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L'inchiesta dell’estate: le risposte dei management!

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Eccoci a una nuova puntata della nostra inchiesta!

Dopo aver parlato con i musicisti e un primo blocco di direttori artistici, abbiamo posto ora venti domande rivolte a cinque management, selezionati in base a esperienza, rilievo nazionale e varietà del roster.

[Non sarà inutile ribadire, come per le puntate precedenti, che i nomi degli interpellati potevano essere anche altri e che non si ha qui la pretesa di dare alcuna "risposta definitiva," completa o statisticamente inoppugnabile ai tanti interrogativi sollevati, quanto piuttosto quella di fornire una piattaforma di confronto costruita su autorevoli opinioni e riflessioni]

Hanno risposto Vittorio Albani [Pannonica, management di Paolo Fresu, Gianluca Petrella e altri], Toti Cannistraro [Caleidoscopio Jazz, agenzia di booking che segue tra l'altro i Bad Plus e Kurt Rosenwinkel], Mario Guidi [MGM, management di Enrico Rava, Stefano Bollani e altri], Alberto Lofoco [Akamu, management di artisti come Anthony Braxton e Wadada Leo Smith], Andrea Scaccia e Enrico Iubatti [Around Jazz, agenzia di booking di jazzisti come Charles Lloyd, Gregory Porter o Franco d'Andrea], che ringraziamo moltissimo per la loro disponibilità.

Buona lettura e a prestissimo per le ultime risposte dei direttori e la conclusione [forse...] dell'inchiesta!

Da quanti artisti è costituito il suo roster e quanti concerti l'anno più o meno riescono a tenere in Italia? Quanti all'estero?

Vittorio Albani [V. FOTO]: Il nostro roster è composto da diversi artisti italiani e internazionali che riescono oggi a tenere un numero relativamente basso di concerti tranne in pochissimi casi. Il rapporto - nei casi fortunati - è comunque di sette concerti in Italia e tre all'estero.

Toti Cannistraro: Premettendo che la mia attività è quella di booking agent e di traveling manager e che quindi non mi occupo di tutti gli aspetti degli artisti del mio roster, mi occupo di una quarantina di artisti che muovo in media una volta l'anno in Italia, pochi all'estero.

Mario Guidi: Rappresento tre artisti italiani che complessivamente riescono a fare sui 100 concerti all'anno, di cui un 15% all'estero. Rappresento poi per l'Italia l'agenzia Saudades e conseguentemente mi occupo di alcuni artisti come Scofield, Frisell, Carla Bley, Douglas ed altri ancora, procurando loro circa una ventina di concerti l'anno.

Alberto Lofoco: Dieci musicisti più alcuni altri artisti di cui non seguiamo tutta la produzione, ma solo singoli progetti.

Andrea Scaccia - Enrico Iubatti: Nel roster dell'agenzia ci sono circa 40 artisti provenienti da tutto il mondo, per la maggior parte di loro seguiamo il booking per l'Italia. Di altri artisti, sia italiani che internazionali, quello mondiale. Riguardo ai numeri non saprei dire, non è nostro costume contarli. Ci piace pensare a quelli che non abbiamo ancora fatto.

Quali sono, sinteticamente, i criteri con cui decide di lavorare con un musicista e includerlo nel suo roster?

Albani: Pannonica è nata (quasi vent'anni fa) fondamentalmente come un'agenzia e management - in onore del nome della "signora del jazz" che porta - per essenziale passione e volontà di aiutare i nomi più interessanti e promettenti del panorama jazzistico nazionale e supportare alcuni talentuosi new names del circuito internazionale, oltreché collaborare con almeno un nome fondamentale di livello planetario. Chi la dirige cerca di scegliere accuratamente i nomi con i quali lavorare dando preferibilmente possibilità a quelli che in qualche modo sono più propositivi e credono nella ricerca e in un modo creativo e alternativamente "intelligente" di proporsi.

Cannistraro: Cerco di fare coincidere la vendibilità con l'originalità della proposta, ma do certamente più importanza al fatto che la proposta sia interessante sotto il profilo artistico.

Guidi: Molto semplici: il primo è quello di evitare di collaborare con gli artisti che ti possono complicare la vita. Il secondo è quello di amare profondamente la musica che l'artista che hai scelto di rappresentare propone.

Lofoco: Innanzitutto l'affinità con la nostra linea che privilegia il jazz d'avanguardia (tempi complessi o liberi, originalità nelle composizioni) o la cosidetta musica creativa.

Scaccia/Iubatti: Crediamo molto nel rapporto umano che si crea tra noi e i musicisti, ci piace conservare una certa idea che caratterizzò il lavoro del compianto fondatore dell'agenzia, Isio Saba, il quale, trent'anni fa, mosse i primi passi in questo mondo basandosi su questi principi. Di pari passo va la qualità della proposta musicale che deve rispondere a determinate caratteristiche che sono imprescindibili anche se, sarebbe sciocco negarlo, l'ipotetica vendibilità dei progetti ha un ruolo fondamentale.

I musicisti con cui lavora condividono con lei le progettualità su cui intendono lavorare? Chiedono consigli? Quale ruolo ha la sua opinione nella costruzione di progetti?

Albani: Il distinguo è d'obbligo. Nel caso del management ovviamente sì, negli altri casi (il semplice booking) si tratta solo di un aiuto reciproco bilanciato al fine della ricerca di date. Nel primo caso l'opinione è ovviamente importante e interessata e mirata all'aiuto della costruzione di un percorso artistico.

Cannistraro: In genere sono assolutamente autonomi e anche maturi, non chiedo mai cosa verranno a fare perché mi sembrerebbe un'intrusione limitante, una forma di inopportuno egocentrismo. Qualche volta chiedono consigli però e ciascun musicista tiene in forte considerazione il parere di chi gli procura un lavoro. Mi capita a volte anche di creare un gruppo nuovo se mi convinco che ci sono delle compatibilità, e in genere funziona.

Guidi: Con i tre artisti italiani a livello progettuale c'è molta collaborazione e scambio di idee, con i musicisti di Saudades no, tranne quando propongo loro qualche progetto speciale da discutere insieme.

Lofoco: Condividono naturalmente questa posizione, poiché facevano questa musica prima dell'inizio della nostra collaborazione. Non chiedono consigli né riteniamo di darli in quanto non siamo d'accordo con la figura del produttore che cerca di consigliare o peggio imporre le proprie idee, ma lasciamo gli artisti totalmente liberi di fare la musica in cui credono senza condizionarli in alcun modo.

Scaccia/Iubatti : Molto spesso. Naturalmente gli artisti di cui gestiamo il booking ci propongono i progetti già delineati o sviluppati talvolta con le case discografiche. Per quelli che rappresentiamo a livello mondiale, sia come booking che come management, il confronto è quotidiano. I progetti su cui amiamo investire tutte le energie sono quelli che prendono in considerazione ogni singolo aspetto: dall'ideazione del progetto alla realizzazione discografica, dai live alla promozione. Quando ogni singolo aspetto della filiera funziona, accade la magia. Non è più tempo, per quel che ci riguarda, di ragionare a compartimenti stagni.

Quanti dischi (o video, links da scaricare, etc.) di musicisti non della sua agenzia ascolta in media in un mese?

Albani: Tutti quelli che posso, purché abbia il necessario tempo per ascoltarli con la doverosa attenzione. Vivo di musica da quando ho l'età della ragione e ho avuto la fortuna di essere riuscito a trasformare la mia passione in un lavoro.

Cannistraro: Ascolto pochissimi dischi anche dei "miei" artisti, per me quello che conta è la musica dal vivo. Caso mai uso YouTube per scoprire artisti nuovi o riascoltare cose classiche, perché negli ultimi anni mi è venuta proprio una repulsione per il CD.

Guidi: Ascolto moltissimo da internet (YouTube, siti degli artisti, etc.). Diciamo che cerco di tenermi informato su ciò che succede in Italia, nel Nord Europa e sull'altra sponda dell'Atlantico. Grazie a Facebook sono poi al corrente di ogni minimo passo degli artisti che più mi interessano. Diciamo che almenoquasi ogni giorno cerco di farmi un'idea su un nuovo disco o su qualche artista che non conosco.

Lofoco: Mediamente circa una cinquantina di CD di artisti non del nostro roster. Inoltre, sommando i brani proposti da musicisti via e-mail, via Facebook o attraverso altri canali via internet, quelli che ascolto in un mese credo siano all'incirca due o trecento.

Scaccia/Iubatti: Tanti, ma sempre meno di quelli che vorremmo.

A quanti Festival in Italia è stato durante quest'anno? E in Europa o in altri Continenti? Quali pensa che siano, al di là dei gusti personali e sinteticamente, le caratteristiche che fanno di un Festival una manifestazione che genera un impatto culturale e economico rilevante?

Albani: Sino ad oggi circa ad una dozzina in Italia e una mezza dozzina all'estero. Quanto alle caratteristiche credo la capacità di creare un indotto sul territorio che li ospita. La capacità di saper proporre una rassegna degna di questo nome, presentando sì il nome forte e popolare, ma creando anche interesse e stimolando la curiosità di conquistare altri nomi, altri territori. Questo in senso generale. Una volta esistevano (oggi sono rarità totali) i festival in qualche modo specializzati: ovviamente se la base dalla quale si parte è questa allora il discorso si fa diverso e complesso.

Cannistraro [V. FOTO]: A nessuno. La mia non è un'attività particolarmente redditizia, dal momento che mi piace l'originalità e non ho molti soldi da spendere, oltre al fatto che vivo a Palermo. Non mi piace poi chiedere accrediti e cose del genere come molti giornalisti e fotografi che affollano insopportabilmente i festival di grido, né sono un presenzialista. Ho viaggiato per lavoro per molti anni e da un paio d'anni mi limito solo a portare nei festival i miei artisti. Non vado nemmeno a New York, che è uno dei pochi posti interessanti da visitare e da cui ormai da quindici anni attingo i musicisti. Mi piace invece creare piccoli festival di qualità in posti sperduti, specialmente al Sud.

In Europa non sono potuto andare spesso, ma la situazione è diversa, ci sono direttori artistici più giovani e attenti alle novità musicalmente più interessanti. Certo le logiche di mercato sono comuni in tutto il mondo, ma in altri paesi europei le cose cambiano più rapidamente, in Italia non ci siamo nemmeno liberati dal fascismo!

Quanto alla seconda parte della domanda, meriterebbe certamente un dibattito lungo. Negli anni Settanta c'era la possibilità di far coincidere la rilevanza culturale con quella economica e infatti alla fine di essi Umbria Jazz potè decollare. Adesso tutto è basato sull'immagine e sull'apparenza, la musica sembra avere un'importanza marginale e quello che conta è ciò che i vari uffici stampa sono un grado di costruire (vedi il "fenomeno" Allevi) e gli uffici stampa non sono fatti da musicisti o esperti, ma da gente che cerca denaro. Ho cercato in tutti questi anni di sfuggire al conformismo diffuso in Italia che porta nei festival da una ventina d'anni quella decina di artisti appartenenti a managements con tanto di suddetti uffici stampa che hanno "capito tutto". Ho "usato il burka," cercando di rispettare le menti e di innescare un processo virtuoso opposto a quello imperante, ma al momento sono perdente e, senza presunzione, credo ci sia anche un certo ostracismo nei miei confronti, dal momento che non ho mai messo piede all'Auditorium di Roma, a Pescara Jazz, a Bergamo Jazz e una volta sola in quindici anni a Umbria Jazz. Ma venendo alla domanda, credo che una forma di festival che sta prendendo piede sia quella che abbina i workshop ai concerti. È una forma che crea indotto sul territorio e fa vivere un'atmosfera piacevole perché c'è contatto tra allievi e musicisti.

Guidi: Sono stato negli ultimi 12 mesi a Saalfelden, Vicenza jazz, Umbria Jazz, San francisco Jazz Festival, un paio di festival in Polonia (Wroclaw e Sopot Jazz Festival), Torino, Bergamo. Un festival come Saalfelden mi sembra abbia le caratteristiche necessarie per generare un impatto culturale ed economico importante. Come ho già detto Bergamo jazz ha imboccato una strada molto interessante. Vicenza Jazz potrebbe rischiare qualche cosa in più. Torino è ancora un'incognita, forse ci sono troppe dinamiche di cui tener conto, ma con i grandi mezzi che ha a disposizione potrebbe diventare un festival di importanza europea.

Lofoco: In Italia: Dialoghi: Jazz per Due (Pavia), Novara Jazz, Cassero Jazz, Bergamo Jazz, New Conversation (Vicenza) e Metastasio Jazz (Prato) mentre all'estero: Sons d'Hiver e Banlieues Bleues (Parigi), Vinter Jazz (Copenhagen), Estival Jazz (Lugano), Jazzahead! (Brema), A L'Arme Festival (Berlino), Peitz Jazz Festival, Jazz em Agosto (Lisbona). Se per "quest'anno" s'intendono gli ultimi 12 mesi, allora vanno aggiunti in Italia: Jazz & Wine of Peace (Cormons) e all'estero Willisau Jazz Festival, Jazzfestival Saalfelden, AkBank Jazz Festival (Istanbul), ad Libitum (Varsavia), Skopje Jazz Festival.

Per avere un impatto culturale rilevante, credo il festival debba avere una linea chiara e che ci sia equilibrio tra grandi nomi e nuove proposte. Non ho esperienza di festival che abbiano un impatto economico rilevante, ma non credo debba essere questa una priorità di un festival jazz.

Scaccia/Iubatti: Non saprei quantificarli. Cerchiamo di essere nei limiti del possibile presenti ai concerti degli artisti con cui lavoriamo. Questo vale anche per l'Europa e quando ci sono le possibilità anche per gli altri continenti. E poi ci sono i concerti che si seguono non per lavoro, purtroppo sempre troppo pochi.

Per quanto riguarda la seconda domanda direi prima di tutto la qualità della proposta. Poi non ci piace molto sentir dire "in quel festival suonano sempre gli stessi," perché a queste scelte corrisponde spesso una necessità di botteghino. E spesso la nostra agenzia non rappresenta quei "soliti noti," è una riflessione spassionata. È un dato che alcuni artisti possono garantire ad un festival numeri di presenze importanti, senza i quali non saremmo qui a parlare del jazz in Italia. Ma accanto a questi nomi consolidati un bravo direttore artistico deve saper rischiare e proporre cose nuove. In questo balance sta la credibilità o meno di un festival. Dal punto di vista del virtuosismo economico un festival che riesce a muoversi sul numero 33 è già da stimare: 33% sbigliettamento, 33% sponsor e 33% finanziamenti. Naturalmente se si fa meglio tanto di cappello.

Mi sembra che talvolta rispetto ai finanziamenti al jazz ci sia un approccio del tutto stigmatizzante verso i festival. Il finanziamento pubblico non significa dilapidare i soldi delle casse dello Stato ai danni del contribuente, i festival che lo ricevono non sono "il male". Il nostro paese ha bisogno di cultura; i festival rappresentano un indotto, un opportunità per le città che li ospitano. Strutture alberghiere, attività commerciali, ristoranti aspettano con trepidazione questi festival. Basta vedere cosa ha rappresentato Umbria Jazz per città come Perugia e Orvieto tanto per citare un esempio lampante.

Come giudica mediamente il panorama dei Festival italiani? Quali sono solitamente le ragioni per cui alcuni musicisti della sua agenzia non trovano lo stesso spazio di altri?

Albani: Decisamente mediocre e in mano a situazioni discutibili spesso ostaggio del mondo politico locale. La risposta "negativa" raccolta maggiormente in questi anni è stata "perché fanno musica troppo difficile". Difficile - a quel punto - è però anche aprire un dialogo, una volta possibile, ma oggi pressoché negato.

Cannistraro: Beh, credo di avere già detto tutto a questo proposito con la mia risposta precedente.

Guidi: Non molto stimolante. Basta fare il confronto con quanto avviene nel resto d' Europa. Generalmente i promoter hanno paura che la musica cosiddetta difficile allontani il pubblico. Io sono del parere opposto, trovo che se nella musica c'è quella che io chiamo la "verità," poi il pubblico risponde. Il problema è che il grosso pubblico viene messo raramente di fronte alla possibilità di formarsi un gusto e di poter cercare la "verità". Mentre anni fa era difficile trovare posto ai concerti diPaul Motian, Lester Bowie, Steve Coleman, oggi le sale si riempiono per le cantanti reduci da Sanremo o al massimo per Gregory Porter. Quelle che per i promoter sembrano delle ghiotte opportunità (la commistione con artisti del pop e del rock, i tributi studiati a tavolino, il continuo rivolgersi al passato in cui sono impegnati anche tanti artisti di altissimo livello) stanno portando ad un appiattimento preoccupante. Aspetto da un momento all'altro la prima collaborazione tra una cantante di "Amici" e il giovane jazzista rampante. La conseguenza è che chi invece cerca di esprimere una propria musica originale, chi vuole proporre una propria visione del futuro, oggi ha pochi spazi agibili a disposizione. Ovviamente in molti la pensano in modo diametralmente opposto e lamentano invece l'assenza dalle scene italiane degli alfieri del mainstream e la troppa invadenza dei "soliti noti," oppure contestano la presunta "jazzità" di taluni artisti.

Lofoco: Tra il deprimente e lo squallido. In Italia la cultura è vista come un lusso e vige ad ogni livello clientelismo, malaffare e incompetenza. Le ragioni sono storiche e diverse e sarebbe troppo lungo elencarle tutte qui. Tra le più gravi tra quelle recenti citerei la quantità di festival affidati dalle amministrazioni a musicisti (in questo l'Italia non ha paragone al mondo, dove vengono perlopiù diretti da musicologi o da persone di ampie competenze) che nella migliore delle ipotesi chiamano i loro amici e nella peggiore fanno scambi con altri direttori di festival/musicisti. Poi ci metterei l'incompetenza (mi è capitato anche chi non conosceva la musica di Anthony Braxton, Wadada Leo Smith o Roscoe Mitchell...) e le loro fonti sembrano essere il Festival di Sanremo, qualche programma televisivo o radiofonico d'intrattenimento. Infine il jazz nazional-popolare che spopola in Italia, estromettendo grandi musicisti che meriterebbero di suonare di più quali ad esempio D'Andrea, Gaslini, Trovesi, Actis- Dato, D'Agaro, Schiaffini, i Nexus, Giovanni e Bruno Tommaso etc., tutti musicisti ri/conosciuti all'estero ma pressoché ignorati in Italia dai festival e dai media.

Scaccia/Iubatti: Purtroppo non saprei dirlo, per noi gli artisti che rappresentiamo sono i migliori, se sapessimo il perché trovano poco spazio avremmo trovato la risposta ai nostri mal di stomaco.

A quanti concerti ha assistito spontaneamente negli ultimi 12 mesi al di fuori di quelli degli artisti della sua agenzia? È rimasto colpito in qualcuno di questi concerti da un musicista (italiano o straniero) che trova particolarmente interessante?

Albani: Non riesco nemmeno a contarli. È un aspetto del mio lavoro che curo con attenzione qualche volta maniacale e dove ho la possibilità sono presente, anche se - rispetto a qualche anno fa - in numero inferiore. Quanto alla seconda domanda: assolutamente sì ed è sempre un'occasione fondamentale per verificare l'"altezza" di un musicista al di fuori della sala di registrazione.

Cannistraro: Non saprei dire quanti concerti. Mi ha colpito, ma ormai da anni, Daniele Tittarelli, ma avrei delle difficoltà a proporlo perché lui ama la musica e pertanto si pone in maniera poco consona all'industria dello spettacolo. In generale credo che il potere dei festival sia nelle mani di incompetenti assetati di denaro, che cercano sempre le strade più facili e immediatamente redditizie. Occorrerebbe una rivoluzione in grado di cambiare tutta la classe dirigente e di togliere ai politici il potere di mettere a piacimento i "loro" uomini nei vari posti. Ci sono importanti musicisti dalla copertina facile in possesso di tessera di partito.

Guidi: Sinceramente molto pochi. In passato sono stato un assiduo frequentatore di festival, ora no, però ne ascolto molti su YouTube. Forse mi muoverei di più se avessi la possibilità di ascoltare in Italia artisti che mi interessano molto come Craig Taborn e Jason Moran (ad esempio) e non la solita prevedibile Hiromi (pur notevolissima dal punto di vista tecnico) e succedanee. Non sembra una richiesta ragionevole? Non chiedo mica che imperversino, che so, Tyshawn Sorey o Steve Lehman, anche se mi piacerebbe certamente ascoltarli. Vorrei solo avere la possibilità di assistere ai concerti degli artisti che oggi stanno dicendo cose importanti. Recentemente sono rimasto molto colpito da Thomas Morgan, Peter Evans, dai gruppi di Jacob Garchik (Atheist Gospel), di Mike Formanek, di Todd Sickafoose. Per rimanere in Europa ed in Italia ho apprezzato molto Dan Kinzelman, Enrico Morello, Mirco Rubegni, Francesco Ponticelli, Gabriele Evangelista, Alfonso Santimone, Vincent Peirani, il quartetto (due tastiere e due percussioni) di Joao Lobo e soprattutto Gianluca Petrella. Vorrei poi ricordare alcuni artisti un po' defilati, che meriterebbero molta più visibilità come Antonello Salis, Pietro Tonolo, Stefano Battaglia, Fabrizio Puglisi e Sandro Satta.

Lofoco: Almeno 200 concerti (calcolando che nei festival se ne assiste spesso a più d'uno nella stessa giornata). Diversi musicisti meriterebbero maggiore visibilità ma la lista sarebbe troppo lunga; nella sola Berlino conosco almeno una decina di eccellenti musicisti. Per gli italiani a parte quelli sopracitati segnalerei Fabrizio Puglisi, Gianni Lenoci, Pasquale Mirra, Luca Venitucci, Edoardo Marraffa, Emanuele Parrini, Silvia Bolognesi, Fabrizio Spera, Nicola Guazzaloca, Dimitri Grechi Espinoza, Beppe Scardino, Antonio Borghini, Alberto Fiori, Andrea Lamacchia.

Scaccia/Iubatti: Diversi, Wayne Shorter con il quartetto resta sempre una delle esperienze più incredibili della vita.

Guarda le classifiche dei referendum annuali tipo Top Jazz? Il fatto che un artista ottenga un buon risultato in un referendum la incuriosisce maggiormente nei suoi riguardi e la spinge eventualmente a contattarlo professionalmente?

Albani: Sempre meno e con minor attenzione. Assolutamente no. Credo che - almeno per come sono organizzati e prodotti in questo paese - referendum e cose del genere siano da cancellare. Ma qui il discorso si fa più "importante" e partirebbe da basi più fondamentali e legati alla scuola italiana, alla capacità pedagogica di instillare interessi e capacità critica negli individui e via di conserva.

Cannistraro: È capitato per anni che la vittoria del referendum da parte di un musicista coincidesse con l'inizio del suo declino. Non le guardo, anche se mi ha fatto piacere che un paio di anni fa la mia agenzia sia stata la più votata in Italia, anche perché non abbiamo fatto alcuna campagna elettorale con voto di scambio, come spesso avviene.

Guidi: Sì, le guardo, ma con una certa distanza, perché l'eccessiva "bontà" di qualche votante, troppo sensibile alle pressioni di musicisti insistenti, di case discografiche e di distribuzione (una di queste in particolare è molto aggressiva e molesta) e persino di scuole di musica, che cercano di dare più visibilità ai loro insegnanti, rende meno credibili tali classifiche. La cosa ridicola è tutto questo affannarsi produce pochissimi risultati tangibili a livello di vendita di dischi o di incremento del numero di concerti. Avendo scelto di non allargare il volume di lavoro della mia agenzia, se mi piace qualche giovane musicista, cerco di segnalarlo agli organizzatori con cui ho un rapporto di fiducia.

Lofoco: Ho delle riserve sul referendum fatto da Jazzit, in quanto i dati non sono verificabili e spesso i risultati sono incoerenti o assurdi. Il Top Jazz di Musica Jazz invece mi spinge a informarmi su quello che non conosco (specialmente tra i giovani artisti). Non contatterei mai nessuno per questo (e in generale non abbiamo mai chiesto a nessun musicista di fargli da agente) per non creare false aspettative, ma certamente lo andrei a sentire quando possibile.

Scaccia/Iubatti: Guardiamo le classifiche, ma come dato statistico e di costume, i risultati non influiscono sulle scelte dell'agenzia. Più volte, e con grande orgoglio, artisti con cui condividiamo il percorso hanno vinto queste classifiche, ma poco ha influito direttamente su un incremento di partecipazione alle rassegne nazionali.

Segue regolarmente riviste, siti specializzati, trasmissioni radio sul jazz? Quali in particolare?

Albani: Praticamente tutto sino a qualche anno fa. Oggi con meno interesse (fatta eccezione per alcune testate straniere) poiché trovo che - specialmente la stampa specializzata - sia notevolmente peggiorata sia in qualità che in creatività. Nel contemporaneo stretto, il lavoro di Pino Saulo e la redazione Rai di RadioTre restano comunque emblematiche e fondamentali da questo punto di vista in questo paese.

Cannistraro: No, da questo punto di vista sono un po' pigro.

Guidi: Sul cartaceo leggo Musica Jazz, Jazzit, Jazz Magazine, Down Beat e Jazz Times. In rete mi piacciono A Blog Supreme, Do the Math, JazzWax e in Italia Mondo Jazz. Sicuramente ne dimentico qualcuno. Ascolto Radio Rai 3, quindi spesso mi capita di seguire le trasmissioni di Pino Saulo.

Lofoco: Sono abbonato a una decine di riviste jazz al mondo (la migliore a mio parere era la portoghese JazzPT, ora solo online); in Italia solo al Giornale della Musica, anche se leggo regolarmente da anni Musica Jazz, Jazzit e Alias del Manifesto. Seguo anche diversi siti internet (segnalati sul nostro sito) e ascolto spesso Battiti su RadioTre (Pino Saulo sembra l'eccezione in Italia della persona giusta al posto giusto) e l'americana WKCR su internet.

Scaccia/Iubatti: Leggiamo, per quel che riguarda l'Italia Musica Jazz, Jazzit, Il Giornale della Musica, AllAboutJazz, Jazzitalia, Jazz Convention. Per quel che riguarda le radio il nostro riferimento assoluto resta Pino Saulo, un eroe dei nostri giorni. Ma anche Nick The Nightflight e Gegè Telesforo fanno un gran lavoro. Per l'estero i riferimenti sono Downbeat e Jazz Magazine.

Cosa pensa dei collettivi indipendenti e di altre iniziative dal basso che sono sorte ultimamente in Italia? Li conosce? Qual è la sua opinione su di essi, sia artisticamente che dal punto di vista organizzativo.

Albani: Ne penso il bene possibile, anche se allo stesso tempo credo che la filiera sia da organizzare meglio. Spesso la "catena" non è tale e trovo sempre un punto della stessa in cui mancano gli ovvi anelli fondamentali di collegamento. L'industrializzazione della cultura (e non solo nel senso prettamente alternativo) potrebbe salvare questo paese, ma, troppe volte, per posizioni intransigenti e per l'incapacità di porsi in relazione con il resto, molte di queste realtà restano presto orfane dei motori che dovrebbero spingerle.

Cannistraro: Non sono per natura un grande appassionato di collettivi, ma li rispetto.

Guidi: Apprezzo molto i collettivi indipendenti. Conosco meglio El Gallo Rojo, avendo ricevuto dei dischi e ascoltato qualche loro concerto. Certo è che meriterebbero molta più visibilità.

Lofoco [V. FOTO]: Ne penso tutto il bene possibile per la ragione di cui sopra e in passato ho anche cercato di dare impulso a questo organizzando incontri musicali tra musicisti di città diverse. Credo di conoscerli quasi tutti. Dal punto di vista artistico la qualità è alta (sopratutto per Bassesfere, El Gallo Rojo e Improvvisatore Involontario), mentre dal punto di vista organizzativo sono tutte più o meno insufficienti e anche nei momenti in cui hanno cercato di dare un coordinamento nazionale (penso soprattutto agli sforzi del Gallo Rojo) l'azione è sempre sfumata per individualismo o per l'ingenuità di alcuni musicisti che non avevano compreso il progetto, trattandolo più come una mega-agenzia per trovare concerti per i loro gruppi.

Scaccia: Conosciamo e seguiamo indirettamente le scelte di El Gallo Rojo, Improvvisatore Involontario, Franco Ferguson, la scena livornese e tutte quelle realtà che con forza e caparbietà portano avanti coraggiosamente le proprie scelte. Sul merito del lavoro non abbiamo elementi che permettano una riflessione sul loro operato.

Crede che il fatto che alcuni musicisti che fanno capo a collettivi abbiano un forte eclettismo e suonino in tantissime formazioni (più o meno combinate e ricombinate) possa costituire un elemento di scarsa riconoscibilità e presa per i direttori artistici meno attenti a questa scena?

Albani: Assolutamente no, anzi penso che possa essere vero il contrario, anche se è abbastanza ovvio che poi entrano in gioco le caratteristiche soggettive della propria personalità e il modo di porsi e sapersi proporre sia "sul" che "fuori" dal palco.

Cannistraro: Penso che creare un collettivo sia un modo per fare arte, non per creare lavoro.

Guidi: Credo che il dovere di un direttore artistico sia quello di essere " più attento" di chiunque altro.

Lofoco: No, non penso. All'estero avviene lo stesso, ma la cosa funziona e non parlo solo di paradisi musicali come la Norvegia, l'Olanda o la Francia, dove questa musica riceve cospicui sussidi da parte delle istituzioni di quei Paesi.

Scaccia/Iubatti: Non saprei. Più in generale credo che musicisti che fanno parte di diversi progetti trovino la classica difficoltà di sentirsi dire "ma l'ho già avuto ospite nel gruppo di..."

Quale crede sia (sinteticamente) la principale causa dell'assenza "cronica" di molti artisti pur molto attivi e con un valido riscontro critico (alcuni sono quelli intervistati, ma potrebbero essere molti altri) dai cartelloni di gran parte dei festival?

Albani: L'ottusità e la miopia degli stessi cartelloni, troppe volte - comunque - obbligati a scelte di cassetta per avere la possibilità di avere nuove repliche in futuro.

Cannistraro: Faccio un esempio: per dieci anni ho fornito a Luciano Vanni di Jazzit l'80% dei gruppi della sua rassegna invernale e del suo festival estivo. Non ho mai avuto una copertina di Jazzit perché nessuno degli artisti, né Kurt Rosenwinkel, né Mark Turner, né i Bad Plus (solo per fare qualche nome) avrebbe portato grandi vendite.

Guidi: Sicuramente non suscitano interesse nei grandi festival e nemmeno in quelli di dimensioni più modeste. Specialmente in provincia si diventa direttori artistici per le motivazioni più disparate, solitamente sono degli appassionati che riescono a far breccia nel cuore dell'assessore di turno, oppure musicisti attivi in ambito locale e quindi con una certa visibilità. Sfortunatamente non basta essere appassionati o musicisti. C'è poi la paura di cui parlavo poco sopra, giustificata dal fiato sul collo dell'assessore o dell'eventuale raro sponsor e dalla scarsa risposta del grosso pubblico, ormai insensibile al piacere della scoperta e disponibile solo alle proposte dai contenuti pre-digeriti. Da qui la necessità di ripartire anche dai piccoli spazi alla riconquista e alla formazione di un pubblico latitante.

Lofoco: Per quanto riguarda gli pseudojazzfestival direi le varie mafiette, combine con altri musicisti/direttori artistici etc. Mentre i problemi dei direttori artistici seri (fortunatamente ce ne sono, anche se troppo pochi) sono problemi di budget e di "ricattabilità" artistica da parte di certe amministrazioni.

Scaccia/Iubatti: La situazione drammatica in cui versa la cultura in Italia fa sì che chi organizza un festival non ci pensi una, ma mille volte prima di arrischiarsi su scelte "coraggiose". Si potrebbero versare fiumi di inchiostro a riguardo, ma come possiamo stigmatizzare le scelte di un promoter che quotidianamente si trova a dover lottare con i denti per tenere in piedi il proprio festival? I più pavidi lo fanno, ma in rapporto al numero di nuove realtà che il nostro Paese propone quotidianamente sono pochi. Il classico caso in cui l'offerta supera di gran lunga la domanda.

Quali aspetti della promozione di molti giovani musicisti crede possano essere migliorati? Provi a dare loro un consiglio davvero spassionato, secondo la sua esperienza.

Albani: Come essere ottimisti in un momento in cui non sembra esistere la possibilità di aiutare i tanti nuovi giovani musicisti? È ovvio che i consigli da dare ad un giovane musicista oggi possano poi risultare estremamente retorici. Ma i consigli maggiori non li darei a loro, bensì a chi fa parte della filiera che li deve in qualche modo aiutare a essere conosciuti. Una filiera che oggi pare non esistere e - dopo un buon ventennio nel quale il jazz ha cavalcato le onde più alte della proposta culturale musicale nazionale - la "moda" sembra essere passata (qualcuno ahinoi l'ha addirittura chiamata così), facendo ripiombare il jazz nella situazione nella quale si trovava all'inizio degli anni Ottanta, vale a dire un angolo riservato ad una parte intellettualizzata di audience... un po' ciò che è capitato nell'ultimo secolo agli amanti della musica classica o seria, come qualcuno preferisce chiamarla. Il problema è che allora il mondo che ruotava attorno alle fenomenologie jazzistiche era assai ridotto; oggi non è più così perché invece e finalmente qualcosa è cresciuto. Ma, è come se avessimo costruito alvei decisamente più consoni alla portata di un fiume e scoprissimo di non avere acqua, rischiando dunque una maggiore e incoerente desertificazione.

Cannistraro: Come dicevo non sono un esperto e sono anche piuttosto pessimista. Con sarcasmo potrei consigliare loro un buon ufficio stampa!

Guidi: Devo dire che sono abbastanza disorientato; da quando ho iniziato trent'anni fatutto è cambiato e negli ultimi tempi a ritmi incalzanti. Gradirei anch'io qualche consiglio spassionato.

Lofoco: Bisognerebbe ri/provare un coordinamento a livello nazionale e non solo in piccole associazioni che possono diventare mini-racket. Più che cercare un'agenzia, consiglierei a un musicista di cercare una persona di fiducia a cui affidarsi. Io ho avuto la fortuna di aver incontrato Cristina Zavalloni che, quando ancora facevo l'operaio in Telecom, ha creduto in me affidandomi tutto il suo lavoro, nonostante non avessi alcuna esperienza come agente, aiutandomi e sostenendomi sempre, soprattutto nei primi anni di apprendistato. Sebbene da diversi anni non sia più io il suo agente le sono sempre molto riconoscente per questo.

Scaccia/Iubatti: Nessun consiglio, a sbagliare siamo già bravi da soli.

Crede che in Italia i musicisti siano poco tutelati o "protetti" in termini di occasioni di lavoro? Quale nazione europea secondo lei attua la politica più interessante in quest'ottica?

Albani: Da sempre in Italia il pressappochismo la fa da padrone. Non è bello dirlo, ma se stiamo qui a rispondere a interviste come questa una ragione ci deve essere. In Italia un musicista è tutto tranne che tutelato e protetto. Semmai coccolato nella maniera più sbagliata possibile e "onorato" solo se ad esempio capace di calcare improbabili scene televisive e altre situazioni mass-mediatiche del genere che andrebbero invece radicalmente rivoltate e riformate. Svizzera o Norvegia in modi diversi attuano politiche culturali di reale sussidio e di primaria importanza alla figura dell'artista. Semplicemente impensabile in un paese che invece dovrebbe vivere soltanto grazie all'immensa possibilità culturale che ha sotto i piedi e della quale nemmeno pensa che potrebbe essere in grado di gestire in modo coerente e costruttivo.

Cannistraro: Credo che in Francia la condizione dei musicisti sia molto migliore e che le spese per la cultura siano rimaste invariate, così come in altri paesi del Nordeuropa i lavoratori in genere sono più tutelati.

Guidi: Certamente. In Francia e in Nord Europa è un'altra storia.

Lofoco: Certo, direi per niente. L'Olanda mi sembra il miglior esempio, nonostante la Norvegia investa molti soldi, forse troppi, creando un inquinamento (petrolifero) nel mercato mondiale ove i loro artisti sono a mio parere troppo presenti. E nonostante la Francia li protegga di più, a mio parere troppo, divenendo fin troppo protezionistica, con clausole per i festival che sfiorano il razzismo culturale.

Scaccia [V. FOTO] / Iubatti: I giovani non sono poco tutelati, non lo sono assolutamente. Non c'è una legiferazione che aiuti la musica dal vivo, in questa direzione la parlamentare Celeste Costantino, di SEL, sta portando all'attenzione della politica problemi e proposte che spero aiutino la musica live.

Per esperienza diretta tra i Paesi europei che aiutano la diffusione dei propri artisti nel mondo noi diciamo la Norvegia. Qualcuno obbietterà che sono pochi e hanno il petrolio, resta il fatto che, invece che investire quei soldi sull'acquisto degli F35, aiutano i propri artisti. Sono scelte... A dirla tutta però neanche le agenzie in Italia sono tutelate, basti pensare che non esiste un albo professionale come nel resto del mondo. Si può operare tanto come associazione, per esempio, che come s.r.l., con tutte le grandi disparità dal punto di vista fiscale che ne conseguono.

Quali le principali difficoltà/oneri dal punto di vista fiscale che rendono a volte più complesso ingaggiare un artista italiano rispetto a uno straniero?

Albani: Francia e Italia, da questo punto di vista, hanno il più complicato possibile sistema gestionale dell'attività artistica. Dal punto di vista fiscale e previdenziale la situazione sarebbe anche corretta nei confronti di un musicista perché le basi di tutela del proprio lavoro e della propria arte esisterebbero. Il problema è che non esiste l'"altra" parte, cioè il mare dove poter vivere. Inoltre e infine il poco che esiste è inoppugnabilmente e sistematicamente bloccato da bizantinismi e burocrazia. Ovvio a quel punto che - almeno sino ad oggi perché è stato così - l'ingaggio di un musicista ad esempio americano rispetto ad uno italiano, possa valere una parte economica inferiore del quasi il 60% a scapito di quello italiano. Le cose stanno però cambiando, anche se lentamente... non però a favore del musicista italiano bensì nel senso di un aggravamento e di meno facilità di ingaggio di quello americano. Agli americani che sbarcano stanno cominciando a chiedere il permesso di lavoro e iniziano i distinguo anche sul semplice ingresso turistico.

Cannistraro: L'ENPALS, che serve solo a mantenere qualche posto di lavoro. Credo però che non si debba creare un "caso" fra italiani e stranieri: se non ci fossero agevolazioni per gli stranieri suonerebbero solo gli italiani e l'Italia sarebbe ancora più provinciale. Il jazz è nato negli Stati Uniti e abbiamo sempre qualcosa da apprendere. Mi sembra piuttosto che vada bilanciato maggiormente il peso che si dà a un musicista italiano di successo con quello che non si dà a ottimi musicisti emergenti.

Guidi: Per gli americani, presentando un documento pre-stampato che potrebbe ottenere anche il mio fruttivendolo, non si pagano i contributi previdenziali (più del 30% del cachet). Poi approfittando di un'interpretazione molto vaga dell'accordo in materia di doppia imposizione tra USA e Italia, molti non pagano nemmeno la ritenuta d'acconto (altro 30%). Quindi i conti sono presto fatti. È come se la Ford venisse a vendere le sue auto in Italia con questo tipo di agevolazioni. Sicuramente la FIAT non lo permetterebbe, da sempre i musicisti italiani invece assistono indifferenti. Ovviamente non sono per un protezionismo tout court, ma per una corretta interpretazione delle regole esistenti e addirittura per una nuova regolamentazione che metta tutti sullo stesso pian. Quando i musicisti italiani vanno all'estero le cose non sono così semplici. Lo scorso anno per effettuare un tour di Rava negli Stati Uniti ci sono voluti mesi di preparazione ed estenuanti e costosissime procedure per ottenere il visto; il 30 % dei compensi è stato poi trattenuto alla fonte.

Lofoco: Tante, troppe ed è la ragione per cui non lavoriamo praticamente mai con artisti italiani. Un italiano a cui vuoi dare un tot ti costa il doppio. Non c'è dubbio che la legislazione attuale li penalizzi tantissimo. Sono cose che si sanno da tempo e a cui non è mai stato posto rimedio. Forse un piccolo aiuto per i musicisti locali sarebbe perlomeno eliminare l'orrendo balzello SIAE per i club e piccoli teatri (diciamo sotto i 100 posti), di modo che la musica dal vivo riaffiorerebbe con i promoter che farebbero a gara per avere concerti di prestigio... ma siamo il Paese della mafia a tutti i livelli.

Scaccia/Iubatti: Un artista italiano, dal punto di vista fiscale e contributivo, pesa molto di più ad un organizzatore rispetto ad uno straniero. L'(ex)-ENPALS al 33% è un dato di fatto.

Molti musicisti lamentano il fatto che, pur spedendo in giro dischi e proposte, c'è un feedback molto basso. Proviamo a fare un po' l'avvocato del diavolo: quanto conta spedire un CD e quanto invece instaurare con i direttori artistici un altro tipo di relazione di conoscenza?

Albani: Credo in realtà che si sia arrivati ad un capolinea importante e che solo una rifondazione profonda del sistema possa dare speranze e ottimismo. Oggi "il lavoro" è già cambiato. Le major discografiche alle quali era una volta demandato il compito di curare la promozione di un artista sono in cerca (laddove ancora esistenti) di altre strade. Ma il discorso ha basi ben più nette e collegate all'insegnamento culturale nella scuola italiana. Manca nel modo più assoluto e, pertanto, laddove si parla di arte vera, non possiamo non essere di fronte alle domande di questa intervista.

Cannistraro: Il fatto è che una volta il disco era considerato, correttamente, un punto d'arrivo, mentre adesso è una base di lancio, ma le occasioni di esprimersi sono poche.

Guidi: Anch'io spedisco CD, cercando di indirizzarli a degli interlocutori sensibili a quel tipo di proposte che sto promuovendo. Essendo sulla breccia da decenni e lavorando sempre con gli stessi musicisti, ho un rapporto diciamo di fiducia con un certo numero di promoter, ma non per questo riesco a vendere concerti a scatola chiusa. Ogni volta è una battaglia e non ti regala niente nessuno. Quando sulla rete leggo di "potenti agenzie" di jazz mi viene da ridere.

Lofoco: Noi rispondiamo sempre a tutti i musicisti che ci contattano, anche se a volte il numero è impressionante. Immagino che instaurare un rapporto con un direttore artistico funzioni meglio. Da parte nostra, noi mandiamo le proposte in tutta Europa (e nel mondo per alcuni artisti con cui abbiamo esclusiva mondiale) e solo a un riscontro d'interesse mandiamo poi il CD dell'artista richiesto.

Scaccia/Iubatti: Spedire un CD ha i suoi costi, ma resta uno strumento indispensabile. Il supporto digitale dà i suoi frutti: un organizzatore intelligente non è un collezionista. Usa la musica che riceve come strumento di lavoro, vuole ascoltare ciò di cui si parla. CD, MP3, band sotto la finestra di casa di notte: l'importante è che arrivi la musica. Il feedback basso lo rileviamo anche noi, ma come si diceva poc'anzi, talvolta l'offerta è superiore alla domanda. I rapporti di conoscenza aiutano, ma si basano sulla fiducia reciproca. Un festival con cui abbiamo buoni rapporti sa cosa aspettarsi da noi. Nel bene e nel male naturalmente!

Quali sono secondo lei i tre festival o rassegne in Italia che hanno una visione strategico/culturale più interessante e innovativa?

Albani: Oggi, purtroppo, non esistono. Sino a pochi anni fa - a parte semplici "vetrine" sparse qui e là nel paese - avrei salvato "Itinerari Jazz" a Trento (lo metto al primo posto per l'importantissima parte didattica collegata oggi assimilabile soltanto a ciò che viene organizzato a margine dei Seminari Jazz di Nuoro e - in parte minore - a quelli di Siena) e i festival di Bolzano, Clusone e Verona. Taccio su "Time in Jazz" di Berchidda poiché ci sono implicato, ma che trovo comunque l'unico festival nella storia italiana che ha cercato di far nascere quantomeno un'idea differente di presentare l'offerta musicale collegandola al senso multidisciplinare delle arti, alla valorizzazione del territorio e alle nuove tecnologie verdi e sostenibili. Il risultato è stato la creazione di un indotto economico non indifferente che dovrebbe essere analizzato seriamente per essere portato ad esempio e - ancora una volta - fare riflettere.

Cannistraro: Non serve fare nomi, ma sono quelli in cui prevale il coraggio e non il conformismo e, come dicevo, prima, la formula concerti e workshops mi sembra la più valida strategicamente e culturalmente.

Guidi: Forse S. Anna Arresi è oggi il festival più interessante che c'è in Italia. Spezzo una lancia a favore di Young Jazz, del Musicus Concentus, di Correggio Jazz che da un paio di anni ha intrapreso una strada coraggiosa, del Centro d'Arte di Padova, del Torrione di Ferrara, tutti con precarie risorse economiche. Un tempo Clusone fungeva da esempio, ora con tagli brutali ai finanziamenti è ridotto al lumicino; spero solo che Livio Testa e i suoi amici tengano duro. Anche Ivrea e Novara fanno iniziative interessanti. Con la direzione artistica di Rava, mi sembra si stia facendo notare Bergamo Jazz, che cercando di rispettare la vocazione del festival, al contempo sta operando delle scelte coraggiose. Umbria Jazz ha destinato quest'anno una piccola parte del suo budget ad un festival nel festival (Young Jazz at Umbria Jazz); è un inizio promettente e spero che negli anni a venire vengano sempre impiegate più risorse in questa direzione. Se anche altri festival si aprissero altrettanto...

Lofoco: Ce ne sono non più di una quindicina ma non riesco a fare una selezione ulteriore tra questi 10: Centro d'Arte di Padova, Metastasio Jazz, Teatro Manzoni di Milano, Novara Jazz, Jazz & Wine of Peace, Angelica, Dialoghi Jazz, New Conversation, Lagarina Jazz, rassegne di Caligola.

Scaccia / Iubatti [V. FOTO]: Non sono tre, sono tanti.

Quali ritiene siano i doveri di un buon manager nei confronti dell'artista e del direttore artistico che mette in contatto?

Albani: Può essere retorico, ma il manager (che - lo ripeto anche perché nel nostro paese questa cosa non sembra essere minimamente compresa - non è un semplice agente) ha il compito di conoscere bene la vita artistica del musicista che segue e pertanto deve essere presente in tutti le fasi della costruzione di questa vita cercando di verificare le effettive esigenze del musicista e "mediandole" (se è il caso) con le necessità di un mercato nel quale farsi conoscere ed apprezzare. Verso un oculato direttore artistico il compito è invece di valutare insieme a lui le esigenze e le concrete possibilità rispetto al senso e al significato sia della storia del festival che del territorio nel quale trova il palcoscenico.

Cannistraro: Mi sembra di aver già detto tutto in risposta alle precedenti domande.

Guidi: Bisogna innanzitutto credere nell'artista, impegnarsi tantissimo e poi estrema correttezza, sia nei confronti dell'artista che nei confronti del promoter. Purtroppo questo secondo rapporto a volte non gode di reciprocità.

Lofoco: Lealtà, trasparenza e onestà. Noi informiamo sempre i musicisti dei costi e delle spese e ci facciamo carico di pagarli anche nel caso qualche promoter ci dia buca. Nonostante lavoriamo soltanto un 10% in Italia, solo nel nostro Paese ci è capitato più di una volta di non essere pagati... (per cui non soffriamo se lavoriamo poco in Italia). Bisognerebbe creare una blacklist di chi non paga o paga meno del pattuito nel contratto...

Scaccia/Iubatti: Un manager è un mediatore e deve far sì che entrambe le parti escano soddisfatte.

Ritiene che i musicisti che non trovano (per questioni stilistiche, di carenza di management o altro) spazio nei Festival debbano creare un circuito "alternativo" a quello dei festival e delle rassegne, con un pubblico e delle modalità differenti da quelle in uso? Se sì, come?

Albani: Bella idea, ma sostanzialmente impraticabile (ad eccezione di microscopiche realtà) nella situazione attuale. Pochi, comunque, fra loro, coloro i quali sarebbero in grado di svolgere egregiamente due mansioni così diverse fra loro. Una cosa è poterlo fare con una struttura alle spalle o sulla quale appoggiarsi, un'altra tentare di farlo senza una realtà sociale pronta a supportare almeno l'idea.

Cannistraro: L'unico modo e anche il più antico è quello di cercare degli spazi per farsi notare. Fare il manager di artisti sconosciuti è impossibile e la ricerca di un manager è sbagliata. Se un artista ha stoffa, prima o poi esce e alla lunga credo che i risultati si vedano anche in un posto strano come l'Italia.

Guidi: Un circuito alternativo sarebbe forse auspicabile con delle modalità su cui si deve certamente discutere e che non saprei indicare. Credo che il festival di Jazzit, ad esempio, non potrebbe essere rappresentativo di questo circuito. Il recente Jazzit festival ha probabilmente rappresentato un momento di scambio e di verifica tra addetti ai lavori, tra musicisti ed il pubblico. Forse qualcosa di simile, pur con molti distinguo, a quanto si è cercato di fare a Cagliari o si fa a Brema. A mio avviso per organizzare un festival infatti ci sono almeno due condizioni da cui non si può prescindere: la prima è che chi professionalmente presta la propria opera, dal tecnico del suono, all'artista che si esibisce sul palco, deve essere retribuito. La seconda è che ci deve essere una direzione artistica che operi una selezione qualitativa.

Lofoco: Assolutamente si, sarebbe auspicabile. Forse bisognerebbe creare tutti insieme un circuito alternativo, come faceva ad esempio il CircA vent'anni fa.

Scaccia/Iubatti: Sicuramente, in questa direzione credo che il collettivo Franco Ferguson con i suoi improring a Roma abbia aperto una via estremamente interessante capace di riunire musicisti di diverse estrazione. Il momento storico è sotto gli occhi di tutti: è fondamentale oggi che musicisti, manager, direttore artistici, media e tutto il movimento del jazz italiano debbano porsi delle domande e cercare di battere nuove strade per uscire fuori da questo momento nebuloso.

Pensa, al di là degli slogan, che ci sia realmente un pubblico del jazz in Italia, economicamente rilevante e costante? Se sì, come mai questo pubblico (se c'è) non riesce quasi mai a ingolosire qualche investitore nell'organizzazione di manifestazioni musicali jazz interamente sostenute da privati?

Albani: Purtroppo non lo penso in senso stretto. Se esistesse allora avremmo anche illuminati sponsor. In questi ultimi anni ne ho conosciuto soltanto uno (a Vicenza che, infatti, supporta e aiuta con passione il festival locale): una reale mosca bianca. Non dico però con questo che un pubblico non esista poiché - in effetti - laddove esiste anche una minima possibilità economica, i concerti sono spesso premiati da un confortante numero di presenze. Da qui, però, a chiamarlo "pubblico del jazz" (se non in maniera molto affettuosa) ce ne passa.

Cannistraro: Il jazz è sempre stato come un'onda, a fasi alterne. Credo che per tutta la grande arte ci sarà un futuro migliore. Il pubblico lo formano i media e in questo momento siamo ai minimi storici. Se non si provvede a una reale operazione di marketing sul jazz - e in televisione (esperimento fallimentare) non ci riesce nemmeno Bollani con il suo seguito - occorre che chi amministra la cultura, la Rai e i principali canali informativi si pongano il problema. L'Italia è un paese dalle potenzialità enormi in questo senso: ci sono molte persone soprattutto a Sud, che si industriano con mezzi propri per rendere possibile un festival, spesso con risultati fallimentari perché non supportati. Certamente in mancanza di una visione culturale volta in questo senso, è chiaro che nessun investitore è disposto a finanziare una manifestazione di nicchia. Il fatto che Umbria jazz stia diventando Umbria Pop la dice lunga: non è volontà del direttore artistico, ma dei politici che la finanziano. Bisogna solo sperare che in Italia si instauri una classe dirigente nuova.

Guidi: Con una politica fiscale diversa in materia di contributi per fini culturali si potrebbe avere un aiuto importante. Purtroppo oggi non è così...

Lofoco: Il pubblico c'è e spesso è più numeroso che in altri Paesi, dove però la cultura viene maggiormente sponsorizzata dalle istituzioni. In Italia il jazz che passa nei grossi media del nostro Paese è ridicolo (non solo nelle televisioni dove o è assente o è inutile, ma persino nei grossi quotidiani come ad esempio la Repubblica e il Corriere, in cui la pagina degli spettacoli mediamente è sconfortante); per cui gli investitori magari ci sono, ma se passa solo spazzatura è normale che il risultato finale sia questo.

Scaccia/Iubatti: Se un paio di anni fa sono state censite circa 700 realtà tra festival, manifestazioni e concerti significa che un pubblico c'è. Ancora una volta però minore dell'offerta. La domanda è intelligente e pertinente, la risposta non è all'altezza del quesito. Non sapremmo darla, anzi sullo spunto della sua riflessione ci ragioneremo. Se troveremo una chiave di volta nel 2014 organizzeremo un festival targato Around Jazz.

La foto di Vittorio Albani è di Claudio Casanova, quella di Toti Cannistraro è di Domenico Aronica.

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