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Nuovi percorsi: intervista a Kekko Fornarelli

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Siamo in un momento in cui il jazz, soprattutto in Italia, dovrebbe cambiare.
Room of Mirrors ha rappresentato per Kekko Fornarelli l'inizio di un nuovo filone espressivo, dopo due album (Circular Thought e A French Man in New York) che ne avevano messo in mostra le sue doti tecniche e le qualità formali. Con il musicista pugliese - che si è segnalato negli ultimi anni come uno dei pianisti più ispirati e moderni - abbiamo discusso del significato di questo lavoro e degli sviluppi ai quali potrebbe portare, aprendo il compasso della conversazione al resto del panorama italiano.

All About Jazz: Il titolo Room of Mirrors cosa significa?

Kekko Fornarelli: Prima del disco mi ero preso una lunga pausa, perché quello che stavo facendo non mi piaceva. Di conseguenza questo è un lavoro autobiografico; è come se mi fossi trovato in una stanza piena di specchi, con tutte le mie immagini riflesse.

AAJ: Cosa c'è di diverso dagli album precedenti?

K.F.: C'è sicuramente una consapevolezza più matura rispetto a quella che è la musica scritta di mio pugno. I primi due lavori sono stati - come per la maggior parte dei giovani musicisti - un voler dimostrare necessariamente quanto si è bravi con il proprio strumento. Room of Mirrors è un album che mi piace definire come più onesto. Nel senso che ho voluto semplicemente dare sfogo alla libera creatività, e quindi senza filtri, non pensando al virtuosismo, ma piuttosto al contenuto. Ho cercato di prendermi più rischi possibili.

AAJ: Anche a livello di sonorità.

K.F.: Il suono è completamente diverso rispetto agli altri lavori, c'è un approccio diverso, più vero, più identificativo in relazione a quello che sono.

AAJ: Si tratta per te di un nuovo inizio?

K.F.: Sì, sicuramente, è il primo lavoro di un nuovo filone, che intendo continuare, visto che mi rappresenta molto.

AAJ: Alcuni brani, come per esempio la title-track, presentano nel loro interno momenti di distensione e di tensione. Questa alternanza rispecchia il tuo modo di essere?

K.F.: Sì, c'è sempre anche in me questa altalena, tra il bianco e il nero, tra la quiete e la tempesta. Riflette anche lo stile di vita quotidiano. A me piace scrivere i brani come se fossero musiche per un film, come mini storie raccontate. In queste storie ci sono i vari risvolti che si susseguono. È la rappresentazione del mio essere, che non è fatto di sola arte, ma anche di realtà, non sola gioia, ma anche di momenti bui. Mi piace sottolineare questi aspetti in musica.

AAJ: A propostito di vita quotidiana, in "Daily Jungle" c'è una certa irregolarità dal sapore urbano.

K.F.: Volevo proiettare la giungla quotidiana nella quale viviamo tutti noi. Una realtà che ci vede correre fin dal risveglio, ma non sappiamo mai bene dove ci stiamo dirigendo. Molte volte è una corsa senza nessun fine. Il brano vuole cogliere l'aspetto della frenesia. A volte per raggiungere delle cose positive non c'è neanche il bisgono di correre.

AAJ: "Coffee & Cigarettes" denuncia qualche vizio di troppo?

K.F.: È l'aspetto ludico del lavoro dopo tanta serietà. Uno dei tanti lati di me stesso, oltre a quelli della riflessione, della serietà e tutto il resto c'è anche il lato scherzoso. L'atmosfera rilassata e distesa di un momento passato con degli amici ha dato vita all'idea per questo brano.

AAJ: Hai trovato anche il motivo per inserire passaggi più consueti, come "The Flavour of Clouds" o "Children's Eyes".

K.F.: Sono le due ballad della scaletta. Volevo interpretare con "The Flower of Clouds" un modo diverso di fare ballad, dal punto di vista estetico rispetto a come siamo abituati. Sono due riflessioni, due sogni per meglio dire, da dove viene fuori il lato romantico del mio scrivere. Amo in modo particolare questi brani, perché vengo da una tradizione classica e sono mediterraneo, quindi c'è molto romanticismo nel mio modo di fare musica e non mi dispiace affatto.

AAJ: Da quali ascolti deriva la tua scrittura?

K.F.: Ho una storia abbastanza anomala, non ho un percorso accademico in ambito jazz, sono diventato jazzista in maniera autodidatta. Quindi è venuto fuori il mio modo di amare la musica a 360° gradi; non ascolto solo jazz, vengo dalla classica e mi sono cimentato in diversi generi, non ho ascolti standardizzati, seguo molto anche la radio. Di conseguenza la mia scrittura è figlia di tutto ciò e si lascia influenzare da una serie di ascolti, da più forme di espressione, e questo penso che sia un bene. Mi piace l'idea di fare musica senza necessariamente essere ricondotto a un determinato filone, anche perchè siamo in un momento in cui il jazz - soprattutto in Italia - dovrebbe cambiare.

AAJ: Verso quale direzione?

K.F.: Non c'è una direzione ben presica, ma non possiamo ostinarci a scrivere, suonare e ascoltare ciò che è stato abbondantemente fatto negli anni Sessanta. Poi credo che ognuno di noi ha una propria tradizione, suoniamo una musica che tradizionalmente fa parte della cultura americana, noi abbiamo tutt'altra radice, dobbiamo lasciare che il nostro modo di fare musica sia influenzato dalle nostre tradizioni. Ognuno prende la sua strada; a me piace molto l'approccio nordeuropeo, ma non per questo devo fare musica come la fanno lì, potrebbe venir fuori qualcosa di diverso fondendo mediterraneo e nord europa, in assoluta libertà. Spero che le cose si evolvano, perché se non c'è evoluzione, non c'è futuro.

AAJ: Hai dichiarato in un'altra intervista: "La verità è che non ho mai legato con il jazz tradizionale".

K.F.: La tradizione nel jazz mi piace molto e la rispetto, perché è patrimonio di un'altra cultura. Per mia indole e per il mio modo di comunicare non ho mai legato con il mainstream. Ecco perché ho scelto di scrivere e suonare in un altro modo rispetto al passato. Non sarò mai un grande esecutore di standard, ognuno deve onestamente comprendere i propri limiti e capire i propri punti di forza e fare un percorso personale. Mi risulata facile scrivere musica, fare una produzione personale e indipendente.

AAJ: In Room of Mirrors hai utilizzato l'elettronica per la prima volta. Perché?

K.F.: È un esperimento. Venendo da due produzioni acustiche e di tutt'altra fattura, ho voluto essere abbastanza cauto nell'utilizzo dell'elettronica, anche perché amo molto la dimensione acustica. Mi è servita per ricreare e rendere delle ambientazioni che avevo come idea, senza che fosse invasiva. In futuro ci sarà un utilizzo più consapevole e massiccio, sicuramente. I miei lavori stanno andando in quella direzione, lasciando comunque grandissimo spazio per l'acustica. Queste due componenti messe insieme possono fare la differenza.

AAJ: Stai già mettendo le basi per un nuovo progetto?

K.F.: Il secondo capitolo di questo percorso sarà una nuova registrazione in trio, con degli ospiti, e probabilmente registreremo in autunno. Il trio è cambiato, in quanto ho dovuto scegliere altri elementi per la band per portare le idee dal vivo; certe sonorità mi hanno imposto di cambiare rotta. Ci saranno con me due talenti pugliesi che hanno molto da dire, come Luca Alemanno al contrabbasso e Dario Congedo alla batteria, musicisti molto vicini al mio modo di vedere la musica. Ho deciso di investire nella loro collaborazione. Vedremo quello che succederà.

AAJ: Ci sono ancora percorsi da scoprire con il piano-trio?

K.F.: Ritengo di sì, in realtà cercare di fare un'istantanea in questo momento è un po' complicato. Qundici anni fa nessuno si immaginava, per esempio, i Bad Plus, quindi sicuramente ci saranno delle evoluzioni, spero di avere qualcosa da dire anche io in questo senso.

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