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Umbria Jazz 2013 - Incipit

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L'evento anomalo che avrebbe dovuto caratterizzare la seconda serata di Umbria Jazz 2013, annunciato già alla fine della passata edizione, non ha potuto realizzarsi. La rinuncia di Rollins per motivi di salute ha impedito di verificare su quali basi e con che risultati si sarebbe potuto svolgere il dialogo con i nostri Rava e Fresu. Rimane la curiosità inappagata. L'appuntamento è stato sostituito dal più prevedibile e collaudato incontro fra Jan Garbarek e Trilok Gurtu.

Si è assistito a un "classico" del jazz europeo, una musica impeccabile, consolidata in forme sontuose, in un'aura quasi rituale. Il materiale tematico ha avviato ampi e suadenti sviluppi narrativi; un interplay fluido ha legato l'inconfondibile pronuncia del sassofonista ai contributi, spesso un po' troppo ridondanti, dei due partner: il tastierista Rainer Bruninghaus e il bassista Yuri Daniel. In questo contesto, più che in altri, è risultato controllato e funzionale l'inserimento del percussionista indiano, se si esclude la plateale e immancabile esibizione solitaria nel finale.

Nella serata inaugurale l'Arena Santa Giuliana offriva un gran bel colpo d'occhio: una marea di gente per ascoltare Diana Krall. Perfettamente sorretta da partner adeguati, la cantante, che è giunta al suo tredicesimo CD, ha proposto un repertorio composito, partito dagli anni Venti, da Bix e Fats, per arrivare a Tom Waits, privilegiando inflessioni decisamente pop-folk. Che dire in estrema sintesi? Una voce dall'intonazione non sempre impeccabile, ma indubbiamente affascinante nei suoi timbri velati e confidenziali, nelle morbide e pigre modulazioni, appena mosse da nervosi dinamismi; come pianista la Krall è apparsa funzionale alla propria emissione vocale, ma del tutto trascurabile in assoluto.

La terza sera è stata la volta del trio di Keith Jarrett. Dopo che in occasione dell'edizione 2007 si era giurato che mai più il bizzoso pianista sarebbe stato invitato a Umbria Jazz, per le offese rivolte al pubblico e alla città, la sua riapparizione all'Arena si presta più a una cronaca delle contingenze di contorno che a una recensione musicale. Oltre 3500 i biglietti venduti a un costo che variava dai 35 euro in gradinata ai 120 nel primo settore. Si parte alle 21 in punto; il pubblico si deve ancora sistemare e nell'aria aleggia un nervosismo elettrico. Al posto del presentatore abituale, il simpatico Giovanni Serrazanetti, entra sul palco Carlo Pagnotta in persona per raccomandarsi con apprensione di accogliere adeguatamente "il musicista... che è quello che è," di astenersi assolutamente da foto e fischi per non rischiare l'interruzione del concerto.

Il trio entra in scena con passo felpato, ma subito, non si è capito bene perché (forse il flash di un telefonino), Jarrett si accosta al microfono per dire: "see you later". Quindi i tre se ne vanno per fare comparire un assistente che ripete le medesime raccomandazioni in inglese. Finalmente, dopo che su richiesta del pianista sono state spente tutte le luci, il concerto ha inizio: il palco rimane per tutto il primo tempo in completa oscurità, salvo una flebile luce che illumina il leggìo di Peacock. A ben pensare, tutto ha avuto il sapore di una pantomima creata ad arte per creare suspense, per non smentire le idiosincrasie attribuite al famoso personaggio, perpetuandone quindi l'immagine bizzarra e scontrosa.

Poco rimane da dire sul concerto suddiviso in due tempi di quaranta minuti ognuno. Un repertorio in gran parte risaputo è stato interpretato senza motivazione e ne è risultata una performance scialba e scolastica. Un po' più convincenti alcune interpretazioni del secondo set, con le luci sul palco nuovamente accese. Alla fine del concerto, nonostante le richieste del pubblico (per la verità tutt'altro che convinte e insistenti), non viene concesso nemmeno un bis. Certo qualche scatto "rubato" al concerto si potrebbe trovare, ma, rispettando la volontà dell'artista, un riquadro nero ne sarebbe il commento più pertinente.

Grande affluenza di pubblico ha registrato anche il concerto pomeridiano d'apertura al Teatro Morlacchi, dove c'era una certa attesa per la Moscow Jazz Orchestra diretta dal sassofonista Igor Butman. Attiva dal 1999 e con tre CD alle spalle, la formazione, che oggi comprende prevalentemente esperti elementi di mezza età, a Perugia è stata integrata dalla giovane e brava cantante Fantine, australiana ma ormai russa d'adozione. Eccelsa la preparazione tecnica dei singoli, una motivazione palpabile, compattezza e coesione esemplari, una sapiente varietà di impianti armonici e ritmici; tuttavia il fatto stesso di essere una classica big band sottoposta a straight arrangements, a firma soprattutto del pianista Nick Levinovsky, ha prodotto soltanto un solido e brillante mainstream; da diversi decenni ormai le espressioni più originali e creative del jazz russo sono ben altre.

Il pomeriggio seguente il Morlacchi ha accolto l'ennesima prova dell'ormai collaudato duo Paolo Fresu - Omar Sosa, che ha riproposto i brani tratti dal CD Alma. L'incontro fra il pianismo abbastanza schematico del cubano e la pronuncia rotonda e scattante del sardo è stato in grado di lievitare, anche grazie all'opportuno uso dell'elettronica, in ampiezze narrative, in enfasi ridondanti, in vivaci cromatismi e slanci pirotecnici, in poetici abbandoni e fasi di acceso dinamismo. Una musica in cui si possono ancora intravvedere influenze di varie tradizioni popolari, colte o jazzistiche, che vengono però trascese in una visione immaginifica e rigenerante. In definitiva un sodalizio che si è confermato di incontestabile impatto comunicativo, come l'accoglienza del pubblico non ha mancato di sottolineare.

Un festival nel festival ha costituito la gradita novità di quest'anno, vale a dire i concerti organizzati in uno spazio autogestito dallo Young Jazz Festival di Foligno presso il Palazzo della Penna, sede fra l'altro di un'imperdibile raccolta permanente di opere del futurista perugino Gerardo Dottori. Giovanni Guidi e i suoi validi collaboratori hanno saputo allestire un ambiente accogliente, arricchito da una bella mostra fotografica di Roberto Cifarelli, con concerti (concentrati solo nei due fine settimana) nella corte del palazzo e in una sala a volta nel sotterraneo. Alcuni dei momenti più interessanti, persino toccanti di queste prime tre giornate di Umbria Jazz sono venuti proprio da questa situazione innovativa. Un arricchimento contestuale alla musica, a tratti efficacissimo, sono risultate inoltre le proiezioni a tutta parete di visual mapping e di live computer design ad opera di Paolo Pinaglia.

Fra i set del Palazzo della Penna, ottimo quello pomeridiano del trio di Zeno De Rossi. Le marcate linee melodiche dei brani (di prossima pubblicazione su CD) sono state interpretate dalla perentoria conduzione ritmica del leader, dai liquidi e immaginifici contesti creati dalla tastiera di Giorgio Pacorig e soprattutto dalla robusta voce narrante del tenore di Francesco Bigoni, che sembra aver raggiunto una definitiva maturità espressiva nella sua esperienza a Copenaghen e Londra. Il trio Hobby Horse (Dan Kinzelman, Joe Rehmer e Stefano Tamborrino) ha invece ripreso, ampliandolo, il repertorio del suo ultimo CD Eponymous: un interplay raccolto ha motivato un jazz attuale, prevalentemente pensoso ma con toniche impennate melodiche.

Anche il batterista Joao Lobo è stato autore di due strepitose apparizioni: una mattutina nel sotterraneo, con un solo ben strutturato, frastagliato e di grande concretezza sia fisica che concettuale, ed una notturna nella corte centrale con il quartetto Going (due batterie e due tastiere elettroniche), che ha tramato un'ipnotica rete minimalista sempre più fitta e incalzante.

Foto di Andrea Rotili (Krall / Fresu-Sosa), Nicola Adriani (Hobby Horse). Le altre sono tratte dal sito di Umbria Jazz.

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