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Roberto Ottaviano su "Live Lugano 1984" di Steve Lacy

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Questa pubblicazione contribuisce grandemente, a distanza di vent’anni dalla sua realizzazione, alla ricostruzione mai definitiva del labirintico mondo Steve Lacy come un vero e proprio essenziale anello di congiunzione tra l’archetipo del Jazz e la sua proiezione in un futuro intellettuale
Steve Lacy Three
Live Lugano 1984 -First Visit
ezz-thetics
2025

In attesa che qualcuno tiri fuori dal cassetto una registrazione inedita del Dicembre 1983 di Lacy con Bill Frisell e Paul Motian sulle musiche per "Il Padrino" di Nino Rota, prodotta da Hal Willner per la Deep Creek, becchiamoci questa interessante pubblicazione di un altro trio guidato dal saxofonista newyorchese e che vede insieme a lui il chitarrista nativo di Denver Barry Wedgle (che Lacy incontrerà ancora negli anni successivi, registrando perfino una splendida e toccante "Cancao do Amor Demais" di Jobim...), oltre al suo antico sodale Jean-Jacques Avenel al contrabbasso.

Questa registrazione ripresa da Mario Conforti presso lo Studio Foce di Lugano per la serie Oggi Musica aveva, in realtà, già visto la luce in una edizione autoprodotta dallo stesso Wedgle. Tuttavia, nelle note di copertina della edizione "ufficiale" per la First Visit della ezz-thetics, il produttore Werner X. Uhelinger ci spiega che dopo essere rimasto chiuso in un cassetto per lungo tempo, il nastro è stato masterizzato e assemblato seguendo le precise istruzioni del saxofonista, escludendo due brani (che per inciso sarebbe stato bello sapere quali fossero...).

Detto ciò, questa registrazione rappresenta in sé una particolarità, ovvero l'incontro del sax soprano di Lacy con il suono della chitarra. Nella sua carriera e nella sterminata produzione discografica infatti, non troviamo che qualche raro caso in cui ciò sia avvenuto. Forse l'occasione più volte documentata è stata quella con Derek Bailey, (ne esiste anche una in trio con il contrabbassista Maarten Altena per il Total Music Meeting Festival della FMP a Berlino). Ma parliamo in generale di sessioni totalmente improvvisate, ad eccezione di "Saxophone Special," "Staples" e "The Crust," che gravitano su materiale composto da Lacy.

Il lavoro in questione presenta una scaletta di otto composizioni originali di cui quattro, in forma di mini suite, "They Say," "Heaven," "Train Going By" e "The Eye" scritte nel 1982 su testi del poeta Robert Creeley saranno incluse nell'album Futurities II per la Hat Art. Poi "Flakes" del 1972 e "Clichès" del 1981 incise altre volte con diversi organici, "Aloud" che qui aveva ancora questo titolo provvisorio (ma che verrà incisa in studio nel 1986 col nome definitivo di "Napping") ed infine "Slumber" che in realtà è una libera improvvisazione.

Il disco si apre proprio con questo brano che subito definisce, dal mio punto di vista, un principio di affinità tra Lacy e Ornette Coleman. Quale che fosse il contesto musicale, i due prendevano autorevolmente martello e scalpello e guidavano la sessione in un territorio che era quello di loro massima pertinenza, cioè una esplorazione ed elaborazione degli intervalli dalla logica spietata come, per l'appunto, nel lavoro di uno scultore. In tutto il disco (così come in analoghi contesti collaborativi) Lacy sembra l'ago della bussola per i suoi colleghi che "subiscono" la fascinazione delle sue traiettorie e quindi le assecondano, ci si incastrano nel mezzo o sostengono la sua rotta nel mare di un generale clima espressivo.

È una procedura che segue nel descrittivo "Flakes," in cui Wedgle si discosta dalle linee melodiche di un chitarrismo ispanico, che gli è molto familiare e che in questo disco sfrutta qui e lì, per disegnare un fondale più effettistico con l'uso degli armonici e di glissati intensi e zigzaganti, con un fingerpicking memore di un giovane Eugene Chadbourne. In "Aloud," o "Napping" che dir si voglia, Lacy cede ad un cotè bluesy suggerito dalla natura vagamente noir del tema e sia Avenel che Wedgle ne disegnano formalmente dei grooves in perfetta sintonia. Credo che questo rapporto particolare di Lacy con il blues, non della forma ma della sostanza, sia un elemento ancora tutto da esplorare e che ne ha permeato tutta la produzione come strumentista.

La "mini suite" estratta dall'opera complessa "Futurities," ispirata dai testi del poeta Robert Creeley, pone l'accento sull'enorme lavoro che Lacy ha svolto nella definizione di una relazione stretta tra parola e note. Questa versione, in assenza del canto, ci offre la possibilità di una analisi chirurgica, scarna e priva di orpelli, di questa specie di vocabolario che il saxofonista ha meticolosamente costruito negli anni, fino a pervenire ad una sorta di perfezione linguistica aurea. I versi di "Heaven"—If life were easy, and it all worked out...-risplendono interamente nella loro diafana solarità nelle frasi Lacyane, così come per "Train Going By" la scelta di una linea puntillistica e macchinosa restituisce l'osservazione di Creeley sulla metafora del treno che procede dall'infanzia verso la maturità.

Il conclusivo "Clichès," brano dedicato alla memoria del misconosciuto Joe Maka, saxofonista Guineano, compagno di Lacy nei primi anni della sua permanenza parigina ci trascina, anche grazie al suono della kalimba di Avenel, in una atmosfera esotica surreale. Il tema scritto da Lacy si divide in due momenti in cui il primo, ritmico, funge da contrappunto dissonante alla linea pentatonica della Kalimba e rinforzato dalla chitarra, ed il secondo caratterizzato da una cantilena polimodale che abilmente offre a Lacy ed ai suoi due compagni di evitare, per l'appunto, il clichè africano.

Val la pena di sottolineare ancora una volta che l'organico qui presente in una produzione discografica, fondamentalmente incentrata sul solo, sulle sue formazioni più o meno allargate e sul duo con il pianoforte, costituisce una vera e propria rarità e che ci da un ulteriore prospettiva sul suono del Maestro massimo del sax soprano che si specchia nelle linee contrabbassistiche di un mai giustamente celebrato Jean Jacques Avenel e di un chitarrista come Barry Wedgle, assolutamente al di fuori di ogni semplice collocazione, così in interessante bilico tra le tendenze melodiche trasfigurate del fado e del flamenco, così come curiosamente abile nel trattare lo strumento acustico in modo contemporaneo.

Questa pubblicazione contribuisce grandemente, a distanza di vent'anni dalla sua realizzazione, alla ricostruzione mai definitiva del labirintico mondo Steve Lacy come un vero e proprio essenziale anello di congiunzione tra l'archetipo del Jazz e la sua proiezione in un futuro intellettuale.

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