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Testimoni del '68: Giancarlo Schiaffini

Il '68 (Berkley, la Sorbona, Valle Giulia) mi è arrivato fra capo e collo che avevo già (è il caso di dirlo) venticinque anni.

Laureato da tre, sposato da un anno, con la prima figlia proprio del '68, dopo aver partecipato al Ciao Rudy di Garinei e Giovannini e aver lavorato in una fabbrica di transistor in Sicilia, ero ricercatore al Centro di Studi Nucleari della Casaccia. Fu uno di quei momenti in cui era chiara la sensazione di grande cambiamento, con ambizioni di fantasia al potere, di grande libertà e di autogestione.

Sul lavoro, la conseguenza più evidente, e anche un po' tardiva in Italia, fu un discreto periodo di occupazione, farcito di collettivi, assemblee, con nuove espressioni tipo "in quanto tale," "razionalizzazione del sistema" e così via.

Dal punto di vista personale, invece, si verificò una strana situazione. A quell'età, e per quei tempi, diciamo prima della rivoluzione, ero un giovane di belle speranze, che stava entrando nel mondo del lavoro e cercava una collocazione seria per un futuro ordinato e produttivo. Dopo un paio di mesi mi sentivo considerato già obsoleto e incitato a fare largo ai giovani (loro sì, 5/7 anni meno di me, un abisso). La sensazione precisa fu di grande spiazzamento, di aver forse perso qualcosa di importante, anche se difficile da definire.

Per la questione musicale il passaggio fu molto meno traumatico. Il mio personale '68 lo avevo già avuto un paio di anni prima con il Gruppo Romano Free Jazz, il mio trio con Melis e Biriaco e con diverse escursioni nella New Thing in varie forme. In fondo eravamo fra i primi a fare musica improvvisata in Europa, a lavorare in maniera informale sia in campo jazzistico che accademico.

Rimane solo quell'interrogativo di cui parlavo prima: "Ma che mi sarò perso?".

Foto di Claudio Casanova.

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