rot", con il rivoltante parlato di Nate Young o il noise catacombale della title-track. Qui siamo ben lontani dagli sfizi borghesi zorniani [che pure il noise-metal lo ama davvero], ogni botto è la zampa di un vero Godzilla che si avvicina al tetto della vostra casa e ogni lacerto di suono è come se venisse strappato direttamente dalla vostra pelle.
L'elettronica come lasciapassare per l'inferno, la radio senza trasmissioni che annuncia le ombre della notte senza fine: con Human Animal non vi potete divertire a spaventare fidanzate, moglie e vecchie zie e ridacchiare, o ci state dentro - ed è terribile e bellissimo al tempo stesso - o non lo potete reggere. Ma è un disco di un'intensità rara ["Leaper War" prende allo stomaco, anche quando appare più calma del tornado di suoni che la attornia] che iscrive di diritto i Wolf Eyes tra i gruppi indispensabili di questi anni. Leggere attentamente le avvertenze e tenere lontano dalla portata di bambini e cultori dell'hi-fi!
Un altro gruppo che, sebbene in un ambito ben diverso, ha trovato una sua dimensione particolarmente interessante sono i Subtle dell'ex Clouddead Doseone. Dopo l'anticipo in primavera dell'ep Wishingbone, il nuovo For Hero: For Fool [Lex Records - 2006 - distr. Wide] è un viaggio orizzontale attraverso molti generi, dall'hip-hop al pop, dall'elettronica al rock, utilizzando un numero elevato di elementi anche apparentemente eterogenei.
Ci sono nubi elettroniche ammalianti che vengono frammentate da breaks vocali, lacerazioni punk-funk che sembra che i Talking Heads siano scesi all'angolo della strada ["Middleclass Stomp"], deviazioni panamericane - il suono è spesso apertamente debitore ad alcuni topoi della storia musicale a stelleestrisce - o rallentamenti lisergici, accelerazioni pop come per il singolo "The Mercury Craze". Tanta carne al fuoco, forse troppa, ma il disco indubbiamente si fa ascoltare e questo ibrido un po' irriverente e presuntuoso finisce per diventare un apprezzato compagno di viaggio.
Sul versante della canzone elettronica, molto attesa era la nuova prova di Dani Siciliano, la voce che tutti gli appassionati di Herbert ben conoscono: con Slappers [!K7 - 2006 - distr. Audioglobe], che tra l'altro sancisce il suo allontanamento dal compagno di lavoro e di vita, l'artista prosciuga ancora di più il discorso intrapreso con il più "pop" Likes..., concentrandosi su reticoli minimali di glitches.
L'ascolto diventa così assai meno immediato rispetto alle strepitose prove - anche recenti - di Herbert e si trasforma in un battito cui solo le traiettorie vocali danno vita e senso. Cose tipo lo scheletro country-blues di "Why Can't I Make You High" [con la sua ironica traiettoria metronomica] o nel pulsare di "Too Young" c'è una volontà che l'attenzione si sposti sulla voce. Comprensibile, dato che il suo ruolo nel lavoro herbertiano, per quanto essenziale, era sempre su basi di stupefacente genialità, ma le traiettorie che la Siciliano sceglie sono in parte simili a quelle e la parte musicale, per quanto di qualità e anche in sé originale, non può competere.
Ne viene così fuori un lavoro ibrido, affascinante per tanti aspetti, forse incompleto, forse completo ma troppo isolato [il termine è da intendere in un'accezione ampia e sfumata], sicuramente personale. Il passo successivo? Difficile a dirsi, ma Dani sa che la seguiamo con attenzione!
Chi avesse poi già nostalgia - nonostante il recente, meraviglioso, Scale - di Herbert in persona, trova fresca fresca nei negozi la ristampa [accresciuta da un ottimo bonus disc di rarità, inediti e b-sides] di 100lbs [!K7 - 2006 - distr. Audioglobe], l'album del 1996 che vide il debutto del genietto dell'elettronica inglese. Formato originariamente da tre Ep, 100lbs è ancora oggi uno splendido manuale di house, che aprì letteralmente la strada verso una nuova elettronica, più umana e coinvolgente e al tempo stesso ricercatissima. Un classico da avere!
Ad una "umanizzazione" delle sonorità digitali ha sempre puntato anche Paul Wirkus, che si era segnalato nel 2004 con il disco Inteletto d'Amore. Ora il nuovo Déformation Professionelle [Staubgold - 2006 - distr. Wide] conferma quanto di buono si era detto e presenta dieci affascinanti "creature glitchiformi" che prendono a danzare con movimenti sinuosi e mai bruschi.
Tra le qualità di questi brani - prendiamo come esempio "Kocham" o la title-track - c'è uno splendido controllo timbrico, elemento che sta proprio alla base della costruzione sonora, che poi viene costruita o fluisce secondo architetture ammalianti e mai autoreferenziali. Il disco lascia con una strana sensazione che non ci sia nulla di nuovo eppure suona nuovo, ma comunque stiano le cose, non gli si può negare una amabile malia musicale. Non è poco!
Di umanizzazione in umanizzazione, casca a pennello anche il nuovo lavoro del giovane musicista inglese Ryan Teague, dal titolo Coins and Crosses [Type - 2006 - distr. Wide]: ampliando lo spettro sonoro alla Cambridge Philharmonic e all'arpista Rhodri Davies, ben noto negli ambienti dell'improvvisazione, Teague costruisce così un lavoro dal respiro "classico", in cui i due elementi, quello elettronico e quello acustico, convergono verso punti di fuga dolcissimi e suadenti.
Grazie a una struttura narrativa di collaudata efficacia, Teague rifugge da brusche sterzate e lascia che ogni elemento si possa sviluppare con tutta la calma di cui ha necessità: anche se apparentemente il tutto può suonare un po' "manierato", è facile lasciarsi avvolgere dalle spire di composizioni come la struggente "Nepesch" e specchiarsi nella accesa descrittività di queste pagine. Tutto molto british e estremamente godibile.
Profuma di folk balcanico il nuovo lavoro di A Hawk And A Hacksaw, il cui nucleo è ora formato da Jeremy Barnes a fisarmonica, batteria e voce e dal violino di Heather Trost. The Way the Wind Blows [Leaf - 2006 - distr. Wide] è infatti stato registrato in parte in un villaggio rumeno con l'apporto di alcuni componenti della Fanfare Ciocarlia, ben nota anche dalle nostre parti. Se dunque i lavori precedenti di Barnes si avventuravano in una mistura un po' hippy di ricerca e tradizione popolare, questo nuovo punto di snodo discografico è improntato ad una maggiore adesione verso il modello tradizionale.
Nulla di male in sé e il percorso ha anche una sua logicità: partito giovanissimo dal Nuovo Messico, Barnes ha progressivamente orientalizzato le sue traiettorie, passando per Chicago, New York, l'Inghilterra e la Francia e ha potuto sperimentare personalmente un intenso melting culturale attraverso la frequentazione di musicisti emigrati. Affascinato dalle musiche balcaniche - che più di un legame hanno con l'approccio naïf, carnevalesco e a volte grottesco di molti suoi episodi - ha immerso ora completamente A Hawk And A Hacksaw in quell'universo, lasciando così da parte molte trasversalità, ma forse ricongiungendosi alle radici della propria poetica. Resteranno probabilmente delusi gli ammiratori delle sue pagine più eclettiche, così come gli appassionati di folk balcanico potrebbero non trovare quella completa genuinità, ma a volte, si sa, lo sguardo sul Vecchio Continente da parte degli artisti americani più sensibili, svela altre direzioni del cuore. Comunque piacevole.
Il quarto volume della serie Out Trios [Atavistic - 2006 - distr. Wide], che già ha documentato alcuni ottimi triangoli improvvisativi, ad esempio quello tra Nels Cline, Andrea Parkins e Tom Rainey, mette ora insieme il chitarrista dei Karate, Geoff Farina, il bassista Nate McBride [già componente degli indimenticati Spaceways Inc. e collaboratore di Ken Vandermark] e il batterista Luther Gray.
Dieci brani per quella che in sostanza è una lunga jam, a cavallo tra rock d'avanguardia e il jazz più aperto, con tutti i pregi e i difetti che questo comporta: per quanto riguarda i primi c'è lo spazio per ognuno di sviluppare i personali percorsi improvvisativi [in particolare si fa apprezzare McBride, con un suono denso e linee sempre mobili] e non mancano momenti di buona suggestione. Sul fronte dei difetti, c'è una certa tendenza alla prolissità e comunque il risultato globale è sempre un po' al di sotto di ipotetici standard: le parti strumentali sono ben suonate, ma non irrinunciabili [Farina in modo particolare sembra artista che funziona meglio quando asciuga le trame], quelle più sperimentali interessanti, ma non tali da ipnotizzare l'attenzione completamente. Una jam post-rock di buona fattura ["Hello Tamarat, Goodbye" è un episodio significativo in questo senso], ma si può dare di più.
Si resta dalle parti di Chicago con il trio Pit Er Pat, composto da Fay Davis-Jeffers alle tastiere con il basso di Rob Doran e la batteria di Butchy Fuego. Pyramids [Thrill Jockey - 2006 - distr. Wide] è un disco che - grazie anche all'attenta produzione dell'immancabile John McEntire - si muove tra pop, rock, folk e qualche anomalia ben ricamata.
Provenendo da un humus - anche "passivo" se vogliamo - post-rock, i tre hanno l'istinto di fornire alla forma canzone tutta una serie di piani di fuga che sono di volta i volta timbrici, strumentali, strutturali, ma si ha come l'impressione che sia proprio la qualità della scrittura il punto debole. Le canzoni non sono memorabili e non basta una voce femminile in bilico tra innocenza e smarrimento sopra tremuli accordi di piano elettrico e nemmeno qualche robusta cavalcata ritmica - dall'animo larvatamente prog - a renderle tali. Rimandati?
Decisamente più interessante è invece Living Room [Plug Research - 2006 - distr. Wide] del Lifeforce Trio guidato dal produttore Carlos Niño [l'uomo dietro al progetto Hu Vibrational] insieme a Dexter Story. Siamo qui dalle parti di un post-funk dai tratti molto estatico-cosmici, una musica che si ispira sia a Sun Ra che a Alice Coltrane, in cui sonorità elettroniche bizzarre e afflati soul si fondono in modo appetitoso.
Grazie anche all'azzeccato contributo di alcuni ospiti, i brani di Living Room proiettano l'ascoltatore in una dimensione spaziale grumosa e intrigante [ottima ad esempio la medley centrale "Blue Line, Watts Bound/The Shadows Took Shape/Soul Mates, Like Thunder And Lightning"] che non si smarrisce mai in nuvole cinematiche, ma tiene al contrario l'ascoltatore sempre attaccato alla materia sonora. Non una cosa da ascoltare a tutte le ore, ma decisamente buona!
Strane coppie. Una potrebbe decisamente essere quella composta dall'MC dei Five Deez Fat Jon e dal musicista elettronica Styrofoam. Legati da una solida amicizia, i due sono entrati in studio a Anversa e hanno unito i loro mondi in un disco, The Same Channel [Morr Music - 2006 - distr. Wide], fresco e scintillante. Venendosi incontro con naturalezza, i due hanno costruito una serie di canzoni in cui il tracciato hip-hop di Fat Jon si stende su brillanti intrecci di synth, chitarre e beats. Intelligente e organico, un capitolo promettente di un nuovo dizionario della lingua comune.
Sempre l'etichetta berlinese propone in questo periodo il nuovo lavoro del chitarrista F.S. Blumm. Summer Kling [Morr Music - 2006 - distr. Wide] è un morbido album di acquerelli digital-folk, impreziosito dai begli apporti di strumenti a fiato come clarinetto o trombone, equilibrato nelle sue trame, perfetto per un tardo pomeriggio di autunno, magari con un thè caldo e delle castagne. Ogni tanto volersi bene, anche per le orecchie più irrequiete, è un diritto.
E l'Italia? Molte cose si muovono anche da noi: tra queste certamente gli Yellow Capra, di Milano, sono una di quelle da seguire con attenzione. YC [Piloft - 2006 - distr. Wide] è il loro primo lavoro sulla lunga durata e guarda a una musica dilatata e strumentale in cui l'eredità post-rock si stempera con leggerezza narrativa che è sia "visuale" che in un certo senso "pop". Gli ingredienti del genere ci sono tutti, dalle cavalcate in crescendo all'utilizzo di strumenti come violoncello e flauto, dall'elettronica leggera all'ipnotica iteratività. Solo qualche anno fa un gruppo di strumentisti così sarebbe probabilmente finito nelle fauci del neo-prog [le cui esperienze migliori, comunque, non sono per nulla trascurabili e hanno più di qualche punto di contatto con il post-rock più "ricco di ingredienti"], oggi ci regalano una colonna sonora per mattine piovose o pigri tragitti in macchina. Bravi!
Chiudiamo segnalando una raccolta, Blues... Is Number One [Gustaff Records - 2006 - distr. Wide], che raccoglie brani blues di artisti della scena indie europea. Come è intuibile, il termine "blues" è qui inteso nella sua accezione più vasta, dal momento che nella scaletta troviamo musicisti elettronici come Laub, Tarwater, Paul Wirkus, Barbara Morgenstern, il nu-jazz di Kammerflimmer Kollektief, l'ottimo Andrew Pekler e molti altri. Deviazioni, reinvenzioni, rimandi, impulsi folktronici, una gemma come "Some Small Consolation" di Matt Elliott. Se vi incuriosisce il genere, è un'antologia consigliata.
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