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Sergio Di Gennaro: orecchie ben aperte
Cerco il dialogo con i musicisti con cui suono, giochiamo un gioco divertente, e che speriamo diverta anche chi ascolta.
Compositore e interprete dalla stoffa pregiata, Di Gennaro ci racconta il suo modo di intendere il rapporto con gli altri musicisti, con il pubblico, con lo strumento e con la musica che da sempre lo circonda.
All About Jazz Italia: All'improvviso è il tuo album d'esordio da leader, dopo alcune esperienze in altre formazioni. Un disco registrato nel 2007, per l'appunto, all'improvviso: perchè?
Sergio Di Gennaro: La mente umana è stravagante. Un giorno, poco prima di una pausa forzata dal pianoforte che sarebbe durata qualche mese, ho sentito l'esigenza di fare il punto. In realtà non avevo nulla di pronto, forse era solo il desiderio di fissare le cose a cui avevo lavorato, la scrittura, il suono, lo swing. Ho scritto una decina di brani e abbiamo trovato due date dal vivo qui a Torino prima di andare in Val Pellice a registrare.
AAJ: Pausa dovuta a un'operazione alla mano. Come è andata? Come è stato tornare a suonare?
S.D.G.: L'operazione è andata bene, mi sono rivolto ad un grande chirurgo che ha operato in passato diversi musicisti. Sono stato fermo sei mesi, e sono stati lunghissimi. Tornare a suonare è stato come ritornare a camminare. Ho ripreso progressivamente con cinque minuti al giorno, per altri mesi, fino a riacquistare dei ritmi "normali". Un tormento insomma, ma non ho smesso. Riprendere a suonare con gli altri poi, è stata un'emozione indescrivibile!
AAJ: Nel disco si respira aria di grande coesione tra di voi. Si è trattato di una situazione estemporanea o hai scelto i musicisti in base a rapporti consolidati?
S.D.G.: In realtà si è trattato di tutte e due le cose. Folco (Fedele, batteria, N.d.R.) e Michele (Anelli, contrabbasso, N.d.R.) sono due musicisti e amici con cui ho suonato diverse volte in trio e quartetto prima di questa esperienza, musicalmente ci conosciamo bene. Beppe (Virone, tromba, N.d.R.), Stefano (Italiano, sax, N.d.R.) e Ezio (Petrini, sax, N.d.R.) sono musicisti con cui ho suonato in diverse situazioni, con Stefano poi c'è un'amicizia di quasi dieci anni. Tutti insieme non avevano mai suonato, è stato un esperimento e credo sia andato bene.
AAJ: Oltre al lavoro con il sestetto sei stato impegnato in diverse formazioni: qual è la tua combinazione ideale e perché?
S.D.G.: Mi piacciono tante cose diverse, dalla Big Band, per la quale mi piace anche scrivere, al sestetto, al quartetto, al duo e trio. Credo che il quartetto sia la situazione nella quale mi trovo più a mio agio. Mi piace accompagnare, mi piace lo stimolo che ti dà chi suona con te, con un bel sostegno della ritmica, e poi succedono delle cose che non ti aspetti. Mi piace la sorpresa.
AAJ: Per un pianista trovare la propria "voce espressiva" è più difficile rispetto ad altri strumentisti. Sei d'accordo? Nel tuo caso pensi di aver raggiunto un "tuo suono"?
S.D.G.: Ogni volta che metti le mani su un piano ci vuole un po' di tempo per entrarci in relazione, è uno strumento che ogni volta cambia, perché non è mai il tuo, il suono dipende spesso da che pianoforte stai suonando, è difficile e stimolante, e talvolta sì, mi capita di trovare un suono che riconosco.
AAJ: I giovani musicisti di jazz, al contrario di quanto accadeva molti anni fa, sono tutti molto preparati sotto il profilo prettamente tecnico e culturale. Questo può andare a discapito dell'originalità?
S.D.G.: Certamente. La tecnica per me è un mezzo, mai un fine. Più bagaglio tecnico possiede un musicista più possibilità avrà modo di esprimersi fluidamente. Parlando da ascoltatore, spesso capita di sentire musicisti più preoccupati di dimostrare le proprie capacità tecniche che "cercare" la musica. Senza parlare di certe scuole e metodi che preparano musicisti un po' tutti uguali.
AAJ: Tu stesso sei laureato al Conservatorio. Quanto incide questa formazione con le scelte stilistiche che devi affrontare?
S.D.G.: Sinceramente non molto, suono e partecipo ai progetti che trovo stimolanti.
AAJ: Keith Jarrett ha dichiarato di recente: «qualunque cosa che accada sul palco dipende dal pubblico più di quanto il pubblico stesso sappia». Sei dello stesso avviso?
S.D.G.: Sì certamente. Il pubblico fa moltissimo. Anche se in effetti quando poi suono penso più alla musica che al pubblico, cerco il dialogo con i musicisti con cui suono, giochiamo un gioco divertente, e che speriamo diverta anche chi ascolta.
AAJ: Nel tuo curriculum si evidenziano molte collaborazioni come pianista di reading. Come è il tuo rapporto con questo tipo di eventi?
S.D.G.: La collaborazione con gli attori è una parte del lavoro del musicista che mi piace molto, perché mi permette di mantenere viva anche la mia altra passione per la letteratura, che purtroppo, dopo la laurea in lettere, è passata un po' in secondo piano. E poi mi piace rileggere musicalmente, senza cadere nel sottofondo scontato, improvvisare e interagire e dialogare con il testo scritto.
AAJ: Che rapporto hai con la musica fuori dal contesto jazz?
S.D.G.: Ho un buon rapporto, soprattutto in passato ho ascoltato di tutto, le musica popolare (per anni ho suonato in una formazione di musica etnica mediterranea) e le musiche dal mondo, dalla morna al tango, alla musica brasiliana, e poi la classica, il suol, certo pop. Cerco di avere le orecchie aperte.
Foto di Alberto Ferrero (la seconda, terza e quarta).
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