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Andrew Hill - La vita e la musica di un genio misconosciuto

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Ricordando Andrew Hill - La vita e la musica di un genio misconosciuto

INTRODUZIONE

IL PERIODO BLUE NOTE

GLI ANNI SETTANTA

GLI ANNI OTTANTA: IL RITORNO SULLA SCENA INTERNAZIONALE

DAGLI ANNI NOVANTA UN RINNOVATO IMPETO CREATIVO

INTRODUZIONE

Ricordare la figura artistica di Andrew Hill comporta necessariamente un riesame delle sua vicenda biografica.

Quando Howard Mandel ha ufficialmente annunciato per conto della famiglia, la sua morte (avvenuta il 20 aprile 2007) per un tumore ai polmoni, s'è saputo che il pianista era più vecchio di sei anni rispetto a quanto noto: era infatti nato il 30 giugno 1931 anziché lo stesso giorno e mese del 1937. Nel 1990 lui stesso aveva chiarito, in un'intervista a Coda Magazine (Nota 1) di non provenire, né avere ascendenze a Port au Prince (Haiti), come A.B. Spellmann aveva scritto nella presentazione (concordata con lui) del suo primo disco Blue Note, Black Fire.

Forse più di Thelonious Monk, la sua biografia presenta lati ancora oscuri ed a quel pianista può essere accostato non tanto per gli aspetti stilistici (comunque presenti), quanto per i lunghi periodi trascorsi lontano dai riflettori. Speriamo che la curiosità per gli aspetti enigmatici della sua biografia non prevalga sull'analisi della produzione musicale, che è stata originale e copiosa ma è rimasta a lungo inaccessibile, sepolta negli archivi Blue Note [a questo proposito leggi la recensione del cofanetto Mosaic Select 16 che raccoglie inediti della Blue Note], o difficilmente reperibile.

Eccetto l'ultimo decennio, la musica di Andrew Hill ha suscitato scarsi e discontinui interessi presso la critica, gli impresari e il pubblico: solo poche persone lo hanno instancabilmente sostenuto negli anni.

Rileggendo i commenti della stampa internazionale è stato frequente, dagli anni settanta ai novanta, trovare conferme a questo approccio: qualche sbrigativo accenno alla sua statura di artista originale e misconosciuto e poco più. Rari studi o monografie e solo qualche intervista, nelle fasi cicliche in cui Hill rientrava in scena. Tra i molti giudizi della critica sul pianista ne ricordiamo un paio, piuttosto indicativi del suo percorso artistico.

Nel 1969 Leonard Feather scriveva di lui come "uno dei più articolati e avventurosi, uno dei più comunicativi e fruibili musicisti del nostro tempo". Due decenni dopo Richard Cook e Brian Morton esprimevano amaramente nella Penguin Guide to Jazz: "Tra gli importanti pianisti del bop e post bop - Bud Powell, Horace Silver, Mal Waldron, Paul Bley, Cecil Taylor - egli è il meno noto e il più irregolarmente documentato; anche Herbie Nichols gode di un indiscutibile riconoscimento postumo".

È pur vero che la permanenza in questa collocazione marginale fu dovuta in parte allo stesso Andrew Hill, sempre pronto a eclissarsi per lunghi periodi dedicandosi all'insegnamento o alla composizione.

La sua natura di pianista e leader storicamente indeciso tra i due ruoli (eccetto gli ultimi anni ha guidato sempre formazioni diverse, senza identificarsi stabilmente in alcuna) non ha aiutato il lavoro d'analisi.

Come se non bastasse, la sua personalità sfuggente ha favorito varie inesattezze biografiche, alcune ormai note, altre ipotizzabili. Quello veramente importante, però, è il grande patrimonio musicale che Hill ci ha lasciato. Per questo è doveroso ricordarlo tra i massimi pianisti e compositori del jazz moderno.

Nato a Chicago il 30 giugno 1931, terzo figlio di una famiglia molto povera, Andrew ha subìto a lungo gli effetti psicologici di questa condizione. In un'intervista al New York Times del 24 febbraio 2006) ha esplicitamente ricordato la sua sofferenza con queste parole: "non ero pronto ad accettare la mia posizione socio-economica". Le sue improbabili dichiarazioni tese a ricostruire un passato mitico (Haiti, il patronage di Parker, quello di Hindemith) vanno viste non tanto come semplici menzogne ma come l'ennesimo sintomo della precaria identità afroamericana, tesa a negare lo squallore del ghetto per una diversa realtà trasfigurata simbolicamente (vengono in mente le asserzioni di Sun Ra, sulla sua origine saturnina).

Le dichiarazioni di Hill sugli esordi musicali sono discordanti: sembra che abbia iniziato con una piccola fisarmonica e poi sia passato ad apprendere da autodidatta il piano, poco dopo i dieci anni. È certo che la pratica strumentale gli servisse per aiutare economicamente la famiglia: intorno ai sei anni già si esibiva in strada, cantando, ballando il tip-tap e suonando blues assieme a qualche amico. In un concorso per dilettanti promosso dal Regal Theatre per la festa del ringraziamento, vinse due tacchini messi in palio dal giornale Chicago Defender, che egli stesso vendeva come strillone per le strade di Chicago.

Il suo isolato nel South Side, posto tra la 47ma strada e South Parkway, era vicino al Savoy Ballroom e al Regal Theater: si respirava musica a tutte le ore, afro-americana e caraibica. Sembra che il giovane Hill avesse problemi di comunicazione verbale al punto che lui stesso ha definito la sua condizione semi-autistica. Rientra nell'autocostruzione del suo mito la profezia accreditata a un sacerdote, amico di famiglia, che avrebbe visto in sogno le mani del giovane Andrew volare sulla tastiera di un pianoforte.

All'età di 15 anni Andrew aveva già una discreta tecnica, appresa ascoltando musicisti locali e grandi maestri. Tra i primi ricordiamo il pianista Willie Jones, che Hill ricorda con uno stile a metà tra Cecil Taylor e Milt Buckner, ed Ike Day "il più incredibile batterista che ho visto nella mia vita - disse - l'unico paragonabile è Andrew Cyrille". Tra i maestri che amava c'erano sia gli esponenti della tradizione come Albert Ammons, Art Tatum ed Earl Hines che gli innovatori Thelonious Monk e Bud Powell, di cui era solito copiare gli assoli e da cui trasse chiare influenze. Mentre frequentava la Wendell Phillips High School seguì anche un programma didattico dell'University of Chicago Lab School che gli permise di migliorare la sua tecnica.

Le prime esperienze professionali le ebbe all'inizio degli anni cinquanta con la formazione rhythm & blues di Paul Williams e con jazzmen come Johnny Griffin, Von Freeman, Wilbur Ware e altri chicagoani. Altre vennero accompagnando grandi sassofonisti di passaggio come Charlie Parker, Coleman Hawkins o Ben Webster. È ormai accertato che il suo incontro con Parker al Greystone Ballroom avvenne l'8 dicembre 1953 e non nella prima adolescenza, come Hill ebbe a ricordare più volte. In un'intervista a Bob Rusch per Cadence Magazine (settembre 1976) Parker subì una forte trasfigurazione mitica, dipinto come un amico di famiglia, una sorta di tutore ("He was like my chaperon") che scoprì il suo talento ("you play as good as anyone I know - gli disse- you are the keeper of the flame"), lo incoraggiò e lo mise in guardia dagli stupefacenti. In quello stesso periodo Andrew prese alcune lezioni di composizione da Bill Russo e negli anni successivi anche da Paul Hindemith, che conobbe dopo avergli inviato una sua composizione. Altre versioni dicono che fu Russo a presentarglielo.

I primi dischi vennero nel 1954-56: in un sestetto del bassista Dave Shipp e in un quintetto comprendente Von Freeman, Malachi Favors e Pat Patrick. Invece che al 1956 sembra risalire al 1959 il suo primo album da leader, So In Love with the Sound of Andrew Hill (Warwick) inciso con Malachi Favors al basso e James Slaughter alla batteria. La sua vena compositiva era già fervida, come mostrano i suoi brani "Chiconga" e "Penthouse Party".

Nei mesi e anni successivi giunsero ingaggi di rilievo accanto a Roy Eldridge, Serge Chaloff e Miles Davis; per alcuni mesi accompagnò in tour la cantante Dinah Washington, recandosi anche a New York. Andrew Hill fu elettrizzato dall'ambiente musicale della metropoli e nel 1960 vi si trasferì.

Suonò nei locali con i cantanti Johnny Hartman (Sittin' in at Jorgie's Jazz Club) e Al Hibbler ed ancora con Clifford Jordan, Jackie McLean, Kenny Dorham e Roland Kirk. Con quest'ultimo si esibì l'8 luglio 1962 al festival di Newport e due mesi dopo partecipò con Kirk all'incisione di Domino per la Mercury e con Walt Dickerson all'album To My Queen (Prestige). Nei mesi successivi operò in California dove incise nel marzo '63 col sestetto di Jimmy Woods (Conflict, Contemporary) e tra l'altro, conobbe l'organista LaVerne Gillette che divenne poco dopo sua moglie. Lasciata la California nell'estate del 1963 per New York, fu chiamato dal sassofonista Joe Henderson che registrava il secondo disco da leader per la Blue Note, Our Thing.

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IL PERIODO BLUE NOTE

Era il 9 settembre 1963 e fu una data significativa per il pianista: il direttore dell'etichetta, Alfred Lion, fu così colpito dal suo stile che lo scritturò immediatamente. Riascoltando il primo lavoro per la Blue Note, Black Fire, la ricca personalità del pianista di Chicago - che rielaborava l'influenza di Monk e Powell in un'originale quadro armonico e ritmico - è già evidente, soprattutto negli assoli.

Due mesi dopo, l'8 novembre, era Henderson ad entrare nel gruppo di Hill per l'incisione di Black Fire, primo capitolo di una ricca stagione creativa con l'etichetta. Un diretto paragone con l'album del sassofonista è significativo ma quasi imbarazzante per questi: il lavoro di Hill è un'opera di forza innovativa ben superiore, che risente del free pur rispettando l'ambito tonale. Il pianista manifestava forte autorità di solista e leader, chiara volontà di troncare coi modelli canonici dell'hard-bop per imporre un'originale prospettiva.

Col personale uso d'iterazioni ritmiche danzanti, un ribollente tessuto poliritmico, avanzate concezioni armoniche, Hill elaborava suggestivi brani di forma angolare, melodicamente obliqui, illuminati da un lirismo astratto (esempio emblematico è il magistrale "Subterfuge").

Una musica già matura dunque, che evolveva la sintassi monkiana portandola ai confini estremi del bop e della tonalità: appena dopo c'era il free radicale.

Sarebbe stato più facile e magari conveniente per il pianista seguire il modello Cecil Taylor o mettersi in vista con rivendicazioni politiche, come fece Archie Shepp, ma Hill ha coerentemente seguito la sua strada senza cercare popolarità gratuita. Tornando a Black Fire, sarebbe ingiusto non attribuire il merito di quel sofisticato lavoro ritmico anche al batterista Roy Haynes ed al contrabbassista Richard Davis, un amico d'infanzia che Hill confermò più volte nei suoi gruppi. Li ritroviamo da subito assieme in Smokestack, inciso il mese successivo, senza Henderson ma con un secondo bassista, Eddie Khan. Un album ancor più astratto, intriso d'angosciante lirismo, con momenti d'alta originalità. È esemplare il drammatico "Wailing Wall", costruito sulla cameristica ed ipnotica parte di Davis con l'archetto, il rapsodico pianismo di Hill e l'ossessiva scansione ritmica di Haynes sullo sfondo. Altri significativi momenti sono "Verne", intensa ed eterea ballad dall'anomala struttura ABACA e "30 Pier Avenue" che evidenzia la multiforme tecnica del pianista, ricca di block chords e clusters.

Il rapporto con la Blue Note fu esemplare. Libero di esprimersi e di scegliersi i partner, Andrew Hill realizzò in pochi mesi una serie di magnifiche incisioni. Nella prima metà del 1964 entrò in studio tre volte, per registrare in gennaio Judgment con Bobby Hutcherson al vibrafono, Richard Davis al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria; in marzo Point Of Departure in sestetto con Eric Dolpy e in giugno Andrew!!! con John Gilmore al tenore, Joe Chambers alla batteria e i soliti Hutcherson e Davis.

Son tutti dischi eccellenti ma Point Of Departure è davvero un capolavoro, una delle opere migliori del jazz contemporaneo. Cinque magistrali composizioni di Hill per un sestetto ai massimi livelli con Kenny Dorham alla tromba, Eric Dolphy al contralto, clarinetto basso e flauto, Joe Henderson al tenore e flauto, Richard Davis al contrabbasso e Tony Williams alla batteria. Il disco coniuga in modo esemplare l'esplorazione d'avanguardia in un quadro d'impronta boppistica.

La scrittura complessa e mutevole del pianista si lega al libero interplay dei solisti, dando vita ad una musica di prepotente carica visionaria, dalla trama movimentata, a volte ritualistica, con atmosfere d'intensità lacerante e grande libertà ritmico-armonica. Tra i brani più riusciti dell'album ricordiamo "Spectrum", costruito su quattro misure di 4/4, una di 5/4, due di 3/4 ed una finale di 4/4. Hill chiese a Dolphy di suonare i suoi tre strumenti, impressionato dal ruolo che aveva svolto in Percussion Bitter Sweet di Max Roach e il sassofonista dette un esemplare contributo. Di grande interesse sono ancora il suggestivo "Dedication", dal suo cupo e struggente lirismo e "Refuge", lungo tema di straordinaria tensione ritmica, con una sequenza di eccellenti assoli.

Cinque album fortemente innovativi registrati nello spazio di soli otto mesi: non sono molti gli esempi nel jazz moderno di tale prorompente creatività.

Il 1965 fu per Hill un anno discograficamente ancor più intenso anche se non tutto fu pubblicato all'epoca e il nastro di qualche session fu addirittura perso, come una registrazione con Dolphy e Charles Lloyd (Nota 2). Andrew incise per la Blue Note materiale per quasi venti album, rimasto per lungo tempo inedito.

Il 10 febbraio 1965 il pianista riunì in studio un quintetto con il trombettista Freddie Hubbard e noti partner come Joe Henderson, Richard Davis e Joe Chambers. La musica, che vide la luce solo dieci anni dopo nel doppio LP One for One, confermava le notevoli doti del pianista e compositore in cinque boppistici brani dalla scrittura articolata e incline ad ampi spazi di libertà. Quelle matrici sono state riedite (con l'aggiunta di un brano, "Roots'n Herbs") nel cofanetto Mosaic The Complete Blue Note Andrew Hill Sessions (1963-66) e nel CD Pax del 2006.

Otto mesi dopo nasceva Compulsion!!!!!, un'altra un'opera di rilievo con l'emozionante tromba di Hubbard in un settetto di forte connotazione ritmica per l'aggiunta di percussioni africane. Quando Arrigo Polillo lo recensì su Musica Jazz incluse Andrew "tra le intelligenze più vive del jazz d'avanguardia" e parlò di un disco importante con musica speciale, intensamente espressiva e dal fascino singolare. Qualche mese prima (il 3 aprile) il pianista aveva partecipato come solista e direttore musicale al disco Dialogue di Bobby Hutcherson contribuendo con alcuni temi significativi: ricordiamo l'allucinato e astratto "Les Noirs Merchant" e l'incantatorio "Ghetto Lights". I partner, ad eccezione del quasi esordiente Sam Rivers che tornerà con Hill l'anno successivo, erano tutti collaudati collaboratori del pianista come Hubbard, Davis e Chambers.

Nel frattempo il bilancio finanziario della Blue Note era entrato in crisi e nel 1966 i proprietari Alfred Lion e Francis Wolff vendettero il catalogo alla Liberty restando come direttori artistici. Lion, che sostenne sempre Hill come un padre, si ritirò dall'attività per motivi di salute e fu Wolff a curare le ultime session del pianista. Gran parte di questi lavori videro la luce molti anni dopo anche per la nuova politica editoriale dell'etichetta, orientata a maggiori compromessi col mercato. Di quella stagione ricordiamo il quartetto con Sam Rivers del marzo 1966 pubblicato nell'LP Involution; i due magnifici combo dell'aprile/agosto 1968 con Woody Shaw e Frank Mitchell e con Booker Ervin e Lee Morgan inclusi nel CD Grass Roots del 2000; il quintetto con Joe Farrell e Charles Tolliver dell'ottobre 1968 pubblicato nel 2004 nel CD Dance with Death; il quintetto con archi del maggio 1969 con Carlos Garnett e Woody Shaw (Lift Every Voice); il medio organico del novembre 1969 pubblicato in Passing Ships del 2003; il sestetto coi sassofonisti Bennie Maupin e Pat Patrick del 1970, pubblicato in One For One.

Come abbiamo detto, Andrew Hill registrò fino al 1970 altro materiale reso disponibile in anni recenti dalla Mosaic, in edizione limitata. Ricordiamo in particolare il (cofanetto Mosaic Select 16 del 2005 citato in precedenza).

Il pianista partecipò come sideman ad altre incisioni dell'etichetta e, quando nel marzo 1971 Wolff morì, concluse il capitolo più esaltante della sua carriera. Senza più il supporto della Blue Note, che gli offriva un ambiente ricco di stimoli e piena libertà di scelta, Hill voltò pagina.

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GLI ANNI SETTANTA

Ad eccezione di alcuni lavori nel 1974/75, la sua discografia lo vide impegnato sempre in piano solo o in trio e fino alla metà degli anni ottanta fu soprattutto la dimensione solista a caratterizzare la sua produzione discografica, legata a piccole etichette indipendenti come l'Arista/Freedom, la East Wind e la SteepleChase. Il pianista si accorse che la sua musica era troppo avanzata per il pubblico dei club e non abbastanza dirompente per quello d'avanguardia. Lasciò quindi New York e iniziò così a collaborare con varie istituzioni, guidando seminari e tenendo corsi nelle università; dal 1972 al '75 collaborò anche con l'Heritage Program dello Smithsonian Institute, dando concerti in alcune carceri e in località di provincia per un pubblico digiuno di jazz.

Con lui s'esibiva spesso la moglie LaVerne. Nel luglio 1975 fu invitato dal festival di Montreux e sorprese il pubblico europeo con un pianismo ricercato e introspettivo, molto diverso da quello cupo e percussivo degli anni sessanta. L'album Invitation, inciso l'anno prima in trio per la Steeplechase, uscì in quei mesi ufficializzando la nuova dimensione espressiva che addolciva, ma non sostituiva completamente, i concetti cardine del suo stile.

Quell'album ebbe il merito di rilanciare il pianista e alcuni mesi dopo, il produttore Michael Cuscuna lo chiamò a realizzare un lavoro con due diversi organici. Uscì col nome Spiral per l'Arista/Freedom dimostrandosi un'eccellente opera, coerente con il passato ma capace di intimità e introspezione. Il quartetto con Robin Kenyatta al contralto, Stafford James al basso e Barry Altschul alla batteria, era legato all'avanguardia storica e possiedeva la vibrante urgenza espressiva dei più avanzati dischi Blue Note. Il secondo organico (un quintetto con Lee Konitz al contralto, Ted Curson alla tromba, Cecil McBee al basso e Art Lewis alla batteria) si muoveva su linee più tradizionali, danzanti e narrative, per distendersi in un introspettivo duo con Konitz.

Da allora, come abbiamo detto, la ricerca di Hill privilegiò lunghe ed elaborate improvvisazioni pianistiche, armonicamente complesse e dall'originale sviluppo architettonico. Un pianismo dalla sintassi personale, per niente monocorde o solipsistico ma formicolante di umori e di toccante intensità: un coraggioso percorso capace d'integrare dissonanti accordi monkiani in costruzioni melodiche d'astratto lirismo. Un notevole esempio di questo è il recente cofanetto Mosaic (Mosaic Select 23 - Andrew Hill Solo - per leggerne la recensione clicca qui) che propone registrazioni private riprese in California nel 1978.

Restando ai dischi storici ricordiamo i due soli pianistici Live at Montreux del 1975 e From California with Love del 1978 (due lunghi brani ripubblicati nel citato Mosaic). Tra quelli in trio spiccano "Divine Revelation" del 1975 e "Nefertiti" del 1976.

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GLI ANNI OTTANTA: IL RITORNO SULLA SCENA INTERNAZIONALE

Nel giugno 1980 Andrew Hill debuttò in Italia invitato da Nicola Tessitore e Roberto Zorzi, allora direttori artistici di "Verona Jazz", raro esempio di promoter italiani che hanno sostenuto il pianista (chiamato ancora in quartetto nell'edizione 1986, in duo con Konitz nel 1989 e, fuori rassegna, con Woody Shaw nell'aprile 1988). La Soul Note si dimostrò subito interessata a documentare la nuova musica di Hill, che realizzò interessanti lavori: nel giugno 1980 un nuovo pregnante solo (Faces of Hope) e un disco in trio con Alan Silva e Freddie Waits (Strange Serenade); nel 1986 il variopinto piano-solo Verona Rag ed ancora Shades, vibrante quartetto col sassofonista Clifford Jordan, il bassista Rufus Reid e il batterista Ben Riley.

Nell'ultimo concerto veronese il pianista apparve nervoso e collezionò qualche critica negativa: pochi immaginavano la sua angoscia per aver lasciato a casa la moglie, ormai all'ultimo stadio di un male incurabile. LaVerne (che morirà da lì a poco) fu una figura di grande sostegno per Andrew che la definiva "un dono divino".

Particolarmente felice fu invece la registrazione del citato Shades, qualche giorno dopo a Milano, dove spiccano il cantabile "Tripping" e il ritmicamente frastagliato "Ball Square".

Sul finire degli anni ottanta Andrew Hill tornò prepotentemente alla ribalta con Eternal Spirit, album in eccellente equilibrio tra passato e presente, che segnò il suo ritorno alla Blue Note grazie al produttore Michael Cuscuna. Accanto a noti partner come Hutcherson, Reid e Riley il pianista coinvolgeva il giovane Greg Osby, fantasioso contralto di scuola M-Base che verrà confermato nel successivo But Not Farewell, realizzato con pregevoli coetanei del sassofonista (il trombonista Robin Eubanks, il bassista Lonnie Plaxico e il batterista Cecil Brooks III). Anche questo lavoro confermava la pregnante scrittura di Hill, divenuta più melodica e solare rispetto alle drammatiche tinte degli anni sessanta.

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DAGLI ANNI NOVANTA UN RINNOVATO IMPETO CREATIVO

Nella prima metà degli anni Novanta Andrew Hill svolse varie e significative attività: composizioni per film, seminari alle università di Portland e Harvard, concerti con vari organici (Nota 3), un tour in Europa nel 1992 e soprattutto la partecipazione, il 5 e 6 dicembre 1993, al magistrale Summit Conference, disco di Reggie Workman con Sam Rivers, Julian Priester e Pheeroan akLaff.

Ai primi del 1996 il pianista tornò a vivere nell'area di New York esibendosi con sue formazioni all'Iridium, allo Sweet Basil e alla Knitting Factory: con lui c'erano soprattutto Bennie Maupin alle ance, Lonnie Plaxico o Rufus Reid al basso e Pheeroan AkLaff alla batteria.

Nel settembre 1997, presentò in quartetto all'Alice Tully Hall una composizione intitolata "Dusk", che riprenderà due anni dopo nell'omonimo disco edito da Palmetto; dette ancora concerti in piano-solo, evidenziando un misto di turbolenza e liricità.

Oltre alla citata performance in Italia, tra i concerti significativi di quegli anni ricordiamo quello parigino dell'ottobre 1998 e il precedente francese di Metz in febbraio (pubblicato nel disco Les Trinitaires della Jazz Friends). Con l'incisione di Dusk, la prima da leader in studio dal 1990, acquisì rilevanza internazionale il nuovo "Point of Departure Sextet" comprendente Ron Horton alla tromba [per leggere un suo ricordo della figura di Hill clicca qui], Marty Ehlrich al contralto, Greg Tardy al tenore, Scott Colley al contrabbasso e Billy Drummond alla batteria.

All'età di 68 anni, con una nuova stabilità famigliare, Hill inaugurò la sua seconda giovinezza artistica: scrisse nuovi temi e provò a lungo col nuovo organico composto da giovani e veterani. La sua creatività si confermava intatta, come sempre in equilibrio tra mainstream e sperimentazione, lontana da facili auto-celebrazioni (come la struttura dell'organico e il nome della formazione potevano far pensare).

Nell'aprile del 1999 aveva partecipato alla registrazione del disco Blue Note di Greg Osby, The Invisible Hand, contribuendo anche come compositore.

Negli otto anni seguenti, fino alla sua scomparsa, Andrew inciderà tre lavori: A Beautiful Day del 2002 (Palmetto), The Day The World Stood Still del 2003 (Stunt) e Time Lines del 2005 (Blue Note - per leggerne la recensione clicca qui).

Il primo lo vide singolarmente a capo di una big band composta di nomi a lui congeniali come Horton, Ehlrich, Colley, Waits, e J.D. Parran, José Davila. Un disco passato quasi inosservato, a dispetto del rinnovato impeto creativo del suo leader. Come scrisse Stefano Merighi, recensendolo su Musica Jazz: "Le possibilità timbriche di tale organico, rafforzano le trame intricate e sfuggenti di una musica che non si afferma con contorni netti e ben confezionati ma lascia invece lievitare le imperfezioni e le ambiguità che da sempre contraddistinguono il linguaggio di Hill, qui confortato dagli arrangiamenti di Horton".

Il secondo disco fu inciso in Scandinavia in occasione della consegna al pianista del premio Jazzpar 2003. Con un ottetto misto (musicisti nord-europei più la consueta ritmica di Colley e Waits) Andrew realizzò un lavoro comunque interessante nonostante l'evidente estemporaneità della realizzazione: temi allusivi (venati d'umori latini) e un pianismo ritmicamente e armonicamente sofisticato sostengono la creatività dei solisti.

Nel febbraio 2004 Hill fu colpito da un attacco cardiaco in Portogallo e poco dopo gli fu diagnosticato un tumore ai polmoni. Dopo un anno di fermo nell'attività artistica il suo rientro fu propiziato dal migliormento delle condizioni di salute e dalla proposta di Michel Cuscuna di tornare per la terza volta con la Blue Note. Della genesi di Time Lines, che uscì nel febbraio 2006, Andrew parlò a lungo con Paul Olson nell'intervista per All About Jazz Usa (per leggerla clicca qui).

Hill scrisse alcuni pezzi nuovi e costituì un quintetto coinvolgendo il magnifico trombettista (e vecchio partner) Charles Tolliver, i fidi Greg Tardy al tenore ed Eric McPherson alla batteria e il talentoso bassista John Hebert.

Dopo alcune settimane di rodaggio al Birdland ed all'Iridium il gruppo entrò in sala d'incisione il 23 e 30 giugno 2005, con una coda in piano solo nel mese successivo. L'album è stato giustamente celebrato dalla stampa internazionale come un'opera che ha poco da invidiare ai suoi capolavori. Presenta una musica densa e dalla trama complessa, che trascende le facili categorizzazioni e si snoda tra momenti di toccante lirismo (le due versioni di "Malachi" oppure "Whitsuntide") e brani dalla metrica articolata e dall'incedere allusivo come le due versioni di "Ry Round", "Time Lines" e "Smooth".

Restando in ambito discografico va segnalato l'ampio programma di riedizioni dei dischi storici del pianista curato dal 2000 da Michael Cuscuna. Ricordiamo Grass Roots, Black Fire, Point of Departure, Andrew!!!, Dance with Death, Judgment! a cui s'è aggiunto un magnifico inedito orchestrale del 1969 (Passing Ships) e recentemente il magistrale Compulsion!!!!! con Freddie Hubbard e John Gilmore ai massimi livelli [per leggerne la recensione clicca qui].

Nonostante il protrarsi della malattia (che Hill ha accettato con eroica serenità: "Anche se sto vivendo con una malattia terminale posso ancora di guardare avanti al mio lavoro e al futuro con entusiasmo") il pianista ha continuato a suonare e comporre finchè ha potuto. Tra le sue ultime opere c'è una partitura per quartetto d'archi, comissionatagli dalla Merkin Concert Hall di New York. Nella primavera del 2006 è tornato in Europa col suo quintetto [per leggere la recensione del suo concerto parigino clicca qui] e l'ultima esibizione pubblica l'ha data in trio alla Trinity Church di New York il 29 marzo 2007 (Il video è disponibile all'indirizzo www.trinitywallstreet.org/calendar/index.php?event_id=3998 ed un ricordo di quel concerto si trova nell'articolo di Frank Kimbrough su Hill leggibile cliccando qui). L'ultimo referendum della critica di Down Beat nell'agosto 2007 ha eletto Andrew Hill nella Hall of Fame.

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NOTE

1) "Thoughts Dance in Four Views" in Coda Magazine n. 234, ottobre-novembre 1990 [Torna al testo collegato a questa nota]. 2) v. intervista a Cadence Magazine n° 10, settembre 1976 [Torna al testo collegato a questa nota]. 3) Ricordiamo quello del 6 agosto 1993 allo Yoshi's (Oakland) con Oliver Lake, Reggie Workman e Andrew Cyrille e il successivo del 18 ottobre nello stesso luogo con Ben Goldberg al clarinetto basso, John Wiitala (contrabbasso) e Donald Bailey (batteria) [Torna al testo collegato a questa nota].

Foto di Thomas King (la prima), Jimmy Katz (la quarta), Roberto Cifarelli (la quinta, sesta, settima e dodicesima), Angelo Leonardi (la decima), Claudio Casanova (undicesima e tredicesima)

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