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John Zorn "Moonchild"
Moonchild è l’ennesimo dei progetti partoriti dalla mente poliedrica, lucidamente visionaria spesso sfacciatamente ambigua di John Zorn. E come in altri suoi progetti, Zorn non vi appare in prima persona ma si posiziona dietro le quinte, in questo caso dietro al mixer, a tessere le fila del proprio mondo musicale. Lasciamo ad altri le analisi sociologiche, musicologiche, massmedialogiche, etc. che accompagnano ogni esibizione o uscita discografica di Zorn, per concentrarci semplicemente sull’aspetto musicale della sua performance milanese. E qui sorge davvero più di una perplessità.
Musica sfacciatamente ambigua si diceva. Perché se da una parte Zorn predica l’abbattimento dei generi, l’azzeramento delle specificità, la trasgressione espressiva portata alle estreme conseguenze, dall’altra il suo concerto del Manzoni è tutto un rituale di segni ampiamente codificati e ben presenti nel dna di una qualsiasi trash-death-heavy metal band di buon livello, urla luciferine, ansimi e grugniti del cantante compresi.
Certo alla batteria si ritrova un musicista del livello di Joey Baron, apprezzato nel mondo jazzistico per la sua sensibilità percussiva e tremendamente a proprio agio anche con la veemenza che caratterizza Moonchild; ed il bassista Trevor Dunn è indubbiamente un prodigio di tecnica, ma questo non fa altro che alimentare dubbi e cattivi pensieri sul reale significato di una simile operazione.
Musica sfacciatamente ambigua, perché Moonchild prevede Zorn nelle vesti di ideatore, progettista, responsabile luci e regista sonoro, promettendo chissà quali alchimie o quali imprevedibili accidenti sonori ed invece, appostato quasi distrattamente dietro il mixer con un sorriso sardonico stampato sul volto, si limita a svolgere un compitino che qualsiasi decente tecnico del suono eseguirebbe ad occhi chiusi.
Musica sfacciatamente ambigua, perché se fin dagli esordi è caratterizzata da una lotta senza esclusione di colpi contro l’establishment musicale e lo star system, poi vede Zorn comportarsi proprio come una capricciosa e maleducata pop star, scaraventando per terra i CD di un fan solo un po’ troppo sollecito al rito degli autografi...
Ed il suono? Sembrerebbe provenire direttamente dagli inferi, come la voce di Mike Patton, una sorta di Re Lucertola tarantolato di Morrisiana memoria che si getta a torso nudo sugli spettatori delle prime file, in un finale trash che sa molto di stantio. Sembrerebbe, perché alla fine la sensazione è che siano inferi di cartone, fasulli, artificiosi, come la musica proposta, plastificata, senza anima e senza cuore, con il cervello usato per un colossale imbroglio.
Se è vero che John Zorn può essere senza dubbio riconosciuto come una delle personalità imprescindibili per comprendere gli sviluppi della musica creativa degli ultimi decenni, è anche vero che non tutti i suoi progetti sono necessariamente toccati dalle stimmate della genialità. E questo Moonchild lo dimostra ampiamente: Songs without Words è il sottotitolo del progetto, ma a rimanere senza parole, alla fine, siamo rimasti noi.
Foto di Roberto Cifarelli [altre foto tratte da questo concerto sono disponibili nella galleria immagini]
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