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John Medeski, insospettabile solitario
ByNon sono posso definirmi un musicista jazz. E' descrivere che tipo di musica faccio io. So per certo che la mia musica viene "da dentro," e che l'improvvisazione è la dimensione che mi è più congeniale per esprimere tutto ciò
In solo o con il trio ha collaborato o si è esibito con la "crema" della scena musicale newyorchese e con personaggi del calibro di John Zorn, Marc Ribot, John Lurie, John Scofield e Steve Bernstein, e ha inciso brani con, tra gli altri, Rufus Wainwright, K.D. Lang, Iggy Pop, Maceo Parker, The Blind Boys of Alabama e Mavis Staples. Se non bastasse, ha recentemente dato alle stampe anche il suo primo album di piano solo, A Different Time. Una collezione di brani originali e di improvvisazioni che svelano un inedito aspetto del camaleontico musicista. Qui il tempo si dilata e tutto ha un andamento più rilassato, meditativo e introspettivo: una dimensione quasi antitetica a quella iperitmica e avant groove del trio.
«È una dimensione che mi è davvero congeniale - precisa Medeski, incontrato a Milano in occasione di un breve tour italiano in cui ha presentato in anteprima alcune nuove composizioni dell'album in uscita - e che scatena dentro di me nuove emozioni. È come esplorare un territorio musicale dove mi posso muovere in completa libertà. Per A Different Time suono un piano francese Gaveau del 1924, strumento di straordinaria raffinatezza, sia estetica che sonora, che non avevo mai sperimentato prima. Il suono di questo pianoforte, molto personale, tipico e caratterizzato da una morbidezza timbrica che non ha eguali, mi ha veramente conquistato. Quando ho risentito i brani registrati con il Gaveau sono rimasto sorpreso per la profondità e le sfumature che sono riuscito a donare alle composizioni».
All About Jazz: Sei dunque soddisfatto del risultato finale?
John Medeski: Assolutamente sì. Inoltre, l'album uscirà per una label storica e prestigiosa come la OKeh (riportata in vita dalla Sony Classical, N.d.R.) che è stata in passato l'etichetta discografica di pionieri del jazz come Louis Armstrong, Duke Ellington, King Oliver e Sidney Bechet. Entrare nella stessa casa di questi grandi maestri mi rende molto orgoglioso.
AAJ: Passiamo a parlare della tua fittissima agenda di impegni e collaborazioni che hai portato avanti anche recentemente con Billy Martin e Chris Wood. Puoi dirci con chi hai o avete suonato ultimamente e chi ti ha impressionato di più?
J.M.: Difficile fare una classifica. Mi ricordo però molto bene di tante "one night" al Blue Note di New York che hanno visto me e i miei compagni del trio confrontarsi con musicisti molto diversi tra loro. Da Marc Ribot a Bill Evans, da Nels Cline, famoso i suoi lavori con la band Wilco, a Marty Ehrlich, un grande sassofonista che meriterebbe più attenzione. Un altro maestro con cui abbiamo suonato recentemente, sempre al Blue Note, è stato Aïb Dieng, un fantastico percussionista senegalese. E, ovviamente, ci siano esibiti anche nella formazione classica di trio puro. Detto questo, ci piacerebbe collaborare con tantissimi altri artisti. E se non lo abbiamo fatto finora è soprattutto per motivi di tempo o di impegni.
Dovremmo presto fare qualcosa con un gruppo afro pop di Brooklyn, Antibalas, e abbiamo un progetto di collaborazione con un'orchestra a cui piace esplorare i territori della musica classica e della musica contemporanea chiamata Alarm Will Sound. Il suo direttore è Alan Pierson che è anche a capo della Brooklyn Philarmonic. L'ensemble è noto per aver riarrangiato in chiave acustica le composizioni di musica elettronica di Richard D. James, conosciuto anche come Aphex Twin, e rivisto in forma di musica da camera alcuni capolavori di Steve Reich. Questa collaborazione dovrebbe concretizzarsi entro il 2014.
AAJ: Trio a parte, tra le tue ultime cose ci sono gli Spectrum Road, supergruppo che ti vede insieme a Jack Bruce, Vernon Reid e a Cindy Blackman Santana. L'album omonimo, uscito nel 2012, ha avuto un buon successo e i vostri concerti hanno registrato grandi consensi a livello di pubblico. È un progetto che andrà avanti?
J.M.: Attualmente siamo tutti molto occupati, io, Jack Vernon e Cindy, ma c'è la volontà di andare avanti ed è possibile che registreremo presto un nuovo CD. Un lavoro che sarà molto diverso da Spectrum Road che era in pratica un omaggio a Tony Williams. Sarà un disco di sole composizioni originali. Quella con gli Spectrum Road è stata una grande esperienza: siamo nati come tribute band e ci siamo trasformati in pochissimo tempo in un vero gruppo.
AAJ: Un'altra collaborazione che mi ha sempre incuriosito è quella con Lee Ranaldo, chitarrista dei Sonic Youth. Ce ne puoi parlare?
J.M.: Con Lee ci siamo incontrati più volte e in occasioni diverse come festival o concerti. Tieni conto che i Sonic Youth sono un gruppo che mi è sempre piaciuto. Tutto è nato proprio da Lee che una prima volta mi ha chiamato per collaborare a una colonna sonora a cui stava lavorando. Si trattava delle musiche per il film "I'm Not There" diretto da Todd Haynes sulla vita di Bob Dylan. Una volta in studio la collaborazione si è sviluppata in modo molto naturale. Da allora, il nostro rapporto si è fatto più intenso e ho anche collaborato al suo ultimo album, Between the Times and the Tides, che è uscito l'anno scorso.
AAJ: Sei anche un noto produttore. Puoi dirci quali sono i tuoi programmi? C'è in giro qualche nuovo talento che intendi promuovere?
J.M.: Devo premettere che non faccio il produttore di mestiere e le volte che ho prodotto dei musicisti, ad esempio i Wood Brothers o i Campbell Brothers, l'ho fatto esclusivamente perché amavo follemente i loro progetti musicali. È un'attività che non faccio per soldi e, dunque, non cerco disperatamente qualcuno da produrre. Attualmente, sono molto concentrato sulla mia musica e sui miei progetti e, devo ammettere, che ho non tempo per altro. Ma se dovessi imbattermi in qualcosa di speciale, magari anche domani, potrei rivedere i miei piani.
AAJ: Nel tuo sito non ti definisci un musicista jazz vero e proprio. So che è una domanda un po' banale, ma se ti dovessi presentare a uno sconosciuto quale "cappello" musicale indosseresti?
J.M.: Sì è vero, non sono posso definirmi un musicista jazz. D'altronde è davvero difficile descrivere che tipo di musica faccio io o che tipo di musica faccia il trio. So per certo che la mia musica viene "da dentro," dai miei stati d'animo, dal mio spirito. E so che l'improvvisazione è la dimensione che mi è più congeniale per esprimere tutto ciò che ho dentro. Tanto che il mio slogan preferito è "music in the moment, for the moment". È questo un approccio comune ad altre musiche. Ad esempio, anche Beethoven era un improvvisatore e faceva musica "for the moment". Ugualmente Mozart. Poi la loro musica è stata trascritta, codificata. Lo stesso è accaduto con il jazz. Oggi, ad esempio, ci sono musicisti che riproducono esattamente, nota per nota, le composizioni jazz degli anni Cinquanta e Sessanta. Proprio come se fosse musica classica.
C'è anche un problema di prospettiva personale che alla fine può influenzare la collocazione di un musicista in un'area piuttosto che in un'altra. Se una persona è cresciuta ascoltando il be bop, Monk o Coltrane certamente classificherà la musica di John Medeski o del trio Medeski, Martin & Wood fuori dai canoni del jazz. Se una persona è, invece, cresciuta ascoltando i Beatles o Hendrix, Medeski è definitivamente jazz.
Tornando all'idea di musica dello spirito e di musica "for the moment," mi piace in particolare la musica classica indiana perché c'è molta improvvisazione e un feeling speciale di musica creata proprio per l'attimo.
AAJ: Facciamo un attimo un salto in un mondo fantastico per capire quali sono, al di là delle tue mille collaborazioni, i tuoi reali punti di riferimento. Se Monk, Coltrane, Davis e Williams fossero ancora vivi con chi preferiresti uscire a cena?
J.M.: Monk. Ma certamente anche Coltrane. Davis? Preferirei di no. Rischierei di essere preso a pugni.
AAJ: Tra le tue molteplici attività c'è anche quella di insegnante e di formatore. Insieme ai tuoi compagni del trio, Billy Martin e Chris Wood, collabori infatti ogni anno a un camp musicale nella regione delle Catskill Mountains, nello Stato di New York. Ce ne puoi parlare?
J.M.: È un'attività elettrizzante che mi gratifica molto. Ci sono allievi dai 16 ai 62 anni e il livello generalmente non è molto elevato. In altre parole, non è un camp per super professionisti della musica. Molti però vorrebbero diventarlo e a ogni edizione incontro allievi che sono molti dotati e che avrebbero le carte in regole per fare il grande salto nel mondo della musica professionale. Il camp dura cinque giorni e si lavora sodo, tanto che mi piace definirlo un "boot camp," che è il nome che utilizziamo negli Stati Uniti per identificare i centri d'addestramento dell'esercito. Si inizia a lavorare alla nove di mattina e si finisce a tarda sera. Abbiamo sempre uno special guest e ogni giorno, alla fine delle lezioni, c'è un concerto. E, dopo il concerto, c'è la proiezione di un film musicale. Il tutto termina verso l'una di notte. Quest'anno il camp non si farà essenzialmente per un problema di fondi, ma ci stiamo già organizzando per l'edizione 2014.
AAJ: Hai incrociato la tua strada con moltissimi musicisti diversi, solo alcuni citati in questa intervista, ma c'è ancora qualcuno con cui vorresti suonare o collaborare?
J.M.: Certamente, il primo che mi viene in mente è il trombettista Olu Dara, un musicista fantastico, uno spirito libero e un artista dotato di un eclettismo fuori dal comune. Credo che insieme formeremmo una combinazione perfetta. E, poi, un altro jazzista che ammiro moltissimo e con il quale non ho avuto finora l'opportunità di interagire è Roscoe Mitchell.
AAJ: Concludendo, hai mai pensato di collaborare con un jazzista italiano?
J.M.: Devo ammettere che non conosco molto la scena italiana. Ho suonato recentemente a Fasano come special guest insieme ai Bumps (un trio formato da Vince Abbracciante, Davide Penta e Antonio Di Lorenzo, N.d.R.) in un concerto omaggio a Ennio Morricone e mi piacerebbe ritornare entro la fine dell'anno a suonare nella Penisola, da solo o con il trio. Se così fosse, l'idea di collaborare con un jazzista italiano non mi dispiacerebbe proprio.
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