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... in principio era il BLUES
Il blues non è mai scrittura. Non lo è mai stata. Come il Verbo, mimetico nel titolo, forse, è atto di parola. Non si chiama e non si è mai chiamato. E' stato chiamato. Così. Per ragioni discografiche. Ed è nato ufficialmente quando ormai viveva da molto tempo. Per fortuna, molto di ciò che era nei significati di blue era anche in ciò che sarebbe stato chiamato in quel modo.
Ma non ci si può fermare - come largamente ha fatto la cultura occidentale - al to be blue (Ingl.Am.: "essere tristi, depressi, malinconici") come etimo unico, incontrobattibile e definitivo. Il sospetto - fondato, crediamo - è che si tratti di un'invenzione dell'Ol' Massa bianco, tesa a consegnare al rimosso eventuali contenuti scomodi. L'immagine del nero non deve mutare, né deve mutare il nero, il soggetto sociale reale: buon sottomesso, lavoratore, spesso triste, tutto sommato socievole. Perlomeno, colonizzabile.
Uno statuto più completo del blues - pur nella completa ambiguità della concordanza grammaticale della parola, singolare o plurale a seconda dei casi, via via un mana in negativo o entità individuate e numerabili - non può allora fare a meno di to have the blue devils, letteralmente "avere i diavoli blu," ovvero, a cavallo (cromatico) tra l'avere un diavolo per capello e la minaccia di far vedere i sorci verdi (talvolta gialli) a qualcuno. Tra la demonologia e la rivalsa. Come se poi non fossero riconducibili entrambe al medesimo ordine, quello in cui il bianco ha sempre costretto, confinato, rimosso il nero. Quello della duplicità, del double talk nero, della distinzione forzata tra soggetto (sociale) e oggetto (di sfruttamento). In fondo, una sorta di sottile separazione tra un valore d'uso e un valore di scambio (la stessa duplicità di blue e del linguaggio: "d'umor nero, triste, depresso" come qualità intrinseche, ma anche - "dunque," nella logica del bianco - dall'esterno, "socializzando," "tetro, deprimente, nero," estremo cromatico): da una parte il disagio e l'incazzatura espressi da una demonologia tutto sommato bene accetta e autoironica, dall'altra, comunque nell'ambito dell'infernale e del diabolico, la minaccia diretta al bianco, la scelta della "dannazione," ora che non c'è più niente da perdere.
Entro queste categorie demoniche - retaggio forse della storica querelle sulla presunta umanità o meno del nero, sviluppatasi all'epoca della prima schiavitù - per la verità il nero si è quasi sempre trovato a proprio agio: erano il suo attestato di africanità e la sua musica era davvero musica del diavolo (fanno ovviamente eccezione le parentesi più intensamente cristiane, in chiave storica e geografica. Ma lo spiritual era davvero canto di sottomissione e di adesione al cristianesimo?). Una volta compreso che questa qualità antica gli concedeva il potere di spaventare il bianco, fu ancora di più sympathy for the devil per il nero. Paura, per il bianco. Paura dell'Altro (senza bisogno di scomodare Fiedler o altri, l'African look del Black Power ha posseduto anche questa valenza, quella della maschera rituale demonica, paurosa, oltre a quella dell'identità culturale).
E l'emarginazione del nero nel mondo americano attraversa ogni fascia sociale, ogni mitologia, ogni ideologia, ogni religione. Il blues è la voce di questa marginalità protagonista. Non ci stupiamo più di tanto quando scopriamo che esiste un uso gergale del verbo to blue che, legato alla sfera economica, designa la dissipazione del denaro, trasgressione alla religione del dollaro, quindi le tasche vuote, la miseria, status ufficiale del nero negli Stati Uniti. La casualità del gruzzoletto raggranellato in qualche modo e l'estraneità ai processi di risparmio e accumulazione portano inevitabilmente a caccia di donne, di alcool e di altri soldi attraverso percorsi che si snodano tra bettole, case di tolleranza e bische più o meno clandestine. Il blues è il coro di questi itinerari, parte dello scenario da cui ogni volta ricominciare da capo: un marciapiede, la testa pesante, forse un ricordo mezzo piacevole, un vuoto femminile (o maschile), le tasche inesorabilmente vuote. Il blues è voce sempre occasionale; se non lo fosse non ci sarebbe la speranza incrollabile che la condizione presente può e deve mutare. Blue significa anche "ostinato" e il blues è l'ostinazione della vita anche quando parla di suicidio ("I'm so blue I could die").
L'immaginario nero è sovente luogo dell'eccesso, terreno per una rivalsa. Il blues dà voce anche a questo e alla a-socialità dichiarata, istituzionale, del gioco e del sesso, spesso iperbolici e "fuori dal mondo," recuperati e garantiti dall'inferno. Di fatto il vocabolario sancisce ancora una volta l'esorcismo bianco: blue significa anche "indecente e osceno".
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