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Omar Sosa - Il Mondo per il Mondo

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di Simon J. Harper

Il pianista e compositore Omar Sosa è nato a Cuba durante il primo decennio di governo di Fidel Castro, ed è cresciuto ascoltando il jazz - insieme ai suoi compagni di scuola - clandestinamente. Dopo qualche tempo le regole sarebbero cambiate, e anche a Cuba la musica americana divenne legittima.

Dopo il periodo cubano e una breve permanenza in Messico, la svolta artistica per Sosa sarebbe venuta a Esmeralda, in Equador, dove scoprì una musica che, come quella della sua infanzia a Cuba, aveva origini africane. Sosa si convinse della necessità di riunificare tutta la musica di origine africana, tessendo i legami tra quella originale e quella della diaspora africana.

Il suo primo incontro con il jazz dal vivo si sarebbe verificato con il traferimento a San Francisco. Fu in questo periodo che, entusiasta della libertà di suonare esprimendo ciò che sentiva e di dare forma al suo progetto artistico, Sosa avrebbe svillupato quel sound che lo avrebbe reso famoso, coniugando jazz e tradizione afrocubana. Sempre a San Francisco, ha intrapreso una fruttuosa collaborazione personale e professionale con Scott Price, proprietario della locale etichetta Otá Records per la quale ha registrato finora ben ventidue album.

Oggi Sosa vive a Barcellona con la sua famiglia, e porta in giro per il mondo il suo mix di melodie e ritmi radicati nella tradizione africana, accompagnato da una band che comprende musicisti del Mozambico (il contrabbassista Childo Tomas), di Cuba (il percussionista e cantante Julio Barreto) e degli Stati Uniti (il sassofonista Peter Apfelbaum e il batterista Marque Gilmore).

Influenzato in pari modo da Frédéric Chopin, Johann Sebastian Bach ed Erik Satie come da Thelonious Monk, Duke Ellington, Cecil Taylor e Randy Weston, Sosa è stato capace di dare un significato personale e profondo al concetto di world jazz. Album come Mulatos (Otá, 2004) (che ha ricevuto la nomination come miglior album di Latin jazz ai Grammy Awards e che vede la collaborazione con Paquito d'Rivera), e Ceremony: NDR Big Band Plays Omar Sosa (Otá, 2010), arrangiato dal compositore Brasiliano Jaques Morelenbaum, sono capolavori di colore, melodia, ritmo, filosofia e vita. Rappresentano una nuova forma musicale, una world music ritmica e impressionista.

Affermato in Europa, elogiato dal compositore John Adams, nominato per il Grammy e vincitore del premio della BBC Radio 3 Award per la categoria World Music, nel suo recente disco da solista, Calma (Otá, 2011), Sosa combina quattro elementi: il pianoforte acustico, il Fender Rhodes, gli effetti elettronici e strumenti etnici, come ad esempio i tamburi d'acqua dei pigmei. Il risultato di questa combinazione rappresenta il suo nuovo sentimento di pace, di "calma" appunto, di cui gode vivendo a Barcellona.

All About jazz: Da quanto tempo vivi a Barcellona?

Omar Sosa: Da tredici anni. Ormai è la mia città, ci vivo con mia moglie e i miei due figli. Ci sto bene. Per la musica ci sono un paio di posti giusti, anche se è soprattutto una città turistica. Vivo nella città vecchia; è veramente forte ma quando c'è la partita di calcio diventa un manicomio. E succede tre o quattro volte al mese. Ma Barcellona è una città meravigliosa in cui vivere. E si mangia molto bene...

AAJ: Ti trovi bene con i Catalani?

O.S.: Sì, molto. La città è sul mare. Non so perché, ma chi vive in città affacciate sul mare è meno stressato. Sono più rilassati, più liberi.

AAJ: Ti esibisci mai a Madrid?

O.S.: Prima di trasferirmi a Barcellona ho vissuto quasi un anno a Madrid. È una città diversa, forse perché non è sul mare, ma la gente si comporta diversamente. Non che non si divertano. Ma lo fanno in maniera differente.

AAJ: Prima di trasferirti in Spagna, hai vissuto in posti interessanti, a Cuba ovviamente, e poi in Equador, a Quito.

O.S.: E ho vissuto anche in Messico [ride], prima di andare in Equador. Ci ho passato otto o nove mesi. Mi sono trovato bene anche se... diciamo che non mi sono integrato nelle tradizioni dello Yucatan. Ma è stato interessante. Poi mi sono trasferito in Equador—la mia ex-moglie è Equadoriana—e ho legato molto con gli Equadoriani. Ho scoperto la musica che si suona sulla costa del Pacifico, a Esmeralda—chiamata appunto musicas Esmeraldas. E l'ho combinata con la tradizione afrocubana. È stata la prima volta che ho sentito l'esigenza di riunire tutte le tradizioni Africane sparse per il mondo.

Ricordo che ho pensato, "Wow, la tradizione Equadoriana è molto simile a quella afrocubana." In realtà la nostra musica viene dalla Nigeria, così come la nostra religione: loro hanno invece quella che chiamano marimbas merdania, uno stile musicale ma anche una filosofia. Mi sono detto "ecco, questa è un'ottima base di partenza per la mia idea di musica basata sulla diaspora africana."

Dopo quell'esperienza venni in Spagna per la prima volta: mi trasferii a Minorca, dove vivevano degli amici. Cominciai a suonare parecchio. Dopodiché mi sono trasferito a San Francisco, portando con me la tradizione Equadoriana; quando poi ho scoperto la tradizione afrocubana, specialmente l'hip hop, la spoken word, mi sono detto "OK, posso combinare tutto insieme." E ciò ha portato al mio primo album con questa band, Free Roots (Otá, 1997).

AAJ: Quindi il tuo primo disco è stato Free Roots e non l'album da solista Omar Omar (Otá, 1997)?

O.S.: No, in realtà il primo è stato Omar Omar, ma venne registrato durante una festa invece che una seduta di regstrazione vera e propria. Il mio manager—e co-proprietario dell'etichetta discografica—aveva un paio di microfoni in salotto, di fronte al pianoforte. Una sera eravamo con alcuni amici, bevemmo del vino e io mi misi a suonare: quasi due ore e mezza, e lui registrò tutto [ride]. E ricordo che un paio di settimane più tardi—allora non lavoravamo insieme, eravamo solo amici—lui chiamò la mia ex-moglie, perché allora non parlavo Inglese, o meglio sapevo solo dire "jazz," "grazie" e un paio di parolacce, che sono la prima cosa che impari, specialmente se vivi a West Oakland—insomma, niente di particolarmente edificante da un punto di vista linguistico. Ma ricordo che mi chiese, "Omar, vuoi fare un disco?" E io gli dissi, "Certo che sì, ma non mi sembra una facile..." Mi diede un contratto, molto corposo, 150 pagine... a me che non parlavo Inglese, né tantomeno ero in grado di leggerlo! Gli dissi "Va bene, siamo in parola. Ma se mi freghi, ti ammazzo!" [ride]. Quindici anni dopo continuiamo a lavorare insieme, e abbiamo alle spalle ventidue album prodotti per la Otá Records. Sono davvero felice di aver avuto questa opportunità, e sono fiero di me stesso per aver detto di sì quando mi chiamò [ride]. Siamo diventati una famiglia: lui è il mio manager, e la sua famiglia è la mia famiglia.

AAJ: Hai trovato molte differenze tra la California e le tue esperienze precedenti?

O.S.: Certamente. L'America è l'America. Con i suoi problemi e le sue opportunità, e quelle cose che possono capitare solo in America! Qui in Spagna ti puoi esibire, ma è difficile riuscire a portar avanti quel genere di lavoro concettuale, di musica sperimentale. Mentre a San Francisco era una cosa normale, potevi suonare un po' di tutto: Flamenco, musica Brasiliana, davvero di tutto. Reggae, Messicano, Salsa, Cubano. E quando cominciai col jazz, mi dissi "Non suono il jazz. Mi piace come musica, ma non lo suono solo per poter dire che suono jazz." E questo per me vale ancora oggi: sono un musicista a cui piace suonare, ma non penso al jazz in termini di straight-ahead o di bebop.

Come ho già detto, per me il jazz è una specie di filosofia. Una filosofia di vita, la libertà e il modo di creare, un modo di imparare e condividere, di essere aperto a esternare quel che sento dentro. Questo è quel che amo nel jazz. E l'ho scoperto a San Francisco. Dove suonavo con tutti quei musicisti: John Santos, Peter Apfelbaum, Jack Jones, Babatunde Lea, Richard Howell... E dove cominciai a comprendere quanto fosse bello creare la propria musica ed esprimere i sentimenti del momento. E in fondo è ciò che ho fatto fino ad oggi.

AAJ: A Cuba ascoltavi jazz?

O.S.: Non molto, e di nascosto. A scuola dicevano "Ti scopriranno. Se ascolti il jazz saranno guai." Perché il jazz veniva dall'America. Quindi era un ascolto clandestino, con l'inevitabile fascino del proibito al quale non ti puoi sottrarre [ride]. Perciò, usando una piccola radio, ci sintonizzavamo su una stazione di Miami ogni sera intorno alle dieci, le undici, per ascoltare a basso volume quel tipo di musica. Momenti bellissimi, dei quali conservo un caro ricordo. Poi ad un certo punto cominciarono a trasmettere il jazz anche sulla radio Cubana, ogni sera o almeno un paio di sere alla settimana— lo conduceva il padre del percussionista Horacio Hernandez. Annunciava chi stava suonando, in che stile, con che idee, faceva la biografia dei musicisti... Grazie a lui scoprimmo musicisti come Cecil Taylor, Randy Weston, Abdullah Ibrahim, Ahmad Jamal, Thelonious Monk, McCoy Tyner, naturalmente John Coltrane, Chet Baker, Miles... Stupendo, davvero stupendo. Qualche mese fa ne parlavo con Horacio, sai, abbiamo un progetto insieme con la NDR Big Band, ci siamo messi a parlare di quel periodo e del programma alla radio. Si chiamava Radio Progresso. Nei miei ultimi due anni di scuola la musica era diventata più libera, addirittura avevamo delle radio a scuola e potevamo suonare la musica di Oscar Peterson, Faria Olestar, Weather Report... Per molti della mia generazione fu l'iniziazione al jazz.

AAJ: Quanti anni avevi?

O.S.: Mi diplomai a diciotto anni, quindi devo aver avuto più o meno sedici anni.

AAJ: Era una scuola statale?

O.S.: Sì, ho studiato alla Escuela Nacional de Musica Havana, una scuola davvero valida: devo ringraziare tutti i miei insegnanti, in particolare il mio maestro di composizione, perché sanno assolutamente il fatto loro. Hanno trasmesso la passione a molti della mia generazione, che ora amano scrivere musica, suonare, scoprire cose nuove—più che scoprire, si divertono nel meraviglioso mondo della musica.

AAJ: Dicono che tu non sia un seguace del modo di suonare di Chucho Valdéz. È quello il tipo di musica che insegnavano alla scuola?

O.S.: Beh, Chuco è uno dei miei idoli, è un grande amico, anzi è come un padre. Ogni volta che torno a Cuba lo vado a trovare. E ogni volta che registro un nuovo album glielo mando, ma se sei convinto di trovare la tua strada, non ha senso imitare tuo padre o il tuo maestro. Ognuno di noi è unico e abbiamo l'opportunità di creare, di scoprire il dono della composizione. Se ne abbiamo l'opportunità è proprio una benedizione. Questo è ciò che mi sforzo di fare da sempre. Prendi il mio nuovo disco, Calma. Si tratta di un disco da solista, ma non è un assolo per piano. La gente pensa che sia un solo, intendendo un solo strumento ma in realtà... suono "solo" uno strumento... alla volta [ride].

AAJ: Vero, perché c'è il pianoforte e il Fender Rhodes, e ci sono gli effetti elettronici e i suoni campionati. Ma quando ti esibisci dal vivo suoni senza overdub?

O.S.: Ho suonato tutto in diretta—i suoni campionati, il Fender Rhodes—perché volevo che il disco fosse registrato in maniera organica. Ho suonato quel che sentivo, quel che mi passava dentro. Per due ore. Dopo aver riascoltato quelle due ore abbiamo deciso di usare solo la prima ora, perché era più in sintonia con quel che volevo esprimere. Volevo rendere l'idea di pace, della "calma" che sento intorno a me. Si può dire che Calma è un momento della mia vita, il momento che sento di vivere oggi. Ci serve la calma, ci serve la pace. Il mondo è impazzito. E ormai siamo assuefatti allo stress. Siamo tutti stressati in un modo o nell'altro, perché il mondo va troppo di fretta. Non ti puoi fermare, per dire - ad esempio - "ti amo." Cose semplici. Pensa a quanto va veloce il mondo, paragonato al fatto di starsene seduti a casa tua incantato da un raggio che filtra dalle finestre. Questo è quel che sento oggi. Ho voglia di sedermi, ed è quello che ho potuto fare quando vivevo a Minorca, e quando l'ho capito mi sono detto, "Wow, ecco come deve essere la musica" [ride]. Ho provato a tradurlo in musica, e Calma è il risultato. La prima ora di registrazione era così, con questo senso di rilassatezza. La seconda ora invece era più ansiosa, più buia. Non penso che la pubblicherò, era proprio all'opposto, come Yin e Yang. Dopo essermi curato con questa melodia e questo spazio, ho provato a dare un tocco di colore. Ho fatto una pausa, e al ritorno è uscita la seconda ora, totalmente differente [ride]. E non mi è piaciuto come si è tradotta in musica.

Sono soddisfatto di Calma: e se lo ascolto seduto di fronte al mare dico "Grazie Dio," per avermi dato l'opportunità di tradurre questo meraviglioso spettacolo in musica—almeno per come la vedo io: ad altri può non piacere, ma a me piace così.

AAJ: Quando eri in studio, il Fender Rhodes era sistemato alla tua sinistra?

O.S.: Sì, lo usavo con la sinistra. Ecco perché ascoltando il disco ti accorgi che lo uso al posto della mano sinistra del piano oppure per creare dei sottofondi, delle armonie. Non ho voluto usarlo come strumento principale ma per aggiungere colore ai bassi. Mi piace il timbro del Fender Rhodes. Ha un suono meraviglioso, rotondo. È uno strumento bellissimo. Naturalmente mi piace anche il suono di un buon pianoforte, e messi insieme è ancora meglio.

AAJ: Il contrabbasso gioca un ruolo importante in molti dei tuoi dischi.

O.S.: Sì, credo che sia l'ossatura della musica. Cosa sarebbe la musica africana senza i bassi? Non sarebbe musica africana. E l'Africa sta alla base di ogni singola nota che suono, quindi cerco sempre di avere quel basso, anche se il ritmo non è al cento per cento fluido. Ma il basso c'è, sempre. C'è nel brano per solo piano. Discreto, [sussurra] "Hey, ci sono." Se ascolti altri brani di solo piano, capita talvolta che il pianista enfatizzi molto i bassi, come [canta una forte sequenza di triplette in stile Latin] "donk ki dong donk ki dong donk ki dong donk di donk ki dong donk di dong dong dong"—ecco, una cosa così—poi ci mettono su un accordo e ottengono una cosa abbastanza complessa. Quando suono, cerco di fare in modo che la musica venga incontro a me, non la forzo ad andare in chissà quale direzione. Ecco perché il disco ha questa impronta. Ti può piacere o meno, ma così è.

AAJ: E le apparecchiature per gli effetti elettronici e i suoni campionati, le tieni sul piano?

O.S.: Sì. Ho un paio di Boss e un paio di campionatori—pronti all'uso quando sento che è il momento. Per le campionature uso musica etnica dall'Africa, da Tuva, dal Sud America, dalla tradizione afrocubana e anche dal Medio Oriente.

AAJ: Quindi usi frammenti di musica etnica, diciamo da venti, trenta secondi?

O.S.: Dipende, può essere di più o di meno. In una delle canzoni ("Aguas" da Calma) uso la musica dei Pigmei. È interessante perché chi ascolta pensa che si tratti di strumenti suonati nell'acqua, mentre in realtà è acqua, suonata da veri Pigmei. Prendono una zucca, la tagliano e poi colpiscono l'acqua con il lato tagliato. Per la precisione olpiscono l'acqua con la zucca ma anche con le mani: quando vogliono fare una pausa, creano un suono usando le mani, e quando colpiscono l'acqua fanno un suono molto particolare. È un modo di suonare. Io non voglio suonare la musica dei Pigmei, ma mi piace molto, e voglio che chi ascolta senta quel che gli va di sentire [ride]. Ecco, ora lo sai anche tu.

In un altro brano c'è il suono della kalimba, una kalimba del Mozambico. L'ha suonata il mio contrabbassista e io l'ho campionata. Poi sul campionatore l'ho abbassata di due ottave, un espediente che spesso usano i DJ.

AAJ: La kalimba si estende su una sola ottava?

O.S.: Sì, una sola. Ma abbassandola di due ottave ottieni un suono indescrivibile. Ti chiedi, "ma che razza di suono è mai questo?" Beh, è colore. E se si ascolta un brano con calma, ascoltando anche sé stessi, si sentono i suoni che provengono da dentro di noi. Possono essere suoni acuti, o suoni bassi. Sarò matto, ma questo è ciò che sento e che tento di riprodurre nel disco: il giorno della registrazione non ho detto "Farò così, poi cosà..." Ho suonato, punto e basta. Poi ho riascoltato il risultato e ho detto "Ok." All'inizio [dopo aver registrato], mi sono detto "No, non è materiale per un disco," ma chi lo ha ascoltato mi ha detto che avrei dovuto farne un disco e così mi sono detto "Perché no? In fondo è musica." Ma in realtà avevo suonato per me, per potermi ascoltare e per godere di un momento del genere. Una musica curativa per me stesso. Lo so, sembro matto, ma io sono fatto così. Quella registrazione era lo specchio del mio modo di vivere la vita. Forse non riesco a trovare le parole per spiegarlo [ride]. Magari dovrei provare in Catalano o in Spagnolo...

AAJ: Che effetti usi, nei tuoi dischi?

O.S.: Calma è l'ultimo disco ad usare questo insieme di effetti elettronici. In passato usavo pedali della Boss—un flanger, un phase shifter, un chorus e un delay ma ora uso un solo pedale. Un grosso pedale della Boss, come usano molti chitarristi—e tutto è programmato. In realtà mi piace meno del vecchio sistema, che era analogico—dovevo premere i pedali e girare gli interruttori—e mi piaceva, perché produceva un suono mai uguale a sé stesso. Ora ovviamente ho un milione di suoni, ma non posso memorizzarli tutti. Mi piace ma è diverso. È una cosa più sottile, e dato che è tutto digitale e stereo, il suono è più pulito. Prima era più grezzo—e in Calma lo senti.

Il vecchio sistema costava troppo. Era complicato da sistemare quando si andava in tour—bagaglio extra, problemi con i cavi eccetera—e in molti aeroporti ti ispezionavano i bagagli e ti rompevano qualcosa. Ti rompevano un pedale e dovevi comprarne uno nuovo, e ogni pedale costava 300 o 400 dollari. Va bene la passione, ma ogni tanto bisogna anche guardare il lato economico [ride]. Ora ho lo stesso risultato in un singolo strumento; è digitale, quindi il suono è più pulito. Ma dipende da quel che cerchi. In Calma mi andava benissimo il suono del vecchio sistema.

AAJ: Talvolta suoni direttamente dentro il piano, ne hai anche suonato le corde con gusci di noci di cocco.

O.S.: Sì, lo facevo, ma ora non più. Era un periodo in cui facevo cose più fantasiose, cercavo di ottenere suoni diversi dallo stesso piano. Ora ho i campionatori che mi aiutano: qualche volta lo suono ancora in quel modo, ma non spesso. In Calma qualche volta lo faccio—con le mani o con un martelletto... dipende da come mi sento, decido al momento.

Concerto Live a Roma, da sinistra: Mola Sylla, Omar Sosa, Baba Sissoko, Childo Tomas

AAJ: Certe volte, come nell'album New Life (Otá, 2003), suoni in un modo che ricorda Scriabin e altri compositori classici.

O.S.: John Cage è forte, no? Sì, è forte [ride]. Ma dipende, perché New Life e Calma rappresentano due momenti ben diversi. Forse ora sono più riflessivo, più contemplativo. Così è. Calma rappresenta il posto in cui vivo, in cui voglio vivere, con questa pace. Tutto qui [ride].

AAJ: Ci sento un po' di Satie, forse un po' di Albeniz.

O.S.: Sì, mi piace Satie, molto, adoro Chopin. Qualche volta ascolto Stravinsky. Non molto. In passato ascoltavo Debussy, Vivaldi, Bach. Ora ascolto principalmente musica tradizionale africana. E molta musica Tuva; mi fa impazzire. Infatti nei miei dischi uno dei brani contiene la campionatura di un cantante di Tuva. È una regione vicina alla Mongolia. Adoro quella musica e la musica africana, tutta quanta. E l'Africa è davvero grande [ride]. Riuscirò a malapena ad ascoltare l'un percento di quello che vorrei.

AAJ: In Africa ci sono moltissimi dialetti, diversi persino da città a città...

O.S.: Sì. In Mozambico, in Senegal, nel Mali, nel Togo, in Ghana. Questa è una delle cose più belle dell'Africa. Persino tra un villaggio e l'altro il dialetto è diverso. E anche la musica. Ogni giorno si scopre qualcosa di nuovo.

Grazie a Internet le distanze si sono azzerate. Puoi vedere il mondo comodamente seduto davanti al computer; ma vuoi mettere andare, toccare, sentire l'energia, sensazioni che il computer non ti può dare. Ti aiuta, ma non puoi toccare la terra via computer. Non puoi toccare le persone. Per lo meno non ancora: chissà, magari un giorno [ride]. Se oggi vuoi farlo devi prendere un aereo e andare: solo così puoi toccare, sentirti parte di una comunità, percepirne la realtà e farne parte, che ti piaccia o no, solo così ne puoi far parte.

AAJ: Tornando alla musica classica, penso che alcuni pezzi di Chopin sembrino un pò musica popolare, ma più profonda.

O.S.: La musica è la musica. Se viene dal profondo del cuore e dell'anima può piacere ad alcuni e ad altri no, perché viene dal profondo del tuo cuore. Però bisogna essere coerenti con il messaggio, proprio perché viene dal profondo. È un processo interessante. Non farsi influenzare da ciò che ti circonda.

AAJ: Spesso, quando suoni dal vivo, segui un percorso di umori e sensazioni, che alla fine culmina in un chiaro stile afrocubano. È una progressione studiata a tavolino?

O.S.: No, per me è spesso un gioco—spesso ma non sempre. Altre volte invece lo faccio per mostrare le mie origini [ride]. Come quando ti trovi al controllo passaporti e ti dicono "Passaporto, prego. Ah, lei è Cubano." E io dico, "Sì, sono Cubano." "Ah, Ok." Altre volte succede perché mi sento di farlo, o perché qualcun altro nella band lo sente. In generale, suoniamo per divertirci e cerchiamo di suonare l'uno per l'altro, ognuno mettendoci del suo. Questa è l'unica condizione richiesta per far parte della band. Sii te stesso, mantieni le tue radici. Non cercare di imitare le mie radici, tieni le tue—dobbiamo condividere ciò che abbiamo. Così facendo, qualcosa salterà fuori.

Al batterista dico, "Non preoccuparti. Se ti va di fare un ritmo Cubano, fai pure, ma non ti costringo—glielo dico con il mio modo di suonare. "Sii te stesso. Tu sei il batterista, tu sei il basso." E quando ci ascoltiamo a vicenda, ci rispettiamo. E suoniamo bene insieme. Mi diverto molto durante i concerti.

Non vogliamo impressionare. Non vogliamo fare musica complicata, assurda o difficile. Non ci interessa che la gente pensi che sia musica complessa: cerchiamo solo di divertirci, divertire e suonare ciò che ci piace. Questo è importante. Altrimenti ti ritrovi a pensare "bene, il concerto di oggi è stato divertente." Magari a qualcuno è piaciuto, ma se non ci divertiamo noi per primi, allora ci passiamo la palla, ci muoviamo da un umore all'altro per arrivare altrove, musicalmente parlando. Cambiamo direzione. Adoro questi momenti. Quando alla fine ci diciamo "Oggi abbiamo proprio suonato bene insieme." E non mi interessa che gli assoli siano incredibili o virtuosistici. No, l'importante è il risultato complessivo. Se non suoniamo bene insieme, allora poco importa se il trombettista si è cimentato in un assolo entusiasmante, o se quello del sassofonista è stato forte. Un assolo è un assolo. Ma la cosa stupenda è suonare insieme, suonare bene come gruppo.

AAJ: Nei tuoi album in duo, hai suonato con tre diversi percussionisti (John Santos, Gustavo Ovalles e Adam Rudolph). Mi ha colpito il fatto che il duo fosse un modo molto efficace per un dialogo, a tu per tu, e mi chiedo se questo sia per te il miglior modo per avere un dialogo, perché in effetti riesci davvero a sentire l'altro. Una specie di conversazione.

Afreecanos Quartet, da sinistra: Mola Sylla, Omar Sosa, Childo Tomas, Julio Barreto

O.S.: Sì, ma si possono fare conversazioni molto interessanti anche in tre, quattro o cinque. La cosa importante, secondo me, è che tutti siano aperti ad ascoltare, perché se ci si parla tutti addosso si fa solo una gran confusione. Non si ottiene niente. Ma se si è disposti ad ascoltare e ognuno ha il suo momento per esprimere ciò che prova, allora si ottiene qualcosa di buono. Certo, dobbiamo anche suonare insieme come da spartito, ma questo è solo un aspetto: la parte che preferisco è quella in cui suoniamo ciò che non è scritto. [Ride] Perché è una parte nuova. Che ogni volta mi sorprende, in un modo o nell'altro, perché è inaspettata, dato che l'unica certezza è ciò che hai scritto, che sai come sarà. Ma quando creiamo qualcosa di nuovo partendo da una melodia nota, ci capita di suonare qualcosa di davvero bello, e mi piace un sacco.

Se lasci i musicisti liberi di suonare basandosi sulla loro tradizione, senza forzarli a seguire il tuo spartito, tutti penseranno "Cos'è questa musica?." Quando ci ascoltiamo a vicenda e suoniamo insieme, succede qualcosa, perché ognuno esprime i suoi sentimenti, esprime quel che ha da dire. Bisogna mettere tutto insieme, ascoltarsi a vicenda, volersi bene e suonare insieme. Sembra facile, ma non lo è, perché ognuno ha i propri problemi, le proprie situazioni, e c'è bisogno di sentire la stessa energia, per arrivare al risultato. Talvolta ci si riesce, altre volte no. Ma ogni volta bisogna lottare per arrivare a questo tipo di energia.

AAJ: Parlando in un'intervista del disco Crossing the Divide hai detto che stavi viaggiando in Africa per ritrovarne l'unità: quando sei in Africa o quando suoni musica africana, cerchi di trovare un fattore comune, un filo conduttore, una sensazione, una spiritualità?

O.S.: Sai cosa ti dico? Hai fatto la domanda e ti sei risposto da solo! [ride]. La risposta è in fondo alla domanda. Si cerca un sentimento, un filo conduttore, qualcosa da aggiungere al tuo bagaglio di conoscenze, raccogliendo informazioni, radici, tradizione e situazioni. E questo naturalmente capita ogni volta che vai da qualche parte. E ciò fa di te una persona migliore; ti permette di penetrare più a fondo il contesto di ciò che cerchi: le tradizioni.

AAJ: Tuo padre era professore di storia.

O.S.: Esatto. Le prime informazioni sul jazz le ho avute da lui—Duke Ellington, Count Basie, Nat "King" Cole.

AAJ: Si sente un po' di Ellington in qualcuno dei tuoi brani.

O.S.: Onestamente non saprei. Suono ciò che mi sento, e sono aperto a tutto. Sono influenzato da molti musicisti—che è una cosa molto bella, perché in fondo sei parte del messaggio che viene da chi ci ha preceduto, dai quali cerchi di trarre qualcosa di buono. Anche se non suoni la loro musica, qualcosa di loro lo ritroverai nella tua musica.

AAJ: Randy Weston è un'altro grande.

O.S.: Un maestro, direi, e siamo anche ottimi amici.

AAJ: Lo ascoltavi quando eri a Cuba?

O.S.: Un pochino. È stato quando mi sono trasferito in Equador che ho cominciato ad ascoltare Randy, Andrew Hill, Cecil Taylor. Volevo esplorare quel tipo di musica, e ne sono rimasto davvero colpito. Anche Monk. Mi ha davvero impressionato."

AAJ: Cosa rappresenta per te Monk?

O.S.: Monk è uno dei miei idoli. La sua filosofia—suona quel che ti senti—è una filosofia di libertà. Ogni volta che lo ascolto penso, "Wow, è un grande. Suona quello che sente." E anche oggi rimane unico. Nessuno sa suonare come Monk. Il suo linguaggio, il suo fraseggio era diverso. Parole diverse. Perché il jazz, in un modo o nell'altro, ha il suo grande dizionario. Ma Monk, è unico—un linguaggio a sé stante.

AAJ: Mulatos è davvero un album notevole, autentico—ad esempio l'ud in apertura del brano "El Consenso:...

O.S.: Grazie. Sai, devo ringraziare gli spiriti e... le loro sorelle per questo. Ho ascoltato quel che volevano dire, e ho provato ad esprimerlo.

AAJ: Un altro brano davvero bello è "My Three Notes," nella versione contenuta in Ayaguna (Otá, 2007) [Sosa arrivò in finale nel 2005 al concorso International Songwriting Competition come miglior brano strumentale]. Quali sono le tre note a cui ti riferisci nel titolo del branoo?

O.S.: Do, Re, Mi bemolle: Do minore. Il Do minore è una delle chiavi che uso di più, non so perché [ride]. Molti dei miei brani sono in Do minore. E l'intero pezzo ruota intorno a queste tre note.

AAJ: Tre dei tuoi brani, "My Three Notes," "Muevete En D" e "Iyawo" li possiamo ritrovare su altri tuoi album, in versioni differenti. Significano qualcosa di speciale per te?

O.S.: Oh sì. "Iyawo" è molto importante per me perché l'ho scritta basandomi su un momento caratteristico del mio credo religioso. Un periodo di purificazione—potremmo chiamarlo così— chiamato appunto "Iyawo" che dura un anno. Ed è qualcosa che ricorderò per tutta la vita, e la canzone lo riflette appieno.

Il mondo e la sua musica sono come un grande edificio con molte stanze, e ognuno deve poterle visitare tutte.

Discografia Selezionata

Omar Sosa, Calma (Otá, 2011)

Omar Sosa & NDR Bigband, Ceremony: NDR Big Band Plays Omar Sosa (Otá, 2010)

Mark Weinstein - Omar Sosa, Tales of the Earth (Otá, 2009)

Omar Sosa, Across the Divide - A Tale of Rhythm & Ancestry (HalfNote, 2009)

Omar Sosa, Afreecanos (Otá, 2007)

Omar Sosa, Promise (Otá, 2007)

Omar Sosa, Live à FIP (Otá, 2006)

Omar Sosa, Mulatos Remix (Otá, 2006)

Omar Sosa, Ballads (Otá, 2005)

Omar Sosa, Mulatos (Otá, 2005)

Omar Sosa, Aleatoric EFX (Otá, 2004)

Omar Sosa - Adam Rudolph, Pictures of Soul (Otá, 2004)

Omar Sosa, A New Life (Otá, 2003)

Omar Sosa, Ayaguna (Otá, 2003)

Omar Sosa, Sentir (Otá, 2002)

Omar Sosa, Prietos (Otá, 2001)

Omar Sosa, Bembon (Otá, 2000)

Omar Sosa, Inside (Otá, 1999)

Omar Sosa, Spirit of the Roots (Otá, 1999)

Omar Sosa, Nfumbe (Otá, 1998)

Omar Sosa, Free Roots (Otá, 1997)

Omar Sosa, Omar Omar (Otá, 1997)

Foto di Davide Susa (la prima), Paolo Mura (la seconda), Ota Records (la terza), Raffale Platania (la quarta), Massimo Mantovani (la quinta).

Traduzione di Stefano Commodaro

Articolo riprodotto per gentile concessione di All About jazz USA

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