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Stefano Pastor

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1. Ludwig van Beethoven, Concerto per violino e orchestra op. 61 in RE maggiore, David Oistrakh, André Cluytens, French National Radio Orchestra (EMI, 1959).

Da tempo sono tornato a frequentare il repertorio violinistico di matrice euro-colta dopo anni di indagine sull'improvvisazione. L'occasione è resa maggiormente suggestiva dal fatto di avvalermi di un violino di fine Settecento, dalle caratteristiche estetiche e sonore di rilevante qualità. "La continua abituale vibrazione del legno secondo frequenze regolari ed uniformi (...) la modificazione di componenti materiali nel corso del tempo (...) fanno sì che il suono di uno strumento antico sia decisamente riconoscibile nelle caratteristiche timbriche e nella emissione sonora (...) quel timbro è inconfondibile perché è un suono che vibra libero da impurità e si propaga nell'aria in modo più 'direzionale.'" Così Marco G. Chiavazza nel suo pregevolissimo "La liuteria tra autenticità e falso: percorsi di attribuzione" (AA.VV., "L'autenticità degli strumenti ad arco," G. Giappichelli Editore, Torino). Tale perfezione acustica, ravvisabile soprattutto in strumenti dell'età classica della liuteria, si esalta magicamente in un opera del classicismo viennese: il "Concerto per violino" di Beethoven. Qui convergono purezza del linguaggio classico, maestosità della forma, dialogo fitto e raffinato tra orchestra e solista. Al di là della bellezza dei temi, del violinismo sfavillante, dei timbri orchestrali vividi, vi sono elementi di genio come l'idea ritmica iniziale esposta dal timpano che attraversa tutto il primo movimento e che riappare circa settanta volte, affidata a vari strumenti. La bellezza apollinea di questo concerto è resa magistralmente da David Oistrakh e dal suo Stradivari "Conte de Fontana" del 1702.

2. Johannes Brahms, Concerto per violino e orchestra op. 77 in RE maggiore, Ginette Neveu, Hans Schmidt Isserstedt, Sinfonieorchester des Norddeutschen rundfunks (Acanta, 1948).

Nel 1935 Oistrakh non riuscì a vincere il primo premio al Concorso Wieniawsky, si classificò secondo e riconobbe che il primo premio fu assegnato giustamente a una giovane violinista francese. Si chiamava Ginette Neveu, nel '35 aveva sedici anni. Morì in un incidente aereo a ventinove. I pochi filmati di lei mostrano il suo rapito sguardo sempre rivolto al direttore mentre suona a memoria, alla ricerca di una perfetta sintonia con l'orchestra. Il suo violinismo è potente e assorto a un tempo, magnificamente costruito per rendere con infinita chiarezza ogni passaggio nell'intrico orchestrale. Quanto questo concerto è ispirato al concerto di Beethoven, a partire dalla tonalità e continuando con la scelta del materiale melodico e armonico.

3. Dimitri Schostakovich, Quartetti per archi n. 4 op. 83 e n. 8 op. 110, Borodin String Quartet (Mercury, 1962).

E quanto Beethoven ispira Schostakovich nel suo ottavo quartetto. Con il tema principale di quattro note—che in notazione tedesca rappresentano le iniziali dell'autore, D Es C H—così vicino, anche nello sviluppo contrappuntistico all'incipit del soggetto dell'opera 131 di Beethoven: due intervalli di semitono a distanza di una terza minore in Schostakovich e due intervalli di semitono a distanza di una terza maggiore in Beethoven. La tragicità di quest'opera—dedicata a tutte le vittime della guerra e del fascismo ma in realtà dedicata a sé stesso e alle vittime di tutti i regimi, compreso soprattutto quello sovietico da lui patito in termini di violenza psicologica—è di una forza inaudita che lascia attoniti. La perfetta intonazione dello storico quartetto Borodin, l'equilibrio mirabile, i timbri inimmaginabili ci rimandano con nitida potenza a quel concetto di suono puro di cui all'inizio di questo scritto.

4. Johann Sebastian Bach, The Goldberg Variations BWV 988, Glenn Gould (Columbia Masterworks, 1956).

Opera geniale, incardinata a un preciso ordine matematico e scritta per tastiera (clavicembalo), in cui convergono il contrappunto e la forma di variazione (Beethoven ricercherà una sintesi tra questi generi e la forma sonata). Insuperabile l'interpretazione di Gould per rigore, perfezione ritmica e per quel irripetibile tocco che lo caratterizzava e che meglio di chiunque ha saputo adattare l'opera di Bach al pianoforte: in perfetto equilibrio tra leggiadria e calore espressivo.

5. Wolgang Amadeus Mozart, Complete Works for String Quartet, Quartetto Italiano (Philips, 1967).

Tra i lavori di Mozart per quartetto spicca la raccolta di sei dedicati a Haydn e tra questi il K 458 sollecitò la fantasia di Julio Cortàzar che ne descrisse mirabilmente alcuni passaggi in un suo racconto. Un cimento, questi sei quartetti, che lo aveva visto evidentemente riflettere sulle conquiste formali ed espressive messe a punto da Haydn. Ma erano gli anni, i primi Ottanta del Settecento, in cui Mozart aveva avuto l'opportunità di studiare a fondo l'opera di Johann Sebastian Bach, aggiungendo un importantissimo elemento costitutivo del suo stile maturo che si manifestava con una forma di contrappunto fluente e naturale. Classica e vivida, senza dubbio, l'interpretazione del grande Quartetto Italiano.

6. Borah Bergman, Meditations for Piano (Tzadik, 2008).

In magnifica solitudine, Bergman concepisce questo splendido album fatto di tradizione ebraica, di infinite micro-variazioni armoniche di modernissima concezione e di un'introspezione vertiginosa. Toccante e sublime. Un capolavoro assoluto.

7. Erika Dagnino Trio, Sides (Slam Productions, 2015).

Conosco bene i tre artisti impegnati in questa vulcanica sessione per aver performato con tutti loro con grande soddisfazione. Mi fu chiesto di fare il mixaggio, l'editing e la masterizzazione del disco e, mentre andavo avanti col lavoro cercando di realizzare le richieste dei tre, andavo sempre più in profondità nel mondo sonoro di questo trio, nell'intrico delle originalissime percussioni di Satoshi Takeishi, nella potenza evocativa travolgente di Ken Filiano, nell'oscurità e nella gravità, come peso e concretezza di suono, dei versi di Erika Dagnino. Un'interazione eccellente; una declamazione sonica dei versi; un punto di visuale, il mio, privilegiato che mi ha permesso di approfondire di molto le innumerevoli qualità di questi splendidi performers.

8. John Coltrane, Dear Old Stockholm (Impulse!, 1978, registrazione del 1965).

Il pensiero musicale di John Coltrane è complesso e ricco di elementi diversi. Colpisce in questo disco l'aspetto lirico che si esprime con particolare evidenza in "Dear Lord." Le armonie diatoniche, semplici, che si susseguono con cambi ogni quattro battute e la melodia scarna, fatta di suoni lunghissimi rendono questo brano estremamente difficile da sostenere. Coltrane è magnifico qui nell'infondere vita in ogni nota, soffiando lunghissime orazioni, in equilibrio con una ritmica costretta a una staticità armonica estenuante. Solo pochi arpeggi accennati fanno da ponte tra una meditazione e l'altra. La sua fede, dichiarata poco prima con l'album A Love Supreme, sembra guidarlo in un canto commosso e pieno di luce.

9. Thomas Chapin, Third Force (Knitting Factory Works, 1991).

In "Resolution 678" Chapin si misura con la pacificata atmosfera di "Dear Lord" seppure con una forma più articolata e un tempo leggermente più svelto. Dopo l'introduzione ripetuta due volte che riapparirà a fine brano, viene esposto il tema ricalcato evidentemente sul brano coltraniano. Ebbene il suono, il tipo di vibrato, l'uso parsimonioso di diminuzioni o abbellimenti fanno pensare proprio a Coltrane. Un'impresa che pochi potrebbero permettersi con questa riuscita.

10. John Cage, John Cage, Juan Hidalgo, Gianni-Emilio Simonetti, Walter Marchetti, Demetrio Stratos (Cramps Record, 1974).

Un disco che ci ricorda un produttore e dei musicisti illuminati. La fine di questa mia serie di ascolti è affidata al brano "4' 33''" eseguito da Gianni-Emilio Simonetti, un brano in tre movimenti in cui l'unica indicazione per l'esecutore è "tacet." È bello finire col silenzio affinché le musiche più varie ascoltate nella vita prendano a vagare nella memoria, ora come tenue traccia, ora come precisa ricostruzione. Ma il silenzio non esiste: i rumori più disparati si impossessano di quella performace muta e quindi la riflessione su esecuzione/fruizione musicale e ambiente/percezione è continuamente necessaria. E percezione omnisensoriale. Quanto il gesto del musicista, un lieve rumore in sala, un vago odore di tiglio fiorito nell'imminenza dell'estate, la stoffa della poltrona ruvida al tatto, l'amarore del caffè appena consumato condizionano l'esperienza d'ascolto? Erika Dagnino, in "Nel gesto, nel suono—la percezione/decifrazione dell'evento musicale" (Casa Musicale Eco, 2010), confrontandosi con una quindicina di musicisti (e non) in interviste, affronta queste tematiche.

Foto: Luciano Rossetti (Phocus Agency)

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